Storicamente, il culto delle principesse è emerso durante periodi di incertezza e profondi mutamenti sociali.

Miriam Forman-Brunell, storica

Ogni personaggio di finzione è strettamente legato all’epoca in cui è stato concepito, che lo definisce nel bene e nel male.
Questo è ancor più vero per i personaggi femminili, specchi di una condizione sociale mobile e complessa.

Le principesse Disney ne costituiscono un esempio magistrale: Biancaneve, Cenerentola e Aurora sono state concepite in tre periodi storici particolari e ben distinti, rispetto ai quali agiscono come ripetitori semantici, facendosi manifesto della condizione femminile e, più in generale, del clima sociale della loro epoca.

La seguente analisi vuole porre le basi di un discorso che possa ricollocare tali principesse all’interno del loro tempo, fornendo agli spettatori di oggi la giusta “lente” attraverso cui osservare questi personaggi.

Nell’ottica di una completa ricollocazione spazio-temporale, l’articolo è arricchito da riferimenti alla moda degli anni di lavorazione di ogni rispettivo film.
I costumi di questi personaggi, infatti, sono frutto di un mix di influenze, che parte dalla rielaborazione più o meno accurata dei costumi risalenti alle epoche storiche in cui i film sono (presumibilmente) ambientati, per poi sfociare nell’immaginario fantastico delle illustrazioni dei libri di fiabe occidentali del XIX secolo, fino a prendere spunto da tendenze e ideali di bellezza coevi all’uscita del film. È proprio su quest’ultimo aspetto che la mia ricerca desidera soffermarsi.

Per tale approfondimento, ho avuto il privilegio di contare sulla consulenza di docenti universitari, studiosi e storici della moda.
Il primo è stato Leonardo Campagna, dottore in Fashion Studies presso La Sapienza di Roma, a cui hanno fatto seguito David Roberts, professore presso il Marist College di New York e Daniel James Cole, professore presso la New York University e autore di Storia della Moda (Giunti, 2016).

1937 – Biancaneve

Contesto storico

Biancaneve è la perfetta incarnazione della cultura degli anni ’30.

Carmenita Higginbotham, storica dell’arte

Il film Biancaneve e i sette nani (1937) è stato realizzato ai tempi della Grande Depressione, la grave crisi che aveva colpito l’economia mondiale alla fine degli anni ’20, con forti ripercussioni sul decennio successivo.

Se durante la Prima Guerra Mondiale (1914-1918) c’era stato un aumento delle donne lavoratrici, pronte a sostituire i mariti impegnati al fronte, il termine del conflitto spinge a un ritorno della donna fra le mura domestiche, un richiamo che diventa mandatorio con lo scoppio della Grande Depressione poco più di dieci anni più tardi.

Con la disoccupazione in crescita, si diffonde il pensiero che le lavoratrici stessero “rubando” posti di lavoro agli uomini: in alcuni stati nord-americani c’erano perfino leggi che vietavano l’assunzione delle donne.
I media rispondono di conseguenza, promuovendo un’immagine della donna come “casalinga”, “madre” e “moglie” perfetta.

Secondo Cancian e Gordon, i magazine femminili di quegli anni spingevano le donne a sopprimere le loro “emozioni negative” per mantenere intatto il proprio matrimonio in un momento difficile, quello della Grande Depressione.
La dolcezza, la gentilezza e la capacità di mantenere il controllo e sostenere il proprio uomo nei momenti più difficili erano fra le caratteristiche dell’ideale femminile dell’epoca.
Caratteristiche che, non a caso, ritroviamo anche nella prima principessa Disney, Biancaneve.

Biancaneve si occupa delle faccende domestiche mentre i Nani, in quanto uomini, vanno a lavorare.
In questo modo, il film rimarca i rigidi schemi di genere della società degli anni ’30, con la moglie che “barattava” il proprio lavoro domestico con il vitto e alloggio garantitogli dal marito, dinamica che appare chiara nella scena in cui Biancaneve si offre di cucinare e pulire per i Nani in cambio di un rifugio.
È importante evidenziare come questa sfumatura sia presente solo nel classico Disney: nella fiaba dei fratelli Grimm sono i Nani a proporre lo “scambio”.

Nei confronti dei Nani, Biancaneve si comporta da moglie, ma anche da madre, minacciando di far loro saltare la cena se non vanno a lavarsi le mani.

Jacqueline Layng sostiene che le azioni di Biancaneve coincidano alla perfezione con il comportamento delle donne americane negli anni ’30. Non a caso, Elizabeth Bell scrive che la Disney “ha preso la favola di Biancaneve dei fratelli Grimm e l’ha resa tipicamente americana”, mentre Jack Zipes parla di un processo di disneyfication delle fiabe tradizionali, nelle quali vengono iniettati i valori fondamentali della società occidentale. Ricordiamo anche che, nel classico Disney, Biancaneve si cala fin da subito nel ruolo di casalinga perfetta, mentre nella fiaba dei Fratelli Grimm la casa dei Nani è perfettamente pulita e ordinata: è lei a metterla a soqquadro bevendo nei loro bicchieri e mangiando nei loro piatti.

Lasciando da parte questa rigida divisione di ruoli, la maggiore attinenza di Biancaneve con l’epoca della Grande Depressione si manifesta nella sua resilienza, nell’istinto di autoconservazione e nello spirito di adattamento che la contraddistinguono.
L’evento traumatico vissuto da Biancaneve all’inizio della sua storia trova un parallelo con la Grande Depressione nel momento in cui la principessa, anziché disperarsi, pensa ad una soluzione per sopravvivere.

Quando scopre che la Regina Cattiva la vuole morta, Biancaneve fugge e vive un momento di sconforto nella foresta, terrorizzata dall’aspetto cupo della natura che la circonda. Tuttavia, poco più tardi, si rende conto che piangere non serve a niente (se non a sfogarsi) e, circondata dagli animaletti del bosco, cerca di non pensarci, canta insieme a loro e alla fine, rasserenata, si convince che “Tutto andrà bene” (“Everything’s going to be alright”), un adagio che accompagna gli anni della Grande Depressione tanto quanto la pandemia che abbiamo vissuto nel 2020.

“Adesso basta, non ci voglio pensare più. Voi che fate quando avete un dispiacere? Oh, sì, ho capito: cantate!”

La risoluzione a cui Biancaneve giunge è, nuovamente, figlia di quegli anni (“Sono sicura che riuscirò a cavarmela [in qualche modo]”) e volge al senso pratico (“Però ho bisogno di un posto per dormire la notte […] forse voi conoscete un posto”). La sua situazione ricalca quella di milioni di americani che persero la loro casa a causa della Grande Depressione e dovettero trovare un nuovo posto in cui stare, in fretta.

Biancaneve cerca di trarre il meglio dalla propria situazione, riuscendo in qualche modo a “cavarsela”.
È in quest’ottica che anche il lavoro domestico in cambio di vitto e alloggio può slegarsi dalla concezione patriarcale ad esso legata, acquisendo rilevanza ancora oggi come metafora di intraprendenza e proattività.

In un periodo di forte crisi, Biancaneve, come le donne di quel periodo, persevera. Persevera nel portare avanti la casa, nel sostenere il marito, nell’accudire i figli, ma anche nel badare a sé stessa, nel non lasciarsi abbattere.
Trarre il meglio da ciò che si ha, generare risorse dal nulla… sono tutti valori ben presenti nei prodotti mediali di quegli anni: pensiamo ad esempio anche a Scarlett/Rossella O’Hara di Via col Vento, uscito nel 1939, disposta a confezionare un abito a partire da una tenda, in mancanza di altre risorse.

Anche il “look” di Biancaneve, come vedremo, riflette la semplicità dell’epoca: pur essendo una principessa, ha un abbigliamento tutto sommato semplice e modesto, ben lontano dal glamour dell’abito da ballo di Cenerentola.

Il sogno di Biancaneve in relazione al principe non si riferisce dunque solo ad un auspicabile futuro come moglie e come madre (ruolo per il quale la principessa si “allena” a casa dei Nani), ma costituisce più generalmente una metafora del superamento di un momento difficile, in questo caso la Grande Depressione. Se consideriamo questa visione, non c’è nient’altro che Biancaneve possa fare attivamente per far sì che il suo sogno si avveri: la fine di una grande crisi economica non è prevedibile, l’unica soluzione è continuare a fare il meglio che si può, in attesa di tempi migliori.

Nel periodo della Grande Depressione, Biancaneve e i sette nani ha costituito per milioni di americani una via di fuga dallo stress, una luce in fondo al tunnel: non è un caso che, alla fine del film, il castello del Principe si stagli, all’orizzonte, quasi come un traguardo impalpabile, onirico. La crisi del ’29 è il grande sonno nel quale gli Stati Uniti sono crollati, in attesa di un principe che li risvegli conducendoli verso nuovi, luminosi, lidi.

Moda

[Biancaneve] è un’interpretazione anni ’30 del passato.

Raissa Bretaña, storica della moda

Nell’aspetto di Biancaneve troviamo diversi riferimenti all’epoca in cui il film è uscito, gli anni ’30.

Partiamo dai capelli: il taglio corto è un’eredità del caschetto delle “maschiette” degli anni ’20, ma durante i ’30 si evolve in una forma più femminile, a clessidra.
La storica della moda Raissa Bretaña associa Biancaneve a Hedy Lamarr proprio a causa dei capelli corti, scuri e mossi.

Biancaneve capelli anni '30
Fonte

Il design del personaggio rispecchia decisamente l’ideale di bellezza del tempo, evidenziato dal trucco: ombretto viola, gote rosse, sopracciglia sottili e arcuate, ciglia lunghe e labbra marcate, che il Professor David Roberts associa a quelle di Mae West.

Biancaneve Mae West
“Sebbene la sua immagine fosse l’esatto opposto (ci aveva perfino scherzato su), la bocca di Mae West ha la stessa forma di quella di Biancaneve: entrambe sorridevano alzando leggermente il labbro superiore”, mi ha scritto il Professor Roberts.
La citazione riportata sull’immagine si potrebbe tradurre così: “Un tempo ero Biancaneve, ma poi sono andata alla deriva”.

Kendra di Frock Flicks associa Biancaneve ad altre “star” dell’epoca: Claudette Colbert, Loretta Young, Vivien Leigh.

Sia Biancaneve sia Claudette Colbert indossano un ombretto viola, ciglia accentuate con il mascara, sopracciglia sottili disegnate a matita, gote rosa, labbra rosse a forma di bocciolo di rosa.
Fonte

Per il fiocco, Kendra fa invece riferimento a Shirley Temple, spiegando come sia proprio quest’accessorio a enfatizzare la sua giovane età.

I fiocchi per capelli, come mi hanno spiegato il professor Roberts e il professor Cole, erano molto in voga negli anni ’30 non solo fra le bambine, ma anche fra le giovani donne.

Passando all’abito, possiamo evidenziare come le maniche a sbuffo fossero di gran tendenza sia negli anni ’30 sia nel XVI secolo, ossia l’epoca in cui – secondo Raissa Bretaña – il film sarebbe ambientato.

L'abito di Biancaneve è ispirato alle maniche a sbuffo degli anni '30
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Parlando della silhouette dell’abito, Leonardo Campagna mi ha spiegato che “durante la Prima Guerra Mondiale, molte donne avevano perso i mariti e avevano cominciano a fare tutto da sole: per questo cominciarono a privilegiare abiti comodi, che potessero favorire la libertà di movimento”.

L’abito da principessa di Biancaneve, infatti, ha una linea morbida, poco costrittiva sul corpo, e “non occupa spazio attorno a sé”, aggiunge Campagna.

“A livello storico, dovrebbe indossare un corsetto, ma questi smisero di essere di moda dopo la Prima Guerra Mondiale”, spiega il Professor Roberts, “quindi potrebbe trattarsi di un corpetto (smooth bodice)”.
“Dato che è molto giovane, non ha molto seno”, aggiunge Roberts, “ma non dobbiamo dimenticare che un sacco di donne negli anni ’30 non indossavano reggiseni o ne indossavano di soffici, senza fili”.
Il corpo di Biancaneve è soggetto, dunque, solo a un moderato livello di costrizione: infatti, sotto la gonna, indossa probabilmente “una sottoveste morbida, che non modifica la forma dell’abito”, ma è “semplicemente un ulteriore strato aggiunto per pudicizia”.

La silhouette morbida dell’abito, unita all’enfasi che la caratterizzazione del personaggio riserva alle faccende domestiche, me l’ha fatto associare agli abiti da casa degli anni ’30, ma il professor Roberts è più propenso a ricondurla alle “linee generali” che hanno contraddistinto la moda dell’epoca.

Il colletto bianco che troviamo nell’abito di stracci di Biancaneve era invero molto comune nella moda del tempo (non solo negli abiti da casa), in accoppiata con le maniche a sbuffo.

Passiamo dunque alle scarpe: come evidenziato da Raissa Bretaña, la loro silhouette arriva direttamente dagli anni ’30, così come il piccolo fiocco che le adorna: le shoe clips erano molto popolari, all’epoca.

Le scarpe di Biancaneve hanno una silhouette anni '30
Fonte

1950 – Cenerentola

Contesto storico

Nel 1950, Cinderella simboleggiò non solo una trasformazione estetica, ma anche una trasformazione culturale.


Kimberly Chrisman-Campbell, storica della moda

Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, le donne avevano costituito una grande risorsa nella forza lavoro internazionale, colmando i posti vacanti lasciati dagli uomini, impegnati nel conflitto.
I media elogiavano il modello di Rosie the Riveter, personaggio fittizio protagonista di una campagna volta a promuovere una nuova immagine di donna intenta a occuparsi di mansioni precedentemente riservate agli uomini.
Nel contesto della Seconda Guerra Mondiale, il lavoro femminile veniva quindi valorizzato e imbevuto di ideologie patriottiche.

Tuttavia, al ritorno dalla Guerra, gli equilibri furono presto ristabiliti. Un’analisi di Carcian & Ross relativa ai contenuti dei media negli anni ’50 ha rilevato che, rispetto al periodo della Guerra, c’era una minore attenzione verso temi e problematiche femminili e una maggiore enfasi alla dimensione domestica, con un ritorno alla famiglia come la priorità di ogni donna. Veniva inoltre posta l’attenzione sulla riproduzione come chiave per la ricostruzione del mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale, mentre il presagio della Guerra Fredda si stagliava in sottofondo.

Come osserva Melissa Dabakis, nessuno dei film prodotti dalla Walt Disney dal 1937 al 1950 presenta, fra i suoi personaggi, una principessa. La studiosa ipotizza che questa mancanza non sia casuale, così come non sia casuale il ritorno alle storie di principesse nel 1950.
Se, nel corso della Guerra, il modello di massima aspirazione femminile era Rosie the Riveter, con il ritorno degli uomini al fronte servivano nuovi modelli che riportassero le donne nell’ambiente domestico.
È in questo clima che esce Cenerentola.

Promuovere l’attitudine domestica a tratto distintivo del personaggio di Cenerentola sarebbe, tuttavia, un errore madornale.
Gran parte della storia è incentrata sul fatto che le faccende domestiche costituiscano, per la giovane, una costrizione.
Siamo ben lontani dalla situazione di Biancaneve, che si dedica di sua spontanea volontà a ripulire la casa dei Nani, e che non viene mai mostrata affaticata né risentita per la sua condizione, neanche all’inizio del film, quando è obbligata a svolgere faticose mansioni domestiche per conto della Regina.

Pur valutando positivamente la sua diligenza, è il film stesso a dirci che la situazione in cui Cenerentola si trova è ingiusta.
Lo capiamo anche perché alla protagonista viene permesso di proferire lamentele a mezza voce, lasciarsi andare a sospiri e lanciare frecciatine alle spalle delle sorellastre.

In contrasto con Biancaneve, che lavora in casa e sogna l’amore, Cenerentola rappresenta una donna/casalinga, quella degli anni ’50, che adempie ai propri compiti, ma si concede il sogno di uscire dalla propria routine, anche solo per una notte (“A mezzanotte precisa l’incanto finirà e tutto tornerà come prima”), ricorrendo, se necessario, anche a un pizzico di sfrontatezza – nel film ribadisce più volte, di fronte alla Matrigna e alle sorellastre, il suo diritto a partecipare al Ballo, a cui si recherà, infine, di nascosto.

È importante notare come la canzone portante di Cenerentola, ossia A Dream Is A Wish Your Heart Makes, non abbia direttamente a che fare con un principe come il brano Someday My Prince Will Come di Biancaneve, né con l’amore in senso generale, come in Once Upon A Dream della successiva Aurora (La bella addormentata nel bosco, 1959).
Il grande sogno di Cenerentola è quello di ottenere una vita migliore, ma il suo obiettivo a breve termine è sicuramente quello di recarsi al Ballo – non per incontrare il principe, ma per divertirsi passando una serata diversa dal solito, nello sfarzo del palazzo reale.

Lo spiega bene la doppiatrice originale di Cenerentola, Ilene Woods:

[Cenerentola] voleva semplicemente andare al ballo! Non pensava che avrebbe poi sposato il principe, la sua intenzione era principalmente quella di andare al ballo e passare una bellissima serata.

Qui ci ricolleghiamo strettamente al contesto storico: con la ricerca di uno scintillante svago, e la sua mirabolante trasformazione, Cenerentola diventa la metafora non solo della ripresa dopo il conflitto mondiale, ma anche di una nuova spinta al consumismo, figlia del boom economico del Secondo Dopoguerra.
Il concetto è quello di una metamorfosi che rende irriconoscibili, una concessione allo sfarzo che si distacca ampiamente dalla modestia di Biancaneve, un “sogno americano” che si erge vittorioso, come se la Guerra non fosse mai avvenuta.

Kimberli Chriman-Campbell paragona le due sorellastre e la Matrigna alle potenze dell’Asse (Germania, Giappone, Italia), sconfitte dagli Alleati nel secondo conflitto mondiale, associa gli animali (trasformati dalla Fata Madrina in cavalli e cocchieri) ai cittadini americani che godono di assunzioni e promozioni a seguito del boom economico, mentre le zucche degli “orti di guerra” diventano mezzi di trasporto verso la vittoria e il “nuovo look” di Cenerentola diventa simbolo della rinnovata potenza americana, basata sul capitalismo liberale: “Quale migliore metafora di una scarpetta di vetro, per questa fragile prospettiva di pace e prosperità?”.

Per leggere il mio articolo in difesa di Cenerentola, clicca qui.

Le sorellastre e la matrigna nel classico Disney "Cenerentola" (1950)
Sempre in collegamento al Secondo Dopoguerra, c’è anche chi sostiene che la competizione fra le sorellastre e Cenerentola sia un riferimento alla penuria di uomini a seguito del conflitto mondiale.

Moda

Se vuoi sapere tutto sulla moda del Dopoguerra, guarda Cenerentola.

Emanuele Lugli, storico dell’arte

Nel Secondo Dopoguerra, la produzione di massa si rivolge, mai quanto prima, alle donne.
Gli spot degli articoli per la casa vengono trasmessi a ripetizione per le casalinghe, chiuse in casa a cucinare, pulire e a guardare la TV, che diventano consumatrici attraverso i loro mariti, propensi ad acquistare tutto ciò che occorre per portare avanti la casa.
Ma il desiderio d’acquisto al femminile non si ferma alla dimensione domestica (quella in cui Cenerentola è intrappolata), ma si dirige verso universi onirici, come quello della moda.

Al termine della Seconda Guerra Mondiale, le donne americane sentivano il bisogno di “sognare”. Dopo aver vestito i panni di Rosie The Riveter, fra tute da lavoro e uniformi militari, desideravano tornare a incarnare un’ideale di femminilità legato, come spiega Leonardo Campagna, “al romanticismo e alla tenerezza”, e per farlo erano disposte a rinunciare al confort. Tornano quindi i corsetti, le crinoline, la silhouette della moda di fine ‘800, per “sognare un’epoca in cui la guerra non c’era ancora e quindi in cui non dovevano per forza ‘fare gli uomini'”.

Mina Le associa l’abbigliamento da lavoro di Cenerentola alle tute con cui le donne americane lavoravano durante la Seconda Guerra Mondiale.

Naturalmente il paragone sussiste anche con le tenute da casalinga anni ’50: qui vediamo dei fotogrammi dalla sit-com I Love Lucy, che debuttò nel 1951.
Il professor David Roberts trova una certa somiglianza con gli abiti da lavoro di Cenerentola per quanto riguarda la silhouette, la lunghezza della gonna e le scarpe (“flat black ‘ballet’ shoes”), caratteristiche che ritroveremo in parte anche nell’outfit di Rosaspina, alias Aurora
de La bella addormentata nel bosco (1959).

Cenerentola passa quindi dalla “moda da tessera alimentare”, come la definisce Kimberly Chrisman-Campbell, a quel “New Look” inaugurato da Christian Dior tre anni prima dell’uscita di Cenerentola nelle sale americane.
Dopo un decennio di razionamento, regolato da restrizioni in merito agli sprechi di tessuto, Dior riporta in auge la silhouette a clessidra del XIX secolo, con le spalle morbide e arrotondate, le maniche attilate, i colli a scialle, la vita stretta e le gonne ampie e scintillanti, con orli fino al polpaccio.
È un look che ben si adatta a una generica ambientazione da fiaba.

La silhouette del New Look di Christian Dior ricorda la moda del 1870-1880, epoca vittoriana in cui sarebbe presumibilmente ambientato il classico Disney Cenerentola.
Fonte.

La fama di Christian Dior negli Stati Uniti trae le sue radici da un tour promozionale effettuato dallo stilista nell’inverno nel 1947, con tappe a New York, Dallas, Chicago, San Francisco e Los Angeles, dove – poco dopo la sua partenza – la Disney cominciò a lavorare proprio a Cenerentola.

Pin on Cinderella
Emanuele Lugli ritiene che non sia un caso che la trasformazione di Cenerentola avvenga in un giardino: “Dior ha chiamato molti dei suoi abiti con nomi di fiori e ha chiamato ‘Corolla’ la sua prima silhouette, la cui gonna fluttuante vortica dalla vita come i petali spuntano dai gambi”.

Christman-Campbell sostiene che nessun classico Disney parli di moda quanto Cenerentola, in quanto ogni punto focale della trama è incentrato su un abito o un accessorio. Pensiamoci: dalla scena in cui le sorellastre le strappano l’abito al momento della trasformazione, dalla perdita della scarpetta alla sua rottura, fino al colpo di scena finale (“Ma vedete, io ho l’altra scarpetta!”), il guardaroba della protagonista è sempre al centro della storia.
Christman-Campbell sostiene che sia stata una scelta della Disney, che avrebbe enfatizzato quest’aspetto rispetto alla fiaba originale, ricevendo critiche per averla trasformata in una “fantasia capitalista”.

L’autrice continua scrivendo che l’abito da casa di Cenerentola (“una gonna dritta che arriva al ginocchio”) si adatta perfettamente all’Utility Clothing Scheme, ossia le indicazioni restrittive per l’abbigliamento in tempo di guerra.
“Mentre la sua situazione continua a peggiorare, i suoi vestiti diventano sempre più stracciati e pieni di toppe”, a partire dal “grembiule strappato” e dal fazzoletto bianco in testa, “un elemento fondamentale della moda femminile durante la Seconda Guerra Mondiale, quando i materiali per la fabbricazione di cappelli scarseggiavano”.

Il suo abbigliamento, fuori moda e rovinato, è ciò che rende ancora più incisiva la trasformazione.
Christman-Campbell scrive che l’abito rosa di Cenerentola, con i fiocchi e le balze, ricorda un “vestito di seconda mano di prima della Guerra”, associando alla moda di Biancaneve il fiocco bianco che le adorna la testa.

Emanuele Lugli trova invece un arguto riferimento a un’altra importante stilista, anche lei simbolo di un’epoca.
Nella sua autobiografia del 1956, Christian Dior attribuisce il successo del suo “New Look” al desiderio delle sue clienti, ormai stanche dello stile eccentrico di Elsa Schiaparelli, di tornare a silhouette più sobrie.

La Schiaparelli era solita decorare i propri abiti con paillettes luccicanti, ricami fantasiosi, elaborati bottoni e, soprattutto, ingombranti fiocchi. Non a caso, una delle sue fotografie più famose la ritrae con un enorme fiocco che fuoriesce dal blazer nero, una citazione di una delle sue opere più famose, il bowknot sweater del 1927: un maglione adornato da un fiocco immaginario, realizzato secondo la tecnica del trompe l’oeil.

L’abito rosa di Cenerentola viene presentato quindi come una parodia dello stile Schiaparelli, ormai datato: il riferimento appare evidente anche dal colore scelto, il famoso rosa shocking reso popolare dalla stilista nel 1936 (qui per saperne di più).

Lugli spiega che “le sorellastre e la matrigna lo distruggono perché anche loro stanno indossando abiti di Schiaparelli, che nel 1948 stava riportando in auge gli abiti con il panier stile “end-de-siècle” sulla parte posteriore, un’omaggio a Toulouse-Lautrec”.

Lugli aggiunge che l’umiliazione di Cenerentola nell’essere ridotta in stracci ha a che fare con il suo “gusto sorpassato” in fatto di moda. Ironicamente, anche l’abito strappato potrebbe essere un riferimento a Schiaparelli, nello specifico il “Tears Dress” realizzato con Salvador Dalì nel 1938.

L’opera, che si basa anche in questo caso sul trompe l’oeil, vuole ricreare la sensazione di un vestito strappato: per farlo, sono state utilizzate delle fodere in color rosa e magenta, che rimandano direttamente all’abito strappato dalle sorellastre di Cenerentola.

In inglese, la parola “tears” significa sia “strappi” che “lacrime”…

Il contrasto con l’abito che le sarà donato dalla Fata Madrina è evidente. Quest’ultimo, definito da Chrisman-Campbell come “un ibrido fra la formalità del diciottesimo secolo e il glamour degli anni ’50”, ha maniche corte a sbuffo e una gonna ampia, con una sopragonna arricciata che evoca sia lo stile polonaise del XVIII secolo che la giacca-peplo dell’iconico Bar Suit di Dior.

L’abito di Cenerentola, pur essendo ispirato alle silhouette dell’epoca vittoriana, appare decisamente “moderno” rispetto a quelli delle sorellastre e della Matrigna, che sono una parodia della moda del 1880 con le loro enormi “imbottiture” sul retro, causate dalla tournure. Questo contribuisce a rendere la sua metamorfosi ancora più distintiva: gli altri personaggi sembrano usciti dall’epoca vittoriana, mentre Cenerentola, che inizialmente sembra una lavoratrice della Guerra o una casalinga, appare prima con un “look” fuori moda di qualche decennio (e questo, secondo Lugli, contribuisce a generare un senso di compassione nello spettatore) e poi con lo straordinario abito finale, che la incorona “principessa” del 1950.

È importante notare come la trasformazione dell’abito di Cenerentola sia semplice e veloce, in netto contrasto con la lunga e faticosa lavorazione dell’abito precedente (quello rosa), per mano dei topini.
Secondo Emanuele Lugli, la trasformazione di Cenerentola “da serva a principessa” è la rappresentazione metaforica del passaggio fra la sartoria artigianale in tempo di guerra alle creazioni prêt-à-porter degli stilisti del Dopoguerra, Christian Dior in primis.

È come se Disney stesse rendendo omaggio alle strategie di marketing delle case di moda parigine dell’epoca, che dipingevano gli stilisti come maghi in grado di create magicamente gli abiti a partire dai loro schizzi.
Come Chanel, che “si vantava di non essere in grado di cucire neanche un punto”, anche Dior si distacca dal lavoro manuale: se pensiamo alle sue foto, è difficile che venga raffigurato mentre tiene in mano anche solo uno spillo; al contrario, si fa ritrarre mentre disegna su tavole, contempla campioni di tessuto, indica le caratteristiche degli abiti con il suo bastone da passeggio.
E questo è esattamente ciò che fa la Fata Madrina in Cenerentola: osserva la figura della sua “modella”, riflette, poi dà un’altra occhiata; solo a un certo punto usa la sua bacchetta come fosse un metro, citando probabilmente una famosa fotografia di Dior, intento a misurare la “pericolosa” distanza fra l’orlo della gonna di uno dei suoi abiti e il pavimento, in riferimento alle critiche che l’avevano colpito in merito al presunto “spreco” di tessuto dei suoi modelli a seguito del razionamento della Guerra.
Questa polemica aveva trovato terreno fertile negli Stati Uniti, tanto che venne addirittura organizzata una protesta fuori dall’hotel in cui Christian Dior alloggiava a Chicago. Come spiega Emanuele Lugli, le sue lunghissime gonne sembravano voler “accorciare il lutto della Guerra”.

Il collegamento fra Dior e Cenerentola è talmente palese che lo stesso stilista se n’è riappropriato con orgoglio: nella sua biografia si definisce, in quanto couturier, come uno degli ultimi possessori della bacchetta della Fata Madrina di Cenerentola. “Ora che la Fata Madrina […] non esiste più, lo stilista dev’essere il nuovo mago”, scrive.
Inoltre, Dior definisce “perfetto” il corredo della giovane principessa e, nell’anno d’uscita del classico Disney, realizza una linea di abiti da sposa ispirati al personaggio (Cinderella Fantasies).

C’è anche chi, come Amanda Hallay, sostiene che la Fata Madrina non sia nient’altro che Dior in persona sotto false vesti: che dire, la somiglianza c’è… che sia un omaggio voluto?

Emanuele Lugli conclude dicendo che la popolarità del film, con il suo forte messaggio di ripresa consumistica, riflette il successo post-guerra dello stesso Dior, anch’egli protagonista di una storia in stile Cenerentola. Partito da Granville, in Normandia, Dior diventa il più importante stilista del Dopoguerra: grazie a un pizzico di fortuna (o di magia?), riesce a fare un’ottima impressione al suo primo “fashion ball” grazie a un team di aiutanti che non si stancherà mai di ringraziare, come Cenerentola con i topini.

Steve Thompson — Presenting my original artwork for Cinderella as...
Nel design di Steve Thompson, realizzato nel 2018 per la serie di bambole del Disney Store a edizione limitata che riprendono lo stile dell’anno d’uscita dei classici delle Principesse, torna più che mai evidente il riferimento al New Look di Dior.
Qui per vedere le altre principesse.

Archiviati gli abiti di Cenerentola, parliamo del resto del suo “look”.
Quando si trasforma, i capelli lunghi fino alle spalle, arricciati sul fondo in stile anni ’40, sono sostituiti da una frangia bombata anni ’50 e da un sofisticato chignon.

A sinistra, Lana Turner.

Un’altra papabile ispirazione è Judy Garland in Incontriamoci a Saint Louis (1944).

La capigliatura è curiosamente somigliante a quella della casalinga Lucy Ricardo (interpretata da Lucille Ball), protagonista della già citata sit-com I Love Lucy, che debutterà un anno dopo l’uscita del classico Disney.

Per quanto riguarda il colore di capelli di Cenerentola (definito ufficialmente burnt orange, “arancio bruciato”), sappiamo che andava piuttosto di moda fra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’50, anche grazie al successo dell’attrice Rita Hayworth.
Proprio frugando fra la filmografia di quest’ultima troviamo un film del 1941 che, fin dal titolo, fa riferimento alla tonalità dei suoi capelli: Bionda Fragola (Strawberry Blonde).
Fra le immagini promozionali del film ne possiamo trovare una in cui la Hayworth assomiglia davvero molto alla Cenerentola del Ballo: a completare il look c’è anche l’iconico collarino/girocollo nero.
Una somiglianza altrettanto evidente è quella con La Goulue arrivant au Moulin Rouge (1892), di Toulouse-Lautrec, a cui gli animatori potrebbero essere facilmente giunti facendo ricerche sull’arte francese del XIX secolo.

Lugli fa notare, inoltre, che le due attrici Celeste Holm e Loretta Young avevano ritirato entrambe un Oscar nel 1948, proprio nel periodo di produzione di Cenerentola, indossando un collarino – quello della Young è piuttosto simile a quello della protagonista del classico Disney. In quell’anno, la Disney era stata nominata due volte nella categoria Best Short Subject: qualche rappresentante della compagnia era sicuramente presente alla cerimonia, e molti altri l’avranno seguita in tv, magari prendendo ispirazione per il design del loro nuovo personaggio femminile.

Chiudiamo l’analisi dell’abito da ballo di Cenerentola con l’elemento che si rivelerà fondamentale per il suo destino, le scarpe di vetro (di cristallo, nella versione italiana): la silhouette riprende esattamente quella delle “pumps” in voga fra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’50.

Prendiamo ora in considerazione il finale del film, quindi l’outfit che Cenerentola indossa al suo matrimonio: anche in questo caso, la silhouette è ispirata al “New Look”.

Your Wedding. Planned to Perfection. | Disney princess wedding, Disney  bride, Cinderella cartoon
Kimberly Chrisman-Campbell fa notare che il Principe indossa un’uniforme militare (anche) nel giorno del suo matrimonio, un probabile riferimento alle nozze dell’allora principessa Elisabetta d’Inghilterra con l’ufficiale Filippo Mountbatten, che diventa principe consorte, avvenute nel 1947.
Il ricordo del matrimonio, che nel 1950 era ancora fresco nella mente della gente, avrebbe influenzato l’universo delle principesse fantastiche, che imitano quelle reali: “Princess fantasies have always been tied to the fates (and fashions) of real, live princesses”, scrive l’autrice.

Notiamo due dettagli importanti:

🌸 Il copricapo appuntito, vagamente ispirato al russo kokoshnik, era piuttosto diffuso fra le spose degli anni ’40.

🌸 Sul corpetto notiamo un’apertura diagonale, in inglese surplice bodice, che si potrebbe tradurre con “corpetto incrociato”, in voga ai tempi della realizzazione e dell’uscita del film.

Qui sotto, altri esempi di abiti da sposa dell’epoca.

Qui sotto, un abito da sposa del 1949 molto simile all’abito che Cenerentola indossa al Ballo.

1949 Ad Vintage Murray Hamburger Satin Wedding Dress Bride Bridal Gown –  Period Paper

1959 – La Bella Addormentata

Contesto storico

Aurora è il prototipo della Baby Boomer.

Rebecca-Anne C. Do Rozario

La Bella Addormentata esce nei cinema nel 1959, a metà strada fra il conservatorismo degli anni ’50 e la Second Wave del femminismo anni ’60, generatasi in risposta all’immagine domestica che tanto era stata inculcata alle donne nei due decenni precedenti.
Il rifiuto di modelli di femminilità considerati arcaici porterà a una soluzione drastica: durante tutti gli anni ’60 e ’70, la Walt Disney non produrrà nessun film d’animazione che presenti fra i suoi personaggi una principessa.
Il personaggio che più si avvicina a quell’archetipo è Lady Marian di Robin Hood (1973) che non ha però fattezze umane.

Ma qui siamo, ancora per poco, negli anni ’50, e di Aurora ne parliamo per un altro motivo: è la prima principessa-teenager.

La figura del teenager nasce alla metà degli anni ’50, insieme all’affermarsi dell’immagine della tipica famiglia americana medio-borghese. A metà fra la bambina e la donna, la teenager nasce come conseguenza del grande “Boom” di quegli anni: le accresciute possibilità economiche, insieme alla nascita del “tempo libero” dal lavoro, permettono un maggiore dispendio di soldi da parte di tutti i componenti della famiglia, figli inclusi. È questa maggiore disponibilità di denaro che porta alla nascita dei teenager, che cominciano a costituire una vera e propria quota di mercato, che diventa presto ambitissima. Fra i primi a sfruttare questa nuova risorsa economica c’è sicuramente l’industria discografica, che propone nuovi idoli per i giovanissimi, ma anche quella della moda: entrambe accentuano un gap generazionale fra genitori e figli che comincia a farsi sempre più profondo.

A proposito di moda, la studiosa Rebecca-Anne C. Do Rozario paragona Aurora a Barbie, la celeberrima fashion doll nata nello stesso anno.
In effetti, Barbie è stata la prima bambola teenager, inizialmente presentata da Mattel come una modella adolescente.
Prima di lei, le uniche bambole con cui giocavano le bambine rappresentavano neonati o bambini molto piccoli, rispetto ai quali si ponevano come madri. Ecco quindi il concetto fondamentale: prima della nascita della teenager, esistevano solo bambine (figlie) o donne (madri). Quando una bambina cresceva, diventava automaticamente donna, doveva sposarsi e generare figli: il gioco stesso serviva a “prepararla”, così come il soggiorno di Biancaneve a casa dei Sette Nani sembrava volerla preparare a diventare una moglie e una madre.
Barbie, invece, rappresentava un’immagine di donna a metà fra le due, un modello femminile che, in virtù della sua giovane età, avrebbe potuto godere di una libertà temporanea, non essendo ancora “in età da marito”. Nonostante le numerose “Barbie sposa”, infatti, la bambola più famosa del mondo (di cui ho parlato qui) non si è mai ufficialmente sposato, né ha avuto figli.

Pur apparendo solo per 18 minuti all’interno del film (non a caso, ho scritto un articolo spiegando perché le tre Fate sono in realtà le protagoniste de La bella addormentata), quello che vediamo di Aurora è sufficiente a classificarla come teenager.
Do Rozario scrive che Aurora è “il prototipo della Baby Boomer”, che “passeggia a piedi nudi nel bosco, non si interessa degli affari dei re, si dispera quando le viene detto che è una principessa e quindi non potrà recarsi all’appuntamento con il ragazzo che ha conosciuto nel bosco”.

Se ci pensiamo bene, Aurora si dispera per un avvenimento che non è niente in confronto a ciò che Biancaneve o Cenerentola hanno dovuto subire. Queste ultime sono state rese schiave dalle rispettive matrigne, con Biancaneve che addirittura sperimenta un tentato omicidio; di contro Aurora, alias Rosaspina, passa un’infanzia e un’adolescenza serene: ignara del piano che Malefica ha ordito per maledirla, vive nella capanna nel bosco insieme alle tre amate “zie” (Flora, Fauna e Serenella).

Aurora/Rosaspina ci viene presentata mentre svolge le faccende domestiche, anche se questo aspetto non è determinante come per Biancaneve e Cenerentola: di certo non è una “serva”, si può pensare che semplicemente aiuti le Fate a mantenere in ordine la casa.
In quel momento sta pulendo da sola perché Flora, Fauna e Serenella sono intente a pensare al suo regalo di compleanno.
La teenager è quindi mandata dalle Fate a “raccogliere bacche” nel bosco: per la giovane è un occasione per incontrare gli animali del bosco e fantasticare sul suo amore immaginario (comportamento da tipica teenager).

Un enorme privilegio che le due principesse precedenti non hanno avuto è proprio quello di poter godere dell’affetto di figure adulte che si dimostrino “materne” nei loro confronti: oltre a crescere come la “figlioccia” delle tre fate/contadine, Aurora potrà sperimentare anche lo status di “figlia”, seppur immediatamente associato a quello di “moglie”, essendo la prima principessa ad avere dei genitori – ad oggi, è una delle poche ad avere una madre ancora in vita.

Pur ridimensionando l’entità del suo dramma in un’ottica adolescenziale, dobbiamo riconoscere che è proprio questo suo disperarsi per amore l’aspetto che dà vita ai lati più interessanti e – se vogliamo – “rivoluzionari” del personaggio.
Aurora, infatti, manifesta chiaramente le sue emozioni scoppiando a piangere nel momento in cui le Fate le rivelano che non può più rivedere il ragazzo incontrato nel bosco perché è stata promessa sposa ad un altro uomo.
Pur acconsentendo rassegnata, di fatto Aurora risponde con dolore e riluttanza all’autorità, evidenziando sia l’importanza di una libera scelta in fatto di amore, sia una generale insofferenza nei confronti di regole e imposizioni che ai suoi occhi sembrano venire un altro tempo (lo dice anche il principe Filippo: “Ma padre, tu sei troppo all’antica, siamo nel quattordicesimo secolo!”) e da un’altra realtà. Aurora, infatti, è abituata a una vita semplice, vissuta giorno per giorno; non dobbiamo dimenticare che, pur essendo una principessa di nascita, ha sempre vissuto come una contadina, la cui maggiore preoccupazione era appunto quella di non poter incontrare nuovamente il bel giovane appena conosciuto; non pensava certo che il compimento dei 16 anni avrebbe comportato l’ingresso in una nuova vita fatta di costrizioni e responsabilità. Forse è proprio con questo fatidico compleanno, e il fardello che ne consegue, che la Disney intende porre una data di scadenza al periodo in cui una donna può vivere la propria adolescenza in modo spensierato: le scene in cui Aurora fantastica sul suo amore immaginario (Once Upon A Dream) rimandano a fantasie da teenager che non vengono condivise da Biancaneve (che fantastica, semmai, su un uomo che ha realmente incontrato), né tantomeno da Cenerentola.

Sebbene gran parte della sua reazione sia debitrice dello shock causatole dalla rivelazione della sua reale identità, con tutto ciò che ne consegue, anche l’apparente rifiuto dello status reale da parte di Aurora è molto interessante e rimanda a Jasmine di Aladdin (1992).
Entrambe le scene sono una risposta all’imposizione di un matrimonio combinato, qui indissolubilmente legato allo status di principessa: guardandosi riflessa nell’acqua della fontana, Jasmine dice chiaramente “Allora forse non voglio più essere una principessa”, preludendo ad una generazione di principesse che non ameranno definirsi tali (l’ultima è Vaiana di Oceania (2016)), mentre Aurora si limita a osservarsi riflessa nello specchio, con indosso la corona, e a scoppiare a piangere – la scena, decisamente struggente, è particolarmente efficace proprio per il suo “mostrare” senza “dire”.
Al centro c’è naturalmente il rifiuto del riflesso che vedono di sé – Jasmine, addirittura, cerca di distruggerlo smuovendo l’acqua con un brusco movimento della mano.

È interessante notare come Aurora possa essere disposta a rinunciare alla corona per stare con un “contadino” di cui è innamorata, nonostante la sopraggiunta differenza di classe, allo stesso modo in cui Jasmine, che dichiara di essere disposta rinunciare al suo titolo per sposarsi con chi ama davvero, deciderà di sposarsi con uno “straccione”.
Un altro parallelo sta nella duplice natura di ricco/povero: Aurora conosce il principe Filippo nel bosco credendolo un contadino, mentre Jasmine conosce Aladdin al mercato e quest’ultimo le farà, in seguito, credere di essere un principe.

In questo senso, è fondamentale riconoscere ad Aurora un primato che raramente le viene concesso, ma che è suo di diritto: ha anticipato di oltre 30 anni uno dei temi che avrebbe caratterizzato le principesse degli anni ’90 (di cui ho parlato qui), ossia il rifiuto di uno o più “pretendenti”, e quindi del matrimonio combinato, imposizione che ha caratterizzato la condizione femminile per secoli.
Abbiamo citato Jasmine e possiamo citare Pocahontas (1995), in cui la protagonista rifiuta l’indiano Kocoum, ma anche Belle de La bella e la bestia (1991) che, pur non essendo vittima di un matrimonio forzato, rifiuta il pretendente che la società – rappresentata dagli abitanti del suo paesino – avrebbe scelto per lei.

Un altro aspetto fondamentale è che Aurora trova l’amore uscendo dalla propria casa e, in un certo senso, anche dalla sua zona di comfort. Di nuovo, pensando alle tre principesse classiche qui analizzate, notiamo come Biancaneve venga “trovata” dal principe mentre sta compiendo le mansioni domestiche nella dimora della Regina in cui risiede, quindi si trova nel suo habitat naturale in un giorno come un altro. Al contrario, Cenerentola incontra il principe perché esce dalla routine per esplorare una realtà che si trova, metaforicamente, a distanza di anni luce dal suo ambiente domestico che, per quanto malsano, è quello a lei più familiare, e che appare in netto contrasto con lo sfarzo del palazzo, nei confronti del quale Cenerentola appare inizialmente un po’ intimorita.
Per Aurora si tratta forse di una via di mezzo. Certo, non viene trovata dal giovane a casa sua, ma il bosco è decisamente parte del suo habitat, infatti notiamo subito come abbia fatto amicizia con gli animali che vi risiedono.
Tuttavia, nel rivolgere la parola ad uno sconosciuto, contravvenendo alle regole imposte dalle tre “zie”/fate, Aurora esce di fatto dalla sua zona di comfort. Volendola porre nuovamente in confronto con le sue precorritrici, notiamo come anche Biancaneve sembri fuggire alla vista del principe, sebbene non ci venga mai riferito che non possa parlare agli sconosciuti; questo può essere giustificato in parte dalla sua giovane età e dalla vita da parziale reclusa che ha condotto fino a quel momento, in parte da un pudore femminile ancora ben radicato nella società degli anni ’30, secondo cui le giovani donne, per non apparire “facili”, dovevano mostrarsi inizialmente restìe al corteggiamento, salvo poi cedere, ma con i giusti tempi – infatti, sebbene Biancaneve sembri infine rispondere alle attenzioni del principe, lo fa comunque a debita distanza, dal suo balcone. Ne La bella addormentata, già solo il fatto di aver inserito come elemento narrativo il fatto che Aurora non possa parlare con gli estranei è indicativo della necessità di giustificare un pudore femminile che nel 1937 non c’era bisogno di giustificare, perché era profondamente radicato nel sentire comune.

In più, Aurora inizialmente cerca di sfuggire al principe, ma cede presto alle sue attenzioni, concedendogli una vicinanza che in Biancaneve non era concepibile – infatti, i due si tengono per mano prima ancora della fine della canzone su cui duettano, e sul finale si abbracciano, con la principessa che appoggia la testa sulla spalla del principe. Anche il modo in cui i due giovani si congedano è molto importante: mentre Biancaneve si cela con pudore dietro ad una tenda rossa, Aurora propone addirittura una data per il loro prossimo incontro. In risposta all’insistenza di Filippo, la prospettiva di un nuovo appuntamento passa da “Mai, mai!” a “Un giorno, forse”, e quando il principe propone “Domani?”, la principessa ribatte “No, stasera!”.
Secondo Kaye Cunningham di nerdology.com, è proprio “l’audace decisione di invitare Filippo” a costituire una “buona premessa nell’evoluzione delle principesse Disney”. Cunningham scrive che “quando le si presenta l’occasione di seguire il suo sogno di trovare l’amore, [Aurora] agisce attivamente, al meglio delle sue possibilità” per perseguire il suo obiettivo.

È importante notare infine, sempre in contrasto con Biancaneve, le conseguenze a cui porta la loro disobbedienza. Biancaneve disobbedisce ai Nani parlando con una sconosciuta e viene “punita” con la mela avvelenata, mentre Aurora disobbedisce alle Fate parlando con uno sconosciuto e viene “premiata” dall’incontro con il suo sogno d’amore.
Aprendo un terzo paragone con Cenerentola, notiamo come la disobbedienza di quest’ultima nel recarsi al Ballo contro la volontà della Matrigna sia esattamente ciò che le permette di andare incontro al suo lieto fine – certo, la Matrigna non le aveva direttamente vietato di partecipare, ma l’aveva fatto, com’è nel suo stile, indirettamente, senza “sporcarsi le mani” con un prosaico divieto. Cenerentola, infatti, partecipa al Ballo di nascosto dalla Matrigna, e il pubblico assiste con apprensione alla scena in cui quest’ultima sembra riconoscerla, anche perché – nel momento in cui poi capisce tutto – la soluzione per cui opta è quella di chiudere Cenerentola a chiave nella sua stanza per impedirle di calzare la scarpetta.
Non si può dire, invece, che l’intera vicenda di Aurora si basi sulla sua disobbedienza, né su una sua decisione presa attivamente, dato che le sue volontà coincidono accidentalmente con quelle dell’autorità, rappresentata dai sovrani.
Non si giunge quindi mai ad uno scontro generazionale, che – nella mitologia delle principesse Disney – vedrà la luce solo trent’anni dopo con un’altra principessa, che incarna in modo ben più marcato il ruolo della teenager.
Ma questa è un’altra storia.

Moda

Aurora è la cugina medievale di Barbie.

Karal Ann Marling, storica dell’arte

La nascita di Barbie è stata ispirata dalle bambole di carta con vestiti interscambiabili, che andavano di gran moda in quegli anni: non è un caso, quindi, che di Aurora ne siano state realizzate diverse.

Diversi autori si sono prodigati a definire Aurora un’incarnazione dell’ideale di bellezza del suo tempo, Bailey Cavender di The Silver Petticoat Review la associa addirittura alla Gibson Girl di Charles Dana Gibson, simbolo di “bellezza fisica come indicatore di […] ‘americanità‘.
Quest’opinione è condivisa da Douglas Brode, che nel suo saggio Debating Disney: Pedagogical Perspectives on Commercial Cinema la definisce un “modello di glamour femminile moderno (anni ’50)”, e da Maarit Kalmakurki, secondo cui “il look [di Aurora] ricorda […] l’ideale americano di bellezza e di glamour del Dopoguerra, che tutto il resto del mondo ambiva a replicare”.

Tuttavia, il suo aspetto rimanda ad attrici europee: l’ispirazione originale per il volto, per il fisico e per l’eleganza nei movimenti è stata Audrey Hepburn, mentre i capelli ricordano quelli della Brigitte Bardot della seconda metà degli anni ’50.

Ho trovato una papabile ispirazione anche in Jeanne Crain, qui ritratta in un’immagine promozionale del film L’uomo senza paura del 1955, uscito mentre il classico Disney era in lavorazione.
I capelli sono arricciati sul fondo e presentano la stessa frangetta anni ’50, che differisce da quella di Cenerentola per il fatto di essere leggermente più “arruffata”, debitrice dei quasi 10 anni di distanza fra i due film.

Ora parliamo degli abiti.
L’ambientazione del film è precedente a quella di Cenerentola, dato che si parla di Medioevo, eppure si possono trovare anche in questo caso dei collegamenti con la moda degli anni ’50.
La storica della moda Marley Healy mi ha riferito che il materiale su cui la Disney stava facendo ricerche risaliva al XIV secolo, ma che hanno effettuato qualche modifica per adattarlo ai loro tempi.
Anche Kalmakurki è d’accordo, infatti scrive: “L’abito della principessa Aurora differisce dal resto dei costumi del film in quanto il suo stile è meno ispirato alla moda del Medioevo” e segue “principi e fonti d’ispirazioni diverse rispetto agli altri personaggi”.

Possiamo comunque notare che gli abiti formali che lasciavano nude le spalle erano molto diffusi sia nel Medioevo sia negli anni ’50.

La scollatura, che David Roberts definisce “una via di mezzo fra lo scollo a V e il collo alla Bertha”, è facile da trovare nei modelli degli anni ’50.

Nell’abito da principessa notiamo inoltre che la forma del seno di Aurora appare piuttosto appuntita: questo particolare potrebbe essere semplicemente frutto del design che caratterizza la pellicola, debitore a sua volta dell’estetica medievale. “Nel XV secolo si era nel pieno dell’era gotica, caratterizzata da spigoli: chiese, torri, cappelli, scarpe… era tutto molto spigoloso, nella moda come nell’arte”, mi ha spiegato David Roberts.

Ricollegandomi agli anni ’50, ho trovato un possibile riferimento al bullet bra, il reggiseno appuntito di gran moda in quegli anni – anche se può sembrare un’idea azzardata, è stata considerata credibile da tutti i professori e storici della moda che ho contattato.

Passando invece all’abito da contadina, notiamo il ritorno del colletto bianco (Peter Pan collar), più ristretto rispetto a quello di Biancaneve, e quindi direttamente ricollegabile alla moda del decennio in questione.
Anche la gonna grigia ricalca perfettamente, come forma e lunghezza, i trend dell’epoca.

Un riferimento fondamentale è la gonna che Audrey Hepburn indossa in Vacanze Romane (1953), nelle scene in cui la principessa Anna, da lei interpretata, visita Roma.

Le principesse di Walt

Ecco le attrici che hanno interpretato le tre principesse nelle riprese da cui gli animatori hanno preso ispirazione per realizzare i movimenti dei personaggi in modo realistico: si tratta di Marge Champion per Biancaneve e Helen Stanley per Cenerentola e Aurora.
Nella mia analisi non ho preso in considerazione questi abiti, preferendo basarmi sul lavoro definitivo degli animatori, su cui sono confluite tutte le papabili ispirazioni del caso.

La storia della Walt Disney Company, che lo si voglia o no, è fortemente definita dalle sue principesse.

La prima, come sappiamo, è stata Biancaneve: il film, su cui Walt Disney aveva investito tutto, fu definito la sua “follia” più grande. Si riteneva che il pubblico si sarebbe stancato a guardare un cartone animato per più di qualche minuto.
Ma Walt, come le donne e gli uomini americani di quell’epoca, continuò a perseverare e Biancaneve trionfò al botteghino, recuperando molto, molto più di quanto lo studio aveva speso, mentre gli Stati Uniti uscivano dalla Grande Depressione.

Poi, però, arrivarono la Seconda Guerra Mondiale e i primi fiaschi al botteghino, dovuti anche alla chiusura dei mercati europei. I fondi scarseggiavano: Walt era rimasto “bruciato” dalle perdite causate da Fantasia, su cui aveva investito tantissimo, ma continuò a sperare, a sognare. E mentre gli Stati Uniti si riprendevano dalla Guerra entrando nel Boom Economico, la Disney si trasformava da sguattera a principessa grazie al successo di Cenerentola, che salva lo studio dalla bancarotta. Per la seconda volta, la Disney è stata salvata da una principessa: non è un caso che Walt abbia dichiarato che la scena della trasformazione di Cenerentola sia la sua preferita in assoluto.

La storia di Aurora è un po’ diversa, purtroppo, ma altrettanto determinante a livello storico.
Il film, un progetto esteticamente ambizioso, non fece presa sulle platee del 1959, convincendo la Walt Disney ad abbandonare le storie di principesse: nei successivi tre decenni, la compagnia porterà al cinema avventure più quotidiane con ambientazioni urbane, moderne e contemporanee, che spesso vedevano come protagonisti un gruppo di animali, sulla scia del successo de La carica dei 101, uscito appena due anni dopo La bella addormentata nel bosco.
Dal 1961 al 1988, solo tre classici Disney hanno un’ambientazione vagamente riconducibile a quella di Aurora, ma restano ben lontani, come contenuto e tono narrativo, dalle fiabe di principesse: si tratta de La spada nella roccia (1963), Robin Hood (1973) e Taron e la pentola magica (1985).

In questi 30 anni, la Disney vive di alti (pochi) e di bassi (molti).
Il primo colpo è sicuramente dato dal progressivo disinteressamento di Walt Disney, che da metà degli anni ’50 comincerà ad occuparsi maggiormente dei suoi parchi divertimento – il primo, Disneyland, apre i battenti nel 1955 –, delle produzioni in live action e del settore televisivo, trascurando i film d’animazione. Il secondo colpo è probabilmente la sua morte nel 1966, che conferisce a Biancaneve, Cenerentola e Aurora l’onore di essere state le uniche principesse realizzate sotto la sua supervisione.
La Disney continuerà a barcamenarsi fino agli anni ’80, quando – proprio con Taron – si avvicinerà pericolosamente al crollo, vittima della scarsa creatività e della spietata competitività degli altri studios, in primis quello di Don Bluth, ex animatore Disney.
Arriviamo così alla fine degli anni ’80: quando ormai tutto sembra perduto, spetterà nuovamente ad una principessa il compito di salvare la Walt Disney, conducendola verso un nuovo periodo di splendore.
Ma questa è un’altra storia.


Alla mia Nonna Pilli: anche se non te lo ricordi più, continuerò a sentirti nella voce di Biancaneve.
Alla mia (ex) Fata Madrina, anche se non ci parliamo da un po’.
A me, che mi sono risvegliato da un sonno di mille anni.

Fino a poco tempo fa, non riuscivo ad accettare il fatto che la Fata Madrina avesse cambiato l’abito a Cenerentola.
Non poteva semplicemente ricucire quello rosa con la magia?
Ora ho capito che certe cose non si possono ricucire, ma un nuovo vestito può comunque portarti al ballo.


Leggi anche:
Principesse del loro tempo: 1989-1999,
in cui parlo di Ariel, Belle, Jasmine, Pocahontas e Mulan


Fonti consultate

Biancaneve
https://www.pbs.org/wgbh/americanexperience/features/snow-white-ideal-1930s-woman/
Disney Princess Historical Costume Influences: Snow White (1937) http://www.thefashionhistorian.com/2013/09/exploring-decades-with-disney.html   
https://www.youtube.com/watch?v=XfY11hBWz_0&t=445s 

Cenerentola
http://www.frockflicks.com/disney-princess-historical-influences-cinderella-1950/
http://www.frockflicks.com/disney-princess-historical-influences-cinderella-1950-pa rt-2/
http://www.thefashionhistorian.com/2014/12/exploring-decades-with-disney.html https://www.theatlantic.com/entertainment/archive/2015/03/cinderella-the-ultimate -postwar-makeover-story/387229/
https://brightlightsfilm.com/tear-that-dress-off-cinderella-1950-and-disneys-critique-of-postwar-fashion/
https://www.youtube.com/watch?v=aYFpVzkP3UM&t=1340s
https://www.youtube.com/watch?v=UeRa9bEhgXg&t=1333s

Aurora
Disney Princess Historical Costume Influences: Sleeping Beauty (1959)
https://www.youtube.com/watch?v=aYFpVzkP3UM&t=1340s

Testi di riferimento

Cline, Rebecca. Kurtti, Jeff. The Art of Disney Costuming: Heroes, Villains, and Spaces Between: Heroes, Villains, & Spaces Between, 2019.

Cole, Daniel James e Deilh, Nancy. Storia della moda, 2016.

Do Rozario, Rebecca-Anne. The Princess and the Magic Kingdom: Beyond Nostalgia, the Function of the Disney Princess, 2004.

Locatelli, Leone. Principesse Disney: un’analisi sociologica sull’immagine della donna e i suoi cambiamenti nel tempo, 2015.

Per la parte inerente la moda, si ringrazia anche:

Maarit Kalmakurki, ricercatrice
Marley Healy, storica della moda
Richard St. Clair, costumista
The Ultimate Fashion History

Fashion Historians Unite