Introduzione

di Leone Locatelli

Il presente articolo è nato mentre io e Angelo Serfilippi stavamo ultimando il nostro saggio Dee, Fate, Streghe. Il potere femminile dai culti naturali a Walt Disney, di cui costituisce un’appendice.
Il nostro scritto ha preso in considerazione tutte le principali figure magiche femminili della Disney, fra cui naturalmente la Fata di Pinocchio (1940). A partire da uno spunto di Serfilippi, mi sono incuriosito e mi sono messo a fare ulteriori ricerche su questo personaggio, prendendo in considerazione anche l’opera originale di Carlo Collodi. Ho scoperto una figura dalle svariate sfumature, a partire dal colore a cui il suo stesso nome fa riferimento: l’avevo sempre inconsciamente associato al turchese – come suggerito dalla maggior parte delle trasposizioni cinematografiche e televisive -, ma in realtà è un blu scuro. Da qui ho capito che si trattava di un personaggio da svelare, in tutte le sue sfaccettature: la Fata Turchina è al contempo Dea, fata e strega, ma è anche una rivoluzionaria, una madre, una bambina, un’amica e una vicina di casa. Infinite sono le fonti di ispirazione che s’intrecciano in questo personaggio, a metà fra sacro e profano, fiaba e storia. Altrettante sono le connotazioni che il suo potere assume nel romanzo e nelle sue principali trasposizioni.

Un’analisi di tale portata, che parte dalla letteratura e sconfina nella storia, nella religione, nel cinema e nella televisione, non poteva che essere affidata ad Angelo Serfilippi, alla luce della proficua collaborazione che ci ha unito e che ha ispirato l’articolo che state per leggere.
Serfilippi ha saputo dare corpo e anima alla mia idea: il risultato è un’analisi eccezionalmente ricca, che mi ha sorpreso e mi ha tenuto incollato alla pagina. Buona lettura!

Trattazione

di Angelo Serfilippi

Premessa

Se è vero che in ogni fiaba c’è un fondo di verità, è pur vero che Le Avventure di Pinocchio di Carlo Collodi non è una fiaba e, a ragione di questo, le verità possono essere molteplici. Molto più che un fondo.

La storia del burattino di legno è un romanzo italiano per ragazzi.
Un romanzo di formazione, redatto a puntate verso la fine dell’Ottocento, perfettamente inscrivibile nella corrente letteraria del bildungroman europeo. Fin qui, critica concorde e già abbondantemente espressa. Un dato molto meno noto, di contro, è che il progetto iniziale prevedesse un racconto molto più breve. La storia terminava inizialmente con la morte di Pinocchio per mano del Gatto e della Volpe (capitolo XV, sui trentasei totali). Il grande successo riscosso impose all’autore di proseguire. In quale modo? Facendo entrare in scena una fata…

La Fata Turchina nell’illustrazione di Enrico Mazzanti inclusa nella prima edizione a volume del 1883.

Una fata atipica

La fata di Pinocchio è un personaggio femminile dal carattere marcatamente diacronico e innovativo, in relazione al contesto letterario in cui è stata concepita. In un’Italia “da farsi”, che alla prima apparizione editoriale del burattino non solo aveva raggiunto l’Unità da appena vent’anni, ma aveva da poco sancito e regolamentato l’istruzione femminile, questa bambina dai capelli turchini era atipica quanto il colore della sua chioma.

Questa giovanissima fata (all’inizio della storia è una bambina) vive sola, in una grande casa, con servi, paggi e altri domestici. Non è sottoposta al controllo di figure maschili: niente marito, né padre o fratelli. Per la realtà (letteraria e non) di allora era un’eccezione più unica che rara. Una realtà in cui la preparazione scolastica delle ragazzine era ben lontana da quella dei maschi e prevedeva, dopo solo due anni di lezioni indifferenziate, un percorso di “lavori donneschi” con l’unico scopo di creare la perfetta madre di famiglia. Per non parlare di un universo letterario in cui il tipico romanzo di formazione (bildung) non includeva personaggi femminili in veste di protagoniste, né in altre vesti che avessero una qualche rilevanza ai fini della trama. Al massimo, il passivo ruolo di ricompensa amorosa.

Secondo Esther Mantelli, la fata non è solo indipendente, magica e potente, ma rappresenta per il protagonista la provvidenza e la salvezza, come la Beatrice dantesca. Una donna angelo. È il simbolo del raggiungimento di quella conoscenza che solo un percorso ascetico può conferire. Una catarsi che affonda le radici in un riferimento letterario e iconografico ben preciso, ma cerchiamo prima di comprenderne le origini.

Illustrazione di Attilio Mussino dall’edizione di Pinocchio del 1911

Le fatae e i Bambini Acquatici

Se ci accostiamo a una riflessione linguistica sul termine, la figura della fata affonda le sue origini in altre due distinte entità: le Parche romane (chiamate anche fatae) e le ninfe dell’antica Grecia. Se quest’ultime sono alla base delle fatine antropomorfe di minuscola taglia (spiritelli più che altro legati alla natura, nella tradizione anglosassone), le Parche sono delle oscure signore degli Inferi, che controllavano il destino degli esseri umani, decidendo della loro vita e della loro morte. La fata di Pinocchio è in effetti una sorta di ago della bilancia, nella vita del burattino, perché è sua la funzione di motore primario nel percorso del protagonista, come fosse un antidoto alla sua inesperienza e, non dimentichiamolo: gli salva anche la vita, quando fa la sua comparsa. Le Parche sono sempre tre e, come vedremo a breve, anche la Fata Turchina ha diverse configurazioni che la rendono una e trina, in un certo senso.
Procediamo, però, con ordine, e tracciamo quel percorso evolutivo che la fata in quanto tòpos letterario ha intrapreso nei secoli. Si tratta di una figura che nasce dalla fiaba, ma è nel fantasy ottocentesco che troviamo il maggiore antecedente letterario della fata collodiana.

È opinione comune, per la critica, che il genere letterario del fantasy abbia avuto origine in Inghilterra e che sia stato inaugurato dal romanzo The Water-Babies di Charles Kingsley (Londra, 1863).
Questa storia, all’epoca così popolare da essere d’ispirazione anche per Lewis Carroll e la sua Alice nel Paese delle Meraviglie, ci racconta di come un piccolo spazzacamino di nome Tom intraprenda un percorso evolutivo a seguito del suo passaggio a un diverso livello di realtà (precisamente, a seguito di una morte per annegamento). Una crescita interiore che avviene tramite la guida di alcune fate e l’aiuto di Ellie, sua amica e coetanea, anche lei deceduta.

Alla luce del precedente appena illustrato, non sorprende che Pinocchio conosca, poco prima di essere impiccato, questa pallida bambina che si affaccia dalla sua grande casa, afferma di essere morta e, nel prosieguo della vicenda, si “trasforma” in una donna adulta dalle capacità magiche. Una fata che muta da sorella/amica a madre, che lo istruisce e lo accompagna nel suo cammino evolutivo, rendendolo possibile e (soprattutto) efficace. Un chiaro riferimento a Kingsley, senza dubbio, ma se accostiamo la figura della Fata Turchina a quella di un’antica Dea pagana, come faremo nel corso di quest’analisi, la sua condizione non può che farci pensare alla graduale subordinazione a cui il divino femminile è stato soggetto nei secoli. Parliamo di una Dea che di volta in volta si rivela essere madre (come nella tradizione cristiana), sorella o sposa di un Dio. Il potere della femminilità è diventato così meno minaccioso e più “gestibile” dalla società patriarcale. Tuttavia, non possiamo certo parlare di subordinazione nei confronti del bambino protagonista (una divinità non può essere subordinata a un essere umano) e, sebbene il ruolo materno possa essere visto, dai lettori di oggi e da quelli di fine Ottocento, come un tentativo di mitigare un potere altrimenti spaventoso (come accadeva per Samantha di Bewitched), non possiamo negare che la maternità sia stata profondamente legata al concetto di divino femminile fin dall’alba dei tempi, con la Dea Madre. Da qui nasce anche il concetto di fata madrina, prima nella fiaba e poi, appunto, nel fantasy.

In questo senso, è interessante constatare come, sebbene le figure materne di Water-Babies (alcune anziane, altre giovani e belle) siano denominate “fate”, queste abbiano in realtà una funzione molto precisa, all’interno del gioco allegorico che intercorre tra le figure attanti del romanzo. Sono fate, ma prima di tutto sono personificazioni di principi e leggi naturali, quali l’ecologia e l’evoluzione umana e animale, in senso scientifico e darwiniano. Niente di più ricollegabile al divino femminile, nato in seno agli antichi culti naturali. Fate madrine e Dee madri risultano dunque legate a filo doppio.

Illustrazioni di Jessie Wilcox Smith per The Water-Babies, edizione del 1916

La Dea dai capelli blu, Pinocchio esoterico (e cristiano)

Sulla simbologia esoterica di Pinocchio è stato detto molto, ma bisogna fare attenzione e discernere: non tutto ciò che fa riferimento a culti religiosi è inscrivibile nell’ambito dell’esoterismo.
“Esoterico” è un termine che rimanda a segreti cultuali incomprensibili.
Si riferisce a religioni dette appunto “misteriche”. La fata di Pinocchio ha trovato una sua interpretazione anche in seno alla religione cristiano-cattolica, per la quale non si può certo parlare di “mistero”, poiché ne conosciamo bene dogmi e pratiche.

Ad esempio, il Cardinale Giacomo Biffi, con l’appoggio dello scrittore e giornalista Andrea Sartori, sostiene che Pinocchio sia una grande metafora di elevazione dello spirito religioso in senso cristiano.
In un’intervista che rilasciò per l’Espresso a Sandro Magister, nel 2000, dichiarò che la fata era “la salvezza donata dall’alto: e quindi Cristo, la Chiesa, la Madonna”.
Una donna angelo, per i letterati, e la Beata Vergine, per i timorati.
Sartori ritiene che questultima sia la chiave di lettura più soddisfacente: la fata non sarebbe altro che un’allegoria della Redenzione, del Pentimento e di conseguenza della Vergine Maria. Come prove cita la chioma blu della fata, elemento che ricorda retoricamente il manto celeste della Madre di Dio. Tuttavia, Mantelli sostiene che l’interpretazione cattolica non sia altro che un reflusso della proverbiale “ironia collodiana”, dalle tinte parodistiche, che sembra manifestarsi anche nei nomi (e nei ruoli) di Geppetto (Giuseppe) e di Lucignolo (Lucifero).

Non sono in pochi, quelli che vedono in Pinocchio una riproposizione allegorica della Sacra Famiglia.
A sinistra, un’immagine da Le avventure di Pinocchio (1973).

Dal canto suo, Mantelli ci parla invece di una famiglia estremamente sovversiva, forse la prima della letteratura italiana. Abbiamo un bambino monello e anticonformista (una vera testa di legno) e una mamma indipendente, lontana e assente, che lo educa con un affetto condito da sarcasmo, senza moniti e lasciandolo libero di sbagliare, per finire con un padre che è l’apoteosi della sovversione dei valori maschili ottocenteschi. È anziano, povero, manca di autorità, è vittima della giustizia e sente il bisogno di avere un figlio. Ecco perché, se riflettiamo sul parallelismo con la Sacra Famiglia, possiamo parlare di “ironia collodiana”.

Una posa che ricorda quella della Pietà di Michelangelo in Pinocchio (2002).
In basso, la Fata Turchina del film in questione con un velo che potrebbe rimandare all’iconografia mariana.
Con un po’ di fantasia, possiamo ipotizzare che sia presente una forma di omaggio alla Vergine Maria anche nella Fata del Classico Disney Pinocchio (1940): se pensiamo all’abbigliamento delle sue apparizioni a Lourdes, notiamo come la sua cinta (con un lembo di tessuto che pende sul davanti) possa ricordare vagamente quella della Fata Azzurra.

Di contro, la lettura esoterica che più solletica la fantasia dei critici è quella proposta da Elémire Zolla, fermamente convinto che la storia della marionetta tramutata in asino sia un’unica grande citazione de Le metamorfosi di Apuleio.

Il ruolo materno è particolarmente enfatizzato sia nel culto di Iside, sia nel culto mariano. Entrambi attingono al culto della Dea Madre, sorto all’alba dei tempi.
L’opera a destra è Madonna col Bambino di Sassoferrato, 1640-1650 ca

La nostra fatina ha davvero molto a che spartire con le Dee, come già accennato, ma in modo particolare con Iside, la cui vicenda (sia nel mito d’origine, sia nel romanzo di Apuleio) trova molti punti di contatto non solo con la caratterizzazione di numerose streghe, dalla mitologia antica a quella contemporanea (come abbiamo scritto qui), ma anche con la storia del burattino. Il mito di Iside ci racconta la storia di una Dea che vaga nella disperata ricerca del corpo del suo fratello-amante Osiride, per salvarlo e condurlo via dagli Inferi, verso la vita eterna. In un passaggio del mito, apprendiamo che il corpo di Osiride rimane intrappolato all’interno di un tronco d’albero di acacia, con cui si costruirà il pilastro per un palazzo. Il famoso “pezzo di legno”, primo oggetto a comparire in scena, all’inizio del Pinocchio collodiano.

Possiamo notare come la Dea venga spesso raffigurata con i capelli blu, come la Fata Turchina, ma questo non è un colore associabile esclusivamente a Iside. Come ci spiega l’egittologo Marzio Siccardi, “nell’anatomia mitica degli Dei egizi, i capelli delle divinità sono composti di lapislazzuli, da qui il colore blu/azzurro. Questo nasce dalla concezione di unire metalli nobili e pietre pregiate nella perfezione della divinità”.

Iside che abbraccia il Faraone Ramses III, nella tomba di Nefertari, presente nella Valle delle Regine, in Egitto.
Nell’Antico Egitto, il colore blu era associato alla fertilità, alla rinascita, al potere della creazione.

Se le similitudini col mito di Iside terminano qui, questo non vale per Le metamorfosi di Apuleio.
Qui, il protagonista Lucio è la sventurata vittima dell’imperizia: appassionato di arti magiche, ma poco edotto, viene accidentalmente tramutato in un asino. Tornerà alla forma umana non solo dopo aver fatto esperienza del mondo, ma dopo essersi cibato di una corona di rose votiva, offertagli da un sacerdote della Dea Iside durante una processione. Iside contribuisce a far tornare Lucio un essere umano proprio come la Fata opera sulla persona di Pinocchio, ridotto alla forma di un asino. Non è certo casuale, dunque, che la corona di fiori torni in Pinocchio come elemento che adorna il capo della fata bambina, risultando ben visibile sia nelle illustrazioni della prima edizione, sia in alcune trasposizioni filmiche, come vedremo. Si tratta di un simbolo che rimanda al concetto di ciclicità, strettamente legato alle divinità femminili fin dall’alba dei tempi, come abbiamo scritto nel nostro saggio.

La Triplice Fata e il mondo animale

Come già anticipato, la Fata di Pinocchio subisce varie trasformazioni, sia umane che animali. Queste due tipologie di trasformazione, ognuna in modo differente, ci permettono di focalizzare la nostra attenzione sulle credenze religiose pagane.

Abbiamo già spiegato che la fata compare inizialmente in veste di bambina, nel capitolo XV, per poi assumere la forma di una donna adulta quando Pinocchio la ritrova, nel capitolo XXIV. Tra queste due mutazioni ne troviamo una terza: questo ci permette di associare il personaggio alla figura della Triplice Dea dei culti pagani, che contemplavano in un’unica entità le tre diverse età della donna: la bambina, la donna adulta e l’anziana. Nel capitolo XXIII, Pinocchio incontra una vecchietta, la quale lo informa della disavventura del padre Geppetto, che sta per prendere il mare per andare a cercarlo. Secondo molte interpretazioni, la vecchina non sarebbe altri che la fata, ancora una volta. Insomma, parliamo di una conformazione tripartita che sarebbe, anche in questo caso, una palese citazione di matrice religiosa. In questo sistema di allegorie, anche gli esempi dal mondo animale hanno la loro importanza.

Mantelli suggerisce che la fata possa celarsi anche sotto le spoglie della sua domestica, la lumachina, la quale compare in ben due capitoli, ma mai insieme alla fata. A tal proposito, Alessio D’Avino suggerisce un parallelismo con la leggenda giapponese di Jiraya il galante, in cui la giovane Tsunade possiede il potere di trasformarsi in quest’animale come ricompensa per aver aiutato una lumaca gigante.

In effetti, possiamo notare come quasi ogni creatura animale presente nella storia di Pinocchio possa essere riconducibile al personaggio della fata: in alcuni casi velatamente, in altri esplicitamente. Collodi certamente voleva che i suoi piccoli lettori pensassero alla fata quando ha deciso di descrivere il pelo turchino di quella capretta parlante che da uno scoglio incita Pinocchio a scappare per non farsi ingoiare dal pescecane. Sulla lumaca la critica è meno unanime, ma Cristina Mazzoni afferma che entrambi gli animali non sarebbero altro che diverse configurazioni della fata e questo, per giunta, per sua stessa ammissione:

Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perché ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto è di quelle che hanno il naso lungo.

Mazzoni vede in questa dichiarazione un ipse dixit che svela non soltanto le due metamorfosi animali della bambina dai capelli turchini (perché la capra ha le gambe corte e la lumaca ne è priva), ma anche una considerazione sui propri principi educativi, poco ortodossi perché basati sulla menzogna, seppur a fin di bene. Questo potrebbe svelare anche la netta differenza tra le due tipologie di bugia: benefica (a gambe corte) e maligna (col naso lungo), oltre a contribuire alla resa atipica del personaggio della fata, restituendoci un ritratto ora materno e salvifico, ora astuto e ingannevole. In effetti, se riconosciamo che la Fata possa essere riconducibile ad una divinità pagana, la dobbiamo già considerare come un’entità non necessariamente benefica, ma anzi preda delle sue pulsioni terrene, di emozioni e sentimenti nei quali gli esseri umani si identificavano, come nel caso delle divinità greco-romane. Anche in questo risiede il concetto di “associazione animale”, che si lega al lato più terreno del divino in relazione con la natura.

Sta di fatto che l’associazione col mondo animale è viva e presente.
Una relazione che ha il sapore della provvidenza divina e del fato. Possiamo ipotizzare che la Fata assuma anche altre forme animali, lungo la storia, nei momenti più opportuni e simbolici. Quella colomba bianca che trasporta sul suo dorso il povero Pinocchio, triste e amareggiato per la perdita della sua fatina, è descritta come più grossa di un tacchino. Sarà lei a condurre il burattino sulla spiaggia, dove incontrerà la vecchina (sempre la Fata?), la quale lo avverte che Geppetto sta per prendere la via del mare. Quest’associazione fornisce nuova linfa all’interpretazione cristiana, essendo la colomba uno dei simboli più importanti di tale religione, nel contesto della quale viene dipinta come messaggera di pace, salvezza e ispirazione divina.

Una colomba compare anche nel Classico Disney Pinocchio: che sia la fata?

È bene tener conto del fatto che la metamorfosi (quella animale, ma non solo) è il principale topos letterario di tutta l’opera, così come l’identificazione dell’entità divina con le creature animali è certamente un leitmotiv dei culti pagani di ogni epoca e luogo. Se continuiamo a riflettere sul parallelismo con le divinità femminili, le ali sono una caratteristica con cui la Dea Iside era sovente raffigurata, in statue e geroglifici. La Dea alata può sicuramente far emergere in noi l’idea di una magica fata che diventa una colomba. Come anche il fatto che, nel capitolo XVIII, la Fata chiami a raccolta uno stormo di picchi perché accorcino il naso del suo burattino. Senza contare che Pinocchio sfugge all’impiccagione nel capitolo XVI proprio grazie a un falco, chiamato dalla Fata con tre battiti di mani, che lo libera dal nodo scorsoio. Inoltre, la Fata viaggia con una carrozza trainata da topolini, in quella che potrebbe essere letta una citazione parodistica della fiaba di Cenerentola, in cui i topi vengono trasformati in cavalli, prima di trainare un cocchio. Tutti eventi che possono farci pensare al potere, al controllo sulla natura e sui suoi abitanti che è tipico della strega, della Dea, della sacerdotessa e curiosamente anche della principessa Disney, da sempre in stretto contatto con gli animali: non a caso, il personaggio di Biancaneve nasce dalla Persefone del corto La dea della primavera (1934).


In Fantasia 2000 (1999), lo Spirito della Primavera rappresenta il divino femminile e il cervo che l’accompagna potrebbe rappresentare il divino maschile, come abbiamo scritto nel nostro saggio.
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Nei secoli, l’associazione tra divinità e mondo animale è, secondo la storica Merlin Stone, passata dall’essere esclusivamente femminile al tingersi di connotazione maschile. Se anticamente c’era un’unica Dea (come quella dei serpenti), con l’ampliarsi del pantheon il mondo vegetale si è maggiormente legato alla divinità femminile e quello animale alla controparte maschile. Il cervo al seguito della Dea Diana, il satiro Pan e ogni Dio rappresentato con un paio di corna fanno riaffiorare questo antico legame.
Un ulteriore spunto in merito alla natura sovversiva della Fata Turchina potrebbe dunque derivare dal fatto di percepirla come una divinità a cavallo fra maschile e femminile, un’entità che riassuma in sé entrambi le controparti, in linea con la sua poliedricità.

Che dire poi della capra? Essa è ancora oggi il simbolo più temuto fra quelli associati ad antichi culti religiosi ormai mutati, se non del tutto scomparsi. Ci basti pensare al famoso “capro espiatorio”, in contrapposizione con l’agnello di Dio che toglie i peccati dal mondo, fino a giungere ad aspetti più oscuri, legati a sacrifici rituali e satanismo.

Dal canto suo, pur non avendo un particolare connotato simbolico cultuale, la lumaca porta in sé una spirale, che è senza dubbio un potente e antico emblema intriso di una moltitudine di significati, il più noto dei quali potrebbe riferirsi alla già citata Triplice Dea. Possiamo citare l’antico simbolo della Triscele (o Triskelion) di origine greca e celtica, formato da tre spirali legate l’una all’altra, al centro. Questo simbolo si è poi evoluto in molte altre forme, antiche e moderne, ma il suo significato è chiaro: l’adorazione della ciclicità in riferimento alla divinità femminile, come abbiamo già accennato. In quest’ottica, la lumaca assume il ruolo di una vera e propria sineddoche: la sua spirale viene intesa come una componente che rimanda al tutto.

Le figure animali in Pinocchio sono molte, ma spesso il loro significato sfugge ad un’interpretazione lineare. Ci sono buone possibilità che il merlo bianco del capitolo XII o il pappagallo del capitolo XIX (che mettono in guardia il burattino nei confronti del Gatto e della Volpe) siano sempre e comunque la Fata, così come il buon tonno parlante, che salva Pinocchio e Geppetto dal pescecane. Nulla di certo, nulla di esplicito: se ci basassimo soltanto sull’evidenza effettiva, dovremmo fermarci alla capra. È l’unico animale che Collodi descrive in modo tale che l’associazione con la Fata risulti sicura e immediata. La capra col suo pelo turchino. Una scelta curiosa, se pensiamo che le capre erano un simbolo sporco, che sintetizzava la bassezza umana e l’ignoranza, già ai tempi di Carlo Collodi e dell’imperante cultura cristiano-cattolica in cui versava il nostro Paese.

Attilio Mussino, edizione del 1911

Può darsi che la Fata diventi in questo caso un simbolo di sacrificio e di espiazione. Forse questa fata in veste di capra non è che l’ennesimo espediente narrativo che ci preannuncia l’apice del percorso di crescita del burattino. Ci avvisa che Pinocchio sta per compiere il passo finale. Sta per giungere a una fase decisiva, che gli permetterà di accedere a uno stato catartico della sua evoluzione. Dal legno, all’asino, all’essere umano.

“Tu non sei una fata, sei una strega!”

Nello sceneggiato prodotto dalla RAI nel 1972, la Fata Turchina era interpretata da Gina Lollobrigida. In questa versione, dove la Fata è fondamentalmente la moglie di Geppetto prematuramente scomparsa, sia Pinocchio che il suo babbo si rivolgono a lei direttamente, in due diverse scene, definendola una strega. Lo stesso non accade nel libro, è vero, ma Luigi Comencini, regista della suddetta versione, ha saputo cogliere vari aspetti di questa storia e, in questo caso, del personaggio della Fata.

Facendo una piccola digressione, possiamo facilmente ricollegarci alla fata (in originale Enchantress, incantatrice) del Classico Disney La Bella e la Bestia (1991), personaggio che abbiamo preso in considerazione nel nostro saggio. La sua funzione rimanda alla figura della Fée Carabosse, la “fata cattiva” in stile Malefica de La bella addormentata nel bosco, ma l’Enchantress, come la Fata Azzurra di Pinocchio, punisce solo a scopo educativo. Prendendo in analisi queste figure, notiamo come i confini fra fata e strega possano risultare nebulosi. In ambito fantasy, anche la vecchia fata dei Water-Babies è descritta con le sembianze di una strega: è severa e arcigna, ma non è malvagia.

In effetti, ci sono molti aspetti che la bambina dai capelli turchini condivide con le streghe, le oscure signore della notte. La prima di queste peculiarità risiede nel suo rapporto con la morte e, soprattutto, col mondo dei morti. Si tratta di una fata che emerge dall’occulto, dal buio delle tenebre. Non a caso il povero Pinocchio, in fuga dagli “assassini”, arriva alle porte della sua enorme casa nel cuore della notte. Al bussare del burattino, la Fata emerge dall’ombra, pallida come la luna, per affacciarsi al balcone dichiarando che non c’è nessuno, perché in quella casa sono tutti morti.
Lei stessa è lì in attesa della bara che la porti via, aggiunge.

Dopotutto, il romanzo di Collodi nasce nell’epoca d’oro dello spiritismo. Si tratta di un fattore culturale che può essere stato incisivo e che oggi possiamo prendere in considerazione per delineare il lato più oscuro del personaggio della Fata. Pinocchio la incontra dopo la sua impiccagione e lei stessa risorgerà dalla morte, a un certo punto. Nella sua grande magione non solo ritroveremo il grillo parlante, reduce della martellata inflittagli dal burattino a inizio libro e quindi “risorto”, ma arriveranno anche quattro conigli neri, invocati dalla padrona di casa, che portano una bara sulle spalle e hanno il compito di portare via Pinocchio, prossimo alla morte perché non vuole prendere la medicina. E anche questa medicina ha qualcosa da dirci.

Quello della “medicina amara” è un tema letterario molto presente nella letteratura per l’infanzia di quel periodo. Compare anche in The Water-Babies e in Peter Pan.
Se da un lato la critica ritiene che le radici di questo tòpos risiedano in fatti e constatazioni reali (come i terribili intrugli che venivano effettivamente somministrati ai bambini), è pur vero che la medicina, in questo contesto, è davvero benefica e risolutiva, quindi ci può far pensare all’antica pratica dell’erboristeria e della farmacia. Se teniamo conto del fatto che le antiche streghe, le sacerdotesse della Dea, furono le prime a sperimentare la conoscenza medicinale e l’uso delle erbe, viene da chiedersi se la Fata Turchina non sia effettivamente dotata di una simile conoscenza. Se in Water-Babies c’è più che altro una critica alle medicine, dipinte come inutili e disgustose, Collodi potrebbe volerci parlare del prezioso legame insito tra scienza e pratiche magiche.

Due versioni della Fata che offre a Pinocchio un confetto.

Per essere una medicina, quella fornita dalla Fata è quanto meno miracolosa. Che si tratti di una pozione magica? In fondo è proprio grazie a questa, stando a quanto ci racconta il romanzo, che Pinocchio sfugge alla morte. Questa fata bambina però non possiede soltanto medicine magiche, ma anche gustose leccornie, ed è l’unica ad averne accesso. Palline di zucchero, confetti al rosolio, pane imburrato, caffellatte…
Segnali più che lampanti di benessere economico, soprattutto nel contesto in cui nasce questa storia. Non è la prima volta che apprendiamo di una figura femminile che, oltre a vivere da sola nel folto del bosco, ha anche una possibilità economica tale da sfiorare l’ostentazione… Fino ad abitare una casa di dolciumi. Nella grande ironia di Carlo Collodi, qui abbiamo una bambina, al posto della vecchia strega della fiaba di Hansel e Gretel.
Un gioco di contrasti che ha del paradossale. Forse il pretesto per una risata in più, oppure l’ennesimo monito a diffidare delle apparenze. O forse un ulteriore rimando a quelle antiche religioni che adoravano divinità femminili tripartite.

A favore della correlazione fra la Fata Turchina e la figura della strega, possiamo citare nuovamente la simbologia animale come parte integrante di quel corredo di elementi tipici delle streghe. In fondo, ogni strega che si rispetti ha il suo famiglio, l’animale che mai l’abbandona. La Fata Turchina ne ha molti, in effetti – Medoro, il cane valletto e cocchiere, è solo il più famoso (e quello maggiormente ritratto al cinema).
Sulla capra abbiamo già disquisito in abbondanza, ma vale la pena rammentare come questa rimanga un valido, moderno e potente simbolo di adorazione diabolica. Senza contare che è la Fata stessa a operare su di sé la trasmutazione in questa capra blu: è l’autore stesso a garantircelo attraverso il riferimento cromatico.

E chissà che non si celi la Fata anche dietro al serpente del capitolo XX…
L’animale fa la sua comparsa quando Pinocchio è appena uscito di prigione (con l’unica colpa di essere stato derubato dal Gatto e dalla Volpe) e sta tornando alla casa della buona fata. A un certo punto si trova davanti un enorme serpente, con gli occhi di fuoco e la coda fumante, a sbarrargli la strada. Il rettile ride di lui, fino a morirne.

in fondo, il serpente è un noto simbolo diabolico e si presta bene a varie strutture interpretative. Era una serpe quella che ha tentato Eva nel giardino dell’Eden, così come erano serpi quelle che appaiono tra le mani della Dea dei Serpenti, della civiltà minoica. In definitiva, Collodi potrebbe aver voluto una fata/Dea che fosse collegata al mondo animale per trasmetterci prima di tutto l’idea di una nuova personificazione di antiche Dee del passato. Facendo quindi un sapiente uso dei simboli, ha scelto la capra e il serpente come animali direttamente collegati a storiche immagini di denigrazione di antiche sacralità, in curioso contrasto con la colomba precedentemente citata. La serpe è tentatrice e conduce sulla via del male, mentre la capra è demoniaca – Mantelli associa la trasformazione della Fata Turchina in quest’animale ad un vero e proprio inganno, una bugia “dalle gambe corte”.

In un certo senso è proprio questa la motivazione per cui la Fata Turchina viene definita “strega”, nello sceneggiato RAI. Perché è percepita come un’ingannatrice. Crudele, persino. Solo quando sarà Geppetto a definirla così, la Fata deciderà di trasformare definitivamente Pinocchio in un bambino.

A quanto già affermato possiamo aggiungere un aneddoto che si lega direttamente alla vita di Collodi.
Nicola Rilli, giornalista e studioso dei luoghi geografici e dei personaggi reali che furono di ispirazione all’autore toscano, ci informa che il grande albero a cui Pinocchio viene impiccato esisteva davvero, tra Castello e Sesto Fiorentino, nei pressi delle campagne a ovest di Firenze. All’ombra di questo, pare che Carlo (Collodi) Lorenzini amasse ascoltare le leggende locali che una sua giovanissima amica gli raccontava. Tutto molto idilliaco, se escludiamo che le protagoniste di queste leggende erano streghe bellissime (dalla pelle bianca come la luna) e perfide, solite cibarsi dei neonati che tenevano appesi ai rami dell’albero.
In definitiva, la bambina dai capelli turchini ha molte sfaccettature (e sfumature), ma sicuramente affonda le sue radici in un cupo scenario. Un vero e proprio dipinto a tinte fosche. Nicola Rilli ci parla della genesi del suo personaggio con aneddoti degni di un film horror. Sarà proprio lui a documentare come questa misteriosa, ambigua Fata turchina abbia avuto origine, nella bucolica periferia fiorentina, proprio dalla bambina che amava raccontare quelle storie. La nostra analisi, però, si spingerà anche oltre.

Modelli di ispirazione, la genesi della Fata Turchina

A questo punto dell’analisi, risulterà chiaro come la personalità dell’iconica fata si snodi su vari livelli di lettura. Non ci sorprenderà quindi scoprire come così tanti piani interpretativi abbiano avuto nel concreto, nella vita reale, un’ispirazione non univoca e nemmeno duplice… Bensì triplice.

A chi legge non potrà che far sorridere, questa ricorrenza del numero tre, con tutte le sue implicazioni religiose, ma è la pura verità. Le figure reali su cui è stato plasmato il personaggio della Fata Turchina sono tre. Di queste, due sono sicuramente quelle note ai più. Procediamo con ordine. Una bambina è già stata citata, quindi sarà opportuno proseguire con lei.

Si chiamava Giovanna Ragionieri. Era nata nel 1868 a villa Rapi nel paesino di Castello, tra Firenze e Sesto Fiorentino. Aveva appena sei anni, quando conobbe Collodi. Giovanna era la figlioletta del giardiniere della famiglia Lorenzini, presso cui in seguito sarebbe diventata la ragazza di servizio. In quel frangente, divenne così amica del Collodi da passare molto tempo con lui. Intere giornate estive all’ombra del grande albero al quale Pinocchio sarà appeso, o sotto il quale pianterà le monete d’oro. Vari cronisti narrano che fosse buona e molto bella, bionda e con gli occhi celesti. Un esserino che dovette apparire quasi fatato, agli occhi dell’autore. Le prime ricerche che porteranno alla consacrazione di Giovanna a Fata Turchina risalgono alla fine degli anni ’30. Il giornalista Giorgio Batini rintracciò, ancora sedicenne, gli ultimi superstiti che furono di ispirazione a Collodi. Ne scriverà soltanto nel ’61, ma a quel punto la stampa già da qualche anno parlava di lei come dell’unica ispirazione per quella magica bambina dai capelli turchini. Il 24 dicembre del 1956, all’età di 88 anni, venne intervistata dal giornalista Gianfranco Pancani, in una trasmissione di Radio Monteceneri. Tanto bastò perché Giovanna Ragionieri iniziasse a ricevere le lettere dei bambini di tutta Italia, desiderosi di scrivere alla loro amata fatina. Parte di questo epistolario ha persino avuto una recente pubblicazione. Secondo quanto riportato in questo giovane volume a cura di Anna Soldani, debitore anche delle ricerche condotte da Nicola Rilli negli anni ‘70, pare che Collodi abbia dichiaratamente promesso a Giovanna che l’avrebbe inclusa nel suo libro, se lei avesse fatto la brava. Aggiungendo che sarebbe diventata la fata dai capelli turchini.

Giovanna visse fino a novantaquattro anni e dal 1962 riposa nel cimitero di San Michele a Castello, in quella stessa periferia fiorentina che la vide nascere e la rese immortale grazie all’incontro con quel suo amico speciale. Quel che ci sembra ovvio, a sentire questa storia, è che la piccola Giovanna fu di ispirazione per la fata in forma di bambina. Teniamo bene a mente che la fata in Pinocchio è prima una bambina, nel momento in cui il burattino la conosce, ma diventa poi una fata adulta quando la ritrova, dopo essersi finta morta. Carlo Collodi morì che la Ragionieri aveva appena ventidue anni. Non conobbe mai una Giovanna molto adulta. Quali furono quindi le altre magiche ispirazioni? Ci furono altre dame, da cui prese spunto per raccontarci di questa fata bambina che diventa grande? Ebbene sì.

Letterina indirizzata a Giovanna. Dal libro Il Segreto di Pinocchio, di Anna Soldani.

Per sua stessa ammissione, il Collodi (cinquantenne, in veste di giornalista) avrebbe subito il fascino di Anna Kuliscioff mentre assisteva alla di lei deposizione in un processo a suo carico. Siamo nel 1879 e il tribunale di Firenze sta ascoltando questa giovane rivoluzionaria russa, poco più che ventenne, accusata di anarchia e di cospirazione contro lo Stato italiano. Due anni più tardi, Pinocchio vedeva la luce editoriale.

Il compito che vorrebbe prefiggersi ora il nostro intelletto è quello di immaginare quali parole o frasi della Kuliscioff possano aver acceso la scintilla della fantasia di Collodi, ma possiamo solo limitarci a fare supposizioni. Probabilmente fu questa ragazza tenace, intrepida, fiera e autorevole, nonostante la giovane età, a porre le basi per la creazione della fata più famosa della letteratura italiana. Forse quel desiderio di indipendenza, di rivendicazione e di rivoluzione sociale toccò il cuore del papà del burattino e lui, a suo modo, decise di omaggiarla.

Magnetica e ammaliante, quasi magica, Anna verrà denominata “la signora del socialismo italiano” dal filosofo Antonio Labriola. Il suo impegno sociale e politico si è dedicato all’estendere il voto alle donne, combattere il lavoro minorile e tutelare quello femminile.

Forse è proprio in virtù di quest’ispirazione dichiarata che l’interpretazione cristologica, sostenuta dal Cardinale Giacomo Biffi, può risultare opinabile. Al punto da far emergere alcuni dubbi. Facendo un passo indietro, rammentiamoci ora di quella lettura cristiano-cattolica che è stata già citata. Giuseppe Barbalace, nel suo articolo sulla rivista Mondoperaio, fa un interessante accenno all’interpretazione di Biffi. Ne parla come se fosse una precisa polemica (mirata) da parte del Cardinale nei confronti della Kuliscioff. Infatti, la sua prima pubblicazione, in cui Pinocchio è analizzato in un’ottica teologica, risale proprio a quei cupi (come lui stesso li definisce) anni ‘70 del Novecento. Anni di rivolta e di controcultura. Momenti storici in cui gli insegnamenti e le battaglie di Anna iniziavano a lasciare il loro segno maggiore… Così è, se vi pare.

Illustrazione di Carlo Chiostri, edizione di Pinocchio del 1901.

In ultimo, ma non certo per importanza, Collodi ha voluto parlarci anche di sua madre. Ecco qual è il terzo elemento di questa ennesima triade. La terza personalità che si cela dietro la nostra enigmatica fata è la mamma di Carlo Collodi. È di nuovo Nicola Rilli a informarci di questo prezioso dettaglio: secondo quanto si legge nel suo saggio, sembra che sia stata proprio la cara Giovanna Ragionieri ad affermare che “Carlo fa dire alla fatina quanto a lui diceva la sua mamma”. Se la dolce, piccola Ragionieri è stata la fata bambina e la temeraria Kuliscioff ha delineato il profilo indipendente e sovversivo della fata da adulta, che vive sola e senza essere subordinata a un uomo, possiamo affermare con certezza che il lato materno e sentimentale che associamo alla Fata Turchina venga direttamente da Angiolina Orzani: sarta, cameriera presso i Marchesi Ginori e madre di Carlo Collodi. Del resto, non è un caso che la più comune delle letture riveda nella Fata una figura materna per Pinocchio, che è anche la summa, la sintesi di tutte le letture finora argomentate. Salvezza, protezione, educazione, forza, integrità, etica, morale… Amore. Tutto classificabile sotto i più comuni valori materni. La cosa ci può sorprendere, ma solo fino a un certo punto.

Una, nessuna, centomila. Una e trina.
L’interpretazione è sempre aperta a nuove possibilità, ma per ora è questo che sappiamo. Sono queste le considerazioni che si possono fare in merito alle figure che ispirarono la bambina dai capelli turchini.
Che cosa manca, ora? Che cosa può chiudere degnamente il nostro discorso?

Abbiamo visto la Fata nella sua veste letteraria. Le relative figure chiave, provenienti dal mondo religioso e spirituale, come da quello fiabesco e gotico. Siamo poi arrivati a individuare quali persone realmente esistite possano aver codificato i diversi aspetti della complessa personalità di questa nostra Fata Turchina.
In conclusione, non possiamo che parlare dei mille volti che questo personaggio ha assunto grazie al cinema e alla televisione, proprio come un’antica divinità pagana che nel corso dei secoli muta nel nome e nell’aspetto. Più del romanzo originale, sono state le sue trasposizioni a definirne l’iconografia.

Un preciso punto di blu: la Fata Turchina al cinema

Si parte intanto con lo specificare un dettaglio curioso, sul quale forse non si è riflettuto abbastanza. Sebbene le varie rappresentazioni del personaggio (a partire dalle prime edizioni illustrate del romanzo) sembrino suggerirci diversamente, Il turchino dei capelli della fata non è una sfumatura verdastra di turchese, ma è un blu intenso. Questa non è che la minore delle differenze che riguardano la fata di Pinocchio, se tentiamo di paragonare la sua versione letteraria con la quasi totalità delle versioni filmiche, televisive e cinematografiche.

Questa parte dell’analisi si concentra pertanto sulle varie configurazioni iconografiche, derivanti dal mezzo audiovisivo, che hanno influenzato il modo in cui oggi pensiamo alla Fata Turchina. Abbiamo inoltre incluso una lista in appendice, la più completa possibile, delle trasposizioni che la storia del burattino ha avuto in ogni parte del mondo, con rielaborazioni ora più fantasiose, ora più fedeli e rispettose della visione collodiana. Sono incluse versioni cinematografiche, televisive, teatrali; rielaborazioni, parodie e riscritture di ogni genere. Sono presenti anche tre produzioni che si rifanno al romanzo russo Il compagno Pinocchio, di Aleksej Nikolaevič Tolstoj, che ha relativamente poco a che spartire con la storia originale. Di questa lista verranno analizzati solo i più importanti e significativi esempi.

Prima di tutto occorre differenziare due grandi famiglie (o tipi, proprio come le bugie) che si sono alternate nella rappresentazione su scena della Fata: quelle con i capelli azzurro/blu (spesso turchesi) e quelle che sono state bionde, brune, castane o rosse. C’è chi ha rifiutato la descrizione cartacea e ha riscritto un po’ la storia. Infatti, il leitmotiv della fata che appare al burattino nella notte della sua creazione è di matrice puramente disneyana (Pinocchio, 1940). Si tratta di una scelta, del tutto assente nel libro, dal grande effetto scenico e narrativo, felicemente ripresa dallo sceneggiato Rai del 1972, la versione di Comencini. Queste due versioni sono, con ogni probabilità, quelle che sono rimaste più impresse nell’immaginario collettivo. Eppure le due fate non potrebbero essere più diverse, per aspetto e personalità.

La Fata Azzurra, quella del Pinocchio di Walt Disney, è bionda e bellissima: con le labbra rosse come il sangue e un nastro blu in guisa di cerchietto, non appare molto distante da Biancaneve. L’ispirazione principale risulta essere però la fata che appare nel corto Il topolino e la fata (The Flying Mouse, 1934), facente parte del ciclo disneyano delle Sinfonie allegre.

La Fata Azzurra, esattamente come la sua progenitrice, è provvista di un paio di ali e veste una tunica smanicata che può farci pensare al mondo classico. Può sembrare una divinità greco-romana, ma anche una di quelle ragazze circondate da panneggi e vesti fluttuanti che ci arrivano dalle correnti estetiche Liberty e Art Nouveau, o ancora una sensuale Jean Harlow in sottoveste, come ci ha suggerito David Roberts (non è un caso che il personaggio sia stato direttamente ispirato all’attrice).
Eterea e sensuale allo stesso tempo.

A sinistra, Jean Harlow in Proprietà riservata (1937).

Questa è l’unica versione in cui è la fata stessa a donare la vita al burattino, con l’aiuto della sua bacchetta magica: un possibile riferimento alla Dea Madre, o comunque al potere della creazione legato alla sfera femminile. In tutte le altre, infatti, il “pezzo di legno” possiede vita propria fin da subito.

La Fata Azzurra disneyana è la personificazione di una stella che scende dal firmamento perché Geppetto ha espresso un desiderio. Appare a Pinocchio come una visione celeste e provvidenziale. In una scena sembra mostrarsi anche nelle sembianze della colomba bianca, come nell’interpretazione già descritta. Aiuta il burattino con fare materno, complice la dolcissima voce di Lydia Simoneschi, indiscussa divinità del doppiaggio italiano e voce di tutte le più grandi dive hollywoodiane dell’epoca d’oro del cinema. Nella versione originale, la profonda e calda voce di Evelyn Venable, attrice shakespeariana, ci regala una sfumatura diversa: meno zuccherina, più seducente, algida e autorevole, quasi una femme fatale.

Non altrettanto amorevole sarà la fatina targata Rai. La fata di Comencini è sempre bellissima, interpretata da una meravigliosa Gina Lollobrigida, ma non è bionda e nemmeno “turchina”. Questa fata è l’unica ad adottare un lucente violetto, per i suoi capelli. Il lilla sembra essere il suo colore: compare sia nel vestiario, che sui suoi occhi (possiamo dire che abbia il primato della fata dal trucco più pesante). Il regista ha rifiutato una gamma di toni troppo freddi e ha “smorzato” il tutto con abiti che vanno dal pallido viola invecchiato, al rosa molto carico, al bianco di una camicia da notte ricamata e adorna di fiocchi rosa.

La Fata di Gina Lollobrigida è amichevole e terrena, a volte severa e dai toni tendenzialmente meno manierati rispetto alla versione disneyana. Si arrabbia, deride Pinocchio e lo sgrida. Diventa oggetto di chiacchiere tra i compagni di scuola di Pinocchio (sanno che è una fata) e va a parlare con il suo maestro in abiti signorili, con tanto di ampio cappello con veletta e ombrellino parasole, per sapere dei progressi del bambino/burattino; fa beneficenza e regala la minestra ai poveri in strada. Il suo abito in pubblico (quando non è in sottoveste, come la fata disneyana) sembra ispirarsi ai primi del ‘900, più che alla seconda metà dell’800. Una scelta forse influenzata dal vestiario di un’altra celebre “fata madrina” del cinema, non sempre troppo gentile: parliamo della Mary Poppins del film in tecnica mista di Walt Disney, uscito solo otto anni prima.

Di fronte al suo burattino trasformato in asino, la Fata di Comencini ha solo parole dure e deluse, riassumibili con un “arrangiati”. Come già detto, si decide a trasformare Pinocchio solo dopo che Geppetto le dà della strega.
Come accennavamo, lei è anche l’unica Fata Turchina che spezza la barriera della dimensione vita/morte mostrandosi in mezzo alla gente comune, per fare beneficenza e per parlare con il maestro di Pinocchio. La stessa cosa accade una terza volta, quando il domatore del circo scorge la fata nel pubblico e le porge uno zuccherino da offrire in premio a Pinocchio, trasformato in asino. Le altre fate risultano più solitarie: quando appaiono in pubblico, lo fanno alla stregua di una visione, non sono fisicamente presenti in mezzo alla gente.

Anche la Fata di Gina Lollobrigida compare con abiti logori come quella del romanzo, ma in modo meno evidente. Qui la vediamo nel finale, quando – delusa da Pinocchio, trasformato in asino – gli dice addio.

Lei e la Fata disneyana, nella loro diametrale diversità, hanno fissato uno standard importante da cui ci si discosterà sempre molto poco, nelle versioni successive. Le differenze ci sono, ma non sono molte. Ad esempio, la fata del Pinocchio del 1947 era interpretata da Mariella Lotti, una bellezza algida e tagliente, alla Bettie Page, che quasi stona con la dolcezza della Simoneschi, di nuovo al leggio per il ruolo della fata. Il suo abbigliamento aveva la peculiarità di essere il classico costume da fata, non molto originale, provvisto di cappello conico con velo che pende dalla punta, e con maniche ricche e dall’apertura ampia, quasi medievale. Il colore è indefinibile, essendo la pellicola in bianco e nero, ma il disegno manuale di un manifesto a colori suggerisce che fosse vestita di rosa, coi capelli blu/azzurri.

Un’altra fata provvista di cappello è quella del film d’animazione Un burattino di nome Pinocchio del 1972, diretto da Giuliano Cenci. Questa volta si tratta però di un cappellino a cuffia, sempre provvisto di velo. La Fata qui ha capelli blu scuro e un vestito azzurro e viola, che ricorda vagamente il celebre abito blu della principessa Aurora, la bella addormentata disneyana. Anche qui, riconfermato l’ideale di dolcezza e maternità. Il grande realismo dell’animazione rotoscopica si combina molto bene con la voce della grande Vittoria Febbi, che da bambina fu la piccola Alice nella trasposizione Disney del classico di Carroll.

Restando nell’ambito del cinema d’animazione Made in Italy, il Pinocchio di Enzo D’Alò sarà l’unico lungometraggio a cartoni animati a mostrare una fatina che è sia bambina, sia pallida come la luna, sia dai capelli blu scuro. Una combinazione di tre “punti fedeltà” vista molto di rado.

La fatina del Pinocchio di Enzo D’Alò, del 2012.

Il massimo sperimentalismo italiano, in questo senso, lo troviamo con la Fata impersonata da Violante Placido. In questa miniserie in due puntate co-prodotta da Italia e Regno Unito nel 2009, Pinocchio è aiutato da una simpatica figura, più amica che mamma. Una giovane donna in abito di crinolina turchese, quasi bianco, con un nastro di raso verde acqua che le cinge la vita e qualche piccola rosa che spunta, sul capo, da una vistosa cascata di boccoli rossi.

Violante Placido nella fiction Pinocchio (2009), l’unica fata turchina dai capelli rossi.

Arriviamo alle due più grandi (e costose) produzioni dell’epoca contemporanea. Entrambe presentano una fata con una corona di fiori. Una ha i capelli del perfetto blu, il vero turchino, l’altra li ha di un pallido turchese, quasi bianchi. Le due versioni sono legate non solo dalla cura di entrambe le produzioni, ma anche dalla presenza di Roberto Benigni.
Nella prima ha il ruolo del burattino, nella seconda interpreta il falegname Geppetto: la chiusura di un cerchio.

Quando nel 2002 Benigni scelse di fare di sua moglie, Nicoletta Braschi, la fata dai capelli turchini, optò per un corredo di elementi visivi mai visti prima e di grande gusto estetico, forse l’unico in grado di improvvisarsi come “nuovo standard”. La Fata è, in questa versione, uno dei primissimi personaggi a comparire in scena. Dei ricci di un blu elettrico sono impreziositi da una bellissima corona di fiori che scende sugli occhi, alla moda dei figli dei fiori, negli anni ’70.

Il vestiario ricorda, a volte, la Fata di Gina Lollobrigida.
Il pastiche di generi e stili è assai evidente. Alla sua comparsa, la vediamo con il capo semicoperto da un tessuto leggerissimo (come la Vergine Maria).

Ha un abito dall’ampia scollatura e dai colori argentei e luminosi, che le dona un’aria classica e moderna insieme. In seguito, in casa sua, compare con tulli ricamati e organze. E con fiori, perle e gemme.
Azzurro, lilla e indaco sono i suoi colori distintivi.

Non la vediamo mai in abiti logori, a differenza della Fata del romanzo.
I suoi gesti aggraziati, le vesti sgargianti e la sua stupenda casa, con arredamento liberty, riflettono il suo alto rango. Ha persino un trono al centro del salone, che ci ricorda sia la disneyana Dea della Primavera, sia la dama del dipinto La vestizione di Edmund Blair Leighton.

In generale, la Fata di Benigni appare sognante, languida, pervasa di malinconia. Non è mai severa, col suo burattino, e nel corso del film dimostra di avere una personalità complessa e profonda.

A sinistra, la Fata guarda Pinocchio, diventato asino, con tristezza e rassegnazione.
In questa scena porta i capelli raccolti e indossa abiti meno giovanili: forse un riferimento alla Fata del romanzo in versione adulta, ma senza perdere l’aspetto signorile che la caratterizza nel film di Benigni.
Il cameo che indossa è una piccola citazione a Le avventure di Pinocchio di Comencini.
A destra, in uno dei suoi abiti più luminosi, la Fata saluta Pinocchio diventato bambino, nel finale.

In definitiva, il Pinocchio di Benigni ha diversi problemi (tra cui Benigni stesso), ma la sua fata è pressoché impeccabile. Un mix memorabile di novità e fedeltà al libro.

Il Pinocchio di Benigni è l’unico film in cui la Fata è ritratta anche in versione anziana, prima che il burattino la riconosca, dopo averla incontrata al mercato. Subito dopo torna sé stessa e appare vestita a lutto (unico caso).

L’unico dettaglio letterario a cui il film non ha voluto sottostare è quello della fata-bambina. Sotto questo punto di vista, risulta significativo il contributo di Matteo Garrone: in questa raffinata produzione del 2019, Pinocchio incontra prima di tutto una piccola amica. Sì, è saggia e sapiente (gli fa bere la medicina), però poi i due bambini vivono in casa come fratello e sorella. Giocano, si divertono e ridono. La genuinità di Alida Baldari Calabria è il fiore all’occhiello di questa versione. Lei e il piccolo Federico Lelapi (Pinocchio) sono riusciti a infondere vero affetto fraterno, forse per la prima volta sullo schermo, nel rapporto tra la fatina e il suo bambino di legno.

Un po’ più asettica e in bassorilievo la sua versione adulta, pur con la bella voce di Domitilla d’Amico. Non vi sono cambi di costume, eccezion fatta per un velo sul capo della fata adulta, in una sola scena.

La versione adulta e quella infantile hanno vestiti, acconciature e accessori identici. Dei perfetti boccoli dal colore turchese pallido, quasi verde acqua, sono sormontati da una corona di minuscoli fiorellini tendenti al grigio. La corona non scende sugli occhi, ma resta dietro la testa, come fosse un’aureola. La fatina di Garrone è forse l’unica rappresentazione che esprime un diretto rapporto con la morte, in modo abbastanza esplicito. Questo spiegherebbe non solo la sua marcata monocromia generale (tendente al grigio-bianco, con un leggero accenno di turchese), ma anche la scelta di una veste dall’aspetto consumato, quasi logoro. Di certo, detiene il primato di fata più spettrale, soprattutto alla sua apparizione in veste adulta quando, candida ed eterea, si avvicina a Pinocchio in modo lento e intenso, come fosse un fantasma, in una tenue penombra che rende persino difficile riconoscerne il caratteristico colore di capelli.

Giungiamo infine al remake del Classico Disney Pinocchio, uscito nel 2022, in cui la Fata è interpretata da Cynthia Erivo. In italiano, questa versione della Blue Fairy viene definita “Fata Turchina”, come quella di Collodi: una scelta incoerente rispetto all’adattamento del film d’animazione, in cui era stata ribattezzata “Fata Azzurra”.

Il personaggio presenta non poche falle, in termini di sceneggiatura e caratterizzazione. Partiamo da un assunto: nel film del 1940, la Fata Azzurra era l’unica figura femminile umana del film, ma anche la più potente. Se è vero che il destino del burattino dipende dalle sue azioni, è anche vero che a sovrintendere all’intera operazione è proprio la Fata, un’entità divina al di sopra delle parti, assimilabile alla Provvidenza che premia i giusti e punisce gli empi. È lei a decidere delle sue sorti, in base a come si comporterà. I fili del burattino sono fra le sue mani come i fili del destino degli umani sono fra le mani delle Parche (chiamate anche fatae, non a caso!).

In contrasto con la sua precorritrice, la fata del remake appare confusa, distratta e poco coinvolta in relazione a quegli stessi eventi su cui nel Classico originale aveva pieno controllo. Pinocchio prende vita prima che lei faccia la sua comparsa grazie a un fascio di luce azzurra proveniente dalla finestra, presumibilmente in rappresentanza della Stella dei desideri. Quando il burattino, muovendosi in modo inconsulto, si impiglia fra i suoi stessi fili, ecco che la Fata compare per sistemare tutto: pensiamo che abbia il controllo della situazione, ma i successivi dialoghi sembrano contraddirci.

Se nel film originale la bionda Fata Azzurra è già a conoscenza di tutto nel momento stesso in cui appare e utilizza il suo potere per “animare” Pinocchio, questa nuova Fata fa la sua comparsa ‘a cose fatte’ e continua a porre domande agli astanti: chiede a Pinocchio se è reale (ma non è lei stessa ad averlo reso tale?); chiede al grillo chi sia; chiede se sia Geppetto ad aver costruito Pinocchio (ma non dovrebbe già saperlo, essendo comparsa proprio a seguito del desiderio del falegname?), addirittura chiede lumi sul termine “babbo” (“pops” in inglese). Tutte domande che non solo appaiono superflue, allungando inutilmente il brodo, ma che stridono fortemente sia con la prospettiva che sia stata lei a compiere la magia (portandoci a pensare che la luce azzurra agisca in modo autonomo), sia con le sue successive dichiarazioni (la Fata ha appena conosciuto il grillo, ma due minuti dopo sentenzia sul suo stile di vita come se lo conoscesse da sempre), sia con la natura onnisciente che la contraddistingueva nel Classico originale, ponendola ‘al di sopra delle parti’. È come se la Fata Madrina di Cenerentola chiedesse alla protagonista che ci fa vestita di stracci, perché si trova da sola nel cortile, cos’è un Ballo e via dicendo: si presuppone che le Fate sappiano già tutto, se si manifestano proprio in virtù della volontà e della speranza di qualcuno.

E se la Fata del Classico poteva apparire come un’incarnazione della Dea Madre (“la vita io ti ho donato”), in questa versione appare poco sveglia perfino in merito ai più basici principi legati alla procreazione, arrivando a chiedere “Perché fare un burattino se puoi avere un bambino vero?”, una domanda (indelicata) che presuppone che le due attività richiedano pressapoco lo stesso tempo e ‘materiale’. Questa domanda lascia inoltre intendere che la Fata non sia neanche a conoscenza del fatto che Geppetto aveva effettivamente avuto un figlio, poi morto. Questa Fata appare quasi completamente avulsa dalla realtà su cui dovrebbe operare. Forse l’unico atto che mette in luce una sua effettiva influenza sugli eventi è il fatto che faccia un incantesimo al cervello di Pinocchio per evitare di fargli ripetere all’infinito frasi pronunciate da altri, ma l’incantesimo è volto a ‘correggere’ una magia da lei stessa compiuta (ammesso, appunto, che la luce azzurra agisca secondo il suo volere), evidenziando piuttosto una sua inefficienza magica.

Con queste premesse, forse è un bene che la presenza di questa Fata si limiti alla sua scena introduttiva.
Apparendo solo nella sequenza in casa di Pinocchio, la vediamo molto poco non soltanto in quanto attrice, ma anche come personaggio. Non ci sono cambi di forme, né di età, e nessuna trasmutazione animale. Il colombo, ovvero la Fata in uno dei suoi travestimenti, è stato sostituito da una gabbiana di nome Sofia, personaggio inventato ex novo. Nicola Carollo suggerisce che la Fata possa aver assunto la forma della maestra di Pinocchio, la signora Vitelli. In fondo, entrambe sono donne nere ed entrambe potenzialmente ricoprono il ruolo di ‘educatrici’ per Pinocchio, anche se questo non viene effettivamente assolto dalla seconda (interpretata da Sheila Atim), che vedrà il burattino solo una volta per strada. Potremmo perfino ipotizzare che Fabiana, la ragazza che Pinocchio incontra da Mangiafuoco, anche in questo caso interpretata da un’attrice nera (Kyanne Lamaya), rappresenti la Fata Turchina da giovane e la sua marionetta, Sabina, con le sembianze di una ragazzina di colore, rappresenti nuovamente la fata nella sua forma infantile. In questo caso la natura della Fata sarebbe più che triplice, quadruplice!

Si tratta, tuttavia, solo di ipotesi – anche fin troppo ottimiste, se si prende in considerazione il grado di sciatteria dell’intera operazione –, perché nei fatti non rivediamo più la Fata, neanche sul finale.
Nel Classico Disney almeno sentivamo la sua voce, quando Pinocchio si trasformava in un bambino vero, ma qui c’è soltanto una grotta inondata di luce azzurra, in riva al mare, verso la quale Geppetto e Pinocchio si dirigono, con il burattino che si trasforma in bambino mentre cammina mano nella mano col suo babbo. La fata non appare, ritroviamo solo il suo colore distintivo, leggermente visibile anche nella lacrima che Pinocchio versa sul corpo di Geppetto, credendolo momentaneamente morto.

In linea generale abbiamo una fata che presenta molte rotture con i motivi estetici e semantici del passato, perché per la prima volta è impersonata da un’attrice di colore, ha un numero cantato, non ha una chioma fluente (ma capelli cortissimi, rasati) e presenta (ben in vista) un accessorio luccicante sopra l’orecchio destro che sembra quasi ricordare un apparecchio acustico. Nel complesso appare androgina, quasi aliena. Questo è un aspetto che può ricordare le fatine asessuate (pixie) della tradizione anglosassone, che venivano spesso raffigurate senza capelli (o con capelli cortissimi) e con diversi colori di pelle (slegati da connotazioni razziali). Possiamo notare come le luci donino alla pelle di Cynthia Erivo un tono di blu, in linea con il nome inglese (Blue Fairy), ma spesso il colore della pelle delle pixie era il verde, in relazione alla natura: una curiosa coincidenza, se pensiamo che la stessa attrice interpreterà anche Elphaba nell’adattamento cinematografico di Wicked, in uscita prossimamente.

Tuttavia, è più probabile che l’intento fosse semplicemente quello di rispecchiare il tipico look dell’attrice, famosa per i capelli rasati.
In contrasto con le pixie, la fattezze e le proporzioni di questa fata sono comunque umane, in linea con il modello “mediterraneo” incarnato dalla Fata di Collodi. Nell’immaginario collettivo, la figura della fata antropomorfa si lega da un lato all’immagine di una ‘madrina’ anziana e un po’ goffa, e dall’altro a quella di una giovane convenzionalmente attraente, elegante e delicata, una figura più eterea e idealizzata di quella restituita dall’interpretazione di Cynthia Erivo, che quindi diverge dalla tradizione non solo in relazione all’etnia.

In ultimo, il vestiario ricorda molto una tunica greco-romana, forse nell’intento di rimandare ad una divinità classica, come le fate venivano spesso raffigurate nelle illustrazioni dei libri per bambini fra fine Ottocento e inizio Novecento, in piena fase Art Nouveau.
Le sue ali rimandano ad ali d’insetto, in linea con la tradizione delle “fatine” anglosassoni, ma per il modo in cui sono disposte sembrano rimandare a delle ali d’angelo. Sacro e profano?

Se la fata del remake Disney era una creatura non così ultraterrena, ma più vicina (forse troppo) al punto di vista dell’umano spettatore, senza alcuna particolare variazione sul tema, il tanto atteso film in stop-motion di Del Toro ha percorso sentieri ben più selvaggi e inesplorati, su tutta la linea.

L’azione spostata nell’epoca fascista e lo stile narrativo molto semplice e diretto, tale da mettere in chiaro antiche metafore già qui affrontate, pongono subito il burattino nell’ottica della similitudine cristiano-cattolica che lo associava a Gesù Cristo (qui nel modo più sfacciato di sempre) e che lo designa come outsider incompreso, il ribelle che non intende sottostare al potere politico, alla pressione sociale e alla realtà dittatoriale. La fata (anche se in realtà una sola non è) dal canto suo è molto meno scontata, perché non si tratta dell’ennesima personificazione della Beata Vergine, contrariamente a quanto potrebbe lasciar presagire il cristianesimo imperante della simbologia che pervade il resto del film.

La fata del Pinocchio di Del Toro è un’entità mistica molto peculiare, che fa la sua prima comparsa sotto forma di un occhio volante, circondato da una fiamma azzurra a fargli da coda, molto simile al fuoco fatuo che vediamo in Ribelle – The Brave. La ripresa si concentra su un occhio, ma sono in realtà moltissimi, che fluttuano proprio in una foresta. Forse un modo dirci che saranno parte integrante del destino del protagonista. È poi lo stesso grillo a presentarci queste mitologiche figure, questo sciame di occhi che fluttua, dichiarando che si tratta di “old spirits”, antichi spiriti che a volte si interessano delle vicende degli umani. Una moltitudine di occhi che si ripropone successivamente proprio sulle grandi ali della fata, che rivediamo nel momento in cui il burattino prende vita (sulla falsa riga narratologica del Pinocchio classico Disneyano, del Pinocchio di Comenicini e di vari altri).

Dal punto di vista estetico, questo aspetto dell’occhio si rifà certamente all’iconografia canonica di una precisa gerarchia angelica, tipica di alcuni passi biblici dell’antico testamento. Le figure angeliche, a seconda delle tipologie, possono avere una figura tutt’altro che umana, costituite solo da ali e occhi. In alcuni casi hanno anche una forma di ruota, adorna appunto di palpebre anatomicamente fedeli e fornite di pupille, perché si tratta delle figure angeliche che mai dormono e che sono più vicine a Dio, in quanto vere e proprie ruote del suo carro celeste.

Si può quindi affermare come la simbologia religiosa sia comunque fortemente presente, trattata e riscritta, soprattutto nel caso di questa fata, che si presenta con l’appellativo (ipse dixit) di “guardiana” ed era stata precedentemente qualificata come “antico spirito”. Parla come se avesse sul volto una maschera funeraria di pietra, senza mai muovere le labbra e neanche i muscoli facciali, proprio come parlava l’oracolo di pietra del film La Storia Infinita, cui somiglia vagamente anche dal punto di vista fisico. Ci ritorneremo.

Quando appare per la prima volta nel laboratorio di Geppetto, sarà comunque questa moltitudine di occhi a riunirsi per prima a mezz’aria, per dare poi vita a una luminosa figura femminile che è priva di gambe, ma presenta una sorta di coda piumata (o squamata, scelta volutamente ambigua). La figura è del tutto colorata di blu, con pochi toni cangianti. Un bozzolo color indaco che dischiude le plurime ali (cinque paia, contando le piume ai lati del capo) per lasciar intravedere delle forme femminili dal corpo antropomorfo (volto compreso), ali e coda da animale. Ipnotici occhi bianchi, di pura luce, ad attirare la nostra attenzione.

Più che chiara, la citazione letteraria. Il riferimento è sì, la divinità che trasmuta in uccello, come nel libro, ma anche un velato riferimento alla sfinge, alla chimera e (soprattutto nel caso della sorella, la seconda configurazione che stiamo per vedere) al capricorno.

L’oracolo presente nel film La Storia Infinita torna nuovamente in aiuto. Non a caso era costituito da due figure femminili di colore blu, poste una di fronte all’altra. A comprova di questo, c’è da considerare l’aspetto più interessante di tutto il film: nella pellicola di Del Toro non sarà sempre la stessa fata a interagire con il protagonista, ma anche un’altra fata, sorella della prima e complementare ad essa.

Assistiamo quindi ancora una volta a una fata che ha più di una configurazione, più di un solo aspetto univoco. Diverse interfacce che rimandano in coro allo stesso concetto, ma con alcune differenze. Donna uccello, donna fatata, donna animale, una e trina (le due sorelle e l’occhio).

La seconda fata può sembrare identica a sua sorella, ma solo a una prima occhiata, poiché appare molto diversa via via che ci soffermiamo ad osservarla e ascoltiamo le sue parole.

Come per gridare a voce alta la loro palese complementarità, queste due fate sorelle si pongono l’una come portatrice di vita e l’altra come guardiana del regno dei morti. Pinocchio incontrerà la prima quando prende vita (ambo le volte, all’inizio e alla fine del film), mentre l’altra la incontra ogni volta che muore. Infatti troviamo, nel contesto in cui Pinocchio trapassa senza mai morire in maniera definitiva, una fata che mantiene un unico paio di ali sul dorso e un volto dalle stesse fattezze umane, che è sempre coperto dalla maschera di pietra, ma questa volta è munito di grandi corna caprine (tre paia) e il suo corpo (sempre tutto blu) ricorda quello di un grifone, un animale mitologico poco definito, che si muove a quattro zampe. Ha sempre una grossa coda, che di nuovo appare piumata, ma è più probabilmente squamata poiché termina in due serpenti vivi, dritti e sull’attenti, sibilanti. Ha poi zampe posteriori da capra (o da volatile, non è chiaro, ma sempre squamate) e mani umane, ben più inquietanti di quelle della prima sorella. Se la prima fata ha un tocco di luce che rende le sue mani luminose e senza unghie, con le quali dona la vita al burattino, la seconda ha lunghi artigli neri e affilati. Sempre presenti e ben visibili i tanti occhi che qui adornano le corna, oltre che l’unico paio d’ali. Un aspetto che sembra voler citare in modo al quanto palese la forte connotazione animale del potere fatato, elemento caratteristico anche della versione letteraria.

Se la prima fata regala la vita a Pinocchio per dare gioia all’anziano genitore, questa sostiene che quel dono era insensato e frutto della mancata osservanza di misteriose regole (che sua sorella non segue). Questa animalesca creatura fatata è sempre in posizione rilassata (accovacciata) e il suo antro è pieno di clessidre, poiché essa infatti scandisce il tempo di attesa di Pinocchio per ritornare alla vita. In quanto non realmente vivo, lui non può morire e questa fata è sempre lì ad attenderlo nel suo antro, tra una morte e l’altra. Sarà lei a dire al burattino che ciò che rende la vita umana preziosa e densa di significato è proprio il fatto che sia breve. Un certo qual modo di ribadire il concetto molto pagano della caducità della vita e del suo ciclico rigenerarsi. Infatti, la seconda fata avverte Pinocchio che morirà più e più volte, perché è naturale, ma che una vita così, una vita eterna, può portare anche un’eterna sofferenza.

Alla fine della pellicola, diventa ancora più esplicito il legame tra le due fate e il rapporto tra vita e morte, che le caratterizza. La seconda fata, oscura e tenebrosa, assumerà il ruolo di portatrice di morte, come sua sorella era portatrice di vita. Pinocchio non ha ruolo passivo, in questo, perché è lui che rompe le clessidre della fata e sceglie di andare in contro alla morte, pur di salvare il padre. Questa è una probabile metafora della condizione umana stessa: l’essere umano non sceglie di vivere, ma può scegliere di andare incontro alla morte. Una volta trapassato in maniera definitiva, Pinocchio viene riportato alla vita grazie al desiderio del grillo e per opera della prima fata, che si ripresenta solo alla fine, per chiudere il cerchio. E il film finisce.

In conclusione, le due fate sorelle del Pinocchio di Del Toro sono due facce della stessa medaglia e per questo è possibile vedere in loro vari rimandi simbolici. Possono essere, contando anche l’occhio (o gli occhi) che vediamo a inizio film, associate facilmente alla Santa Trinità, ma al femminile. Non più padre e figlio, ma vita, morte e spirito. Sono angeli custodi (guardiani), ma sono anche divinità pagane, dalla forte natura animale, che interagiscono con l’essere umano per alleviarne le pene, ma sono anche i ritmi incessanti dell’esistenza, scandita da tempi e regole invalicabili. Il loro perfetto dualismo e la già sottolineata complementarità ci ricordano naturalmente anche le due fate del classico libro fantasy The Water Babies (Bambini Acquatici, di Charles Kingsley), precedentemente citato in questo articolo. Ambo le coppie rappresentano delle leggi naturali e sono metafore di aspetti della vita umana. Una è più inquietante, più brutta e severa, l’altra più magnanima, dolce e comprensiva, ma non potranno mai esistere l’una senza l’altra. Proprio come la vita e la morte.

Si esauriscono così le più interessanti fate turchine di cinema e televisione. Certo, ce ne sono molte altre, alcune anche parecchio strane. Ci sono fate che sono completamente blu, dalla testa ai piedi, anche nel colore della pelle. Altre hanno i capelli neri e altre ancora sono delle burattine (come nella riscrittura russa di Tolstoj).
Per approfondire è sufficiente qualche piccola ricerca, magari partendo dalla seguente lista, da me compilata, che mira a tenere nota di ogni trasposizione di cui si abbia notizia. Se ne avete qualcuna da aggiungere, non esitate a segnalarcelo scrivendo un’email a contatti@heroica.it.

1901 Pinocchio (Italia, Giulio Antamoro)
1936Le Avventure di Pinocchio (Italia, CAIR) incompiuto
1939Pinocchio – La Chiavetta d’Oro (Russia, Aleksandr Lukič Ptuško)
1940Pinocchio (USA, Walt Disney Animation Studios)
1947Le Avventure di Pinocchio (Italia, Giannetto Guardone)
1956Pinocchio (Canada, Société Radio-Canada)
1957Pinocchio (USA, Paul Bogart)
1959Le Avventure di Pinocchio (The Adventures of Buratino, Russia, Sojuzmul’tfil’m)
1961Pinocchio (Italia, Carmelo Bene)
1965Pinocchio (USA, Nick Havinga)
1965Pinocchio in outer space (Belgio, USA, Ray Goossens)
1967Pinocchio (Turlis Abenteuer, Germania,
Walter Beck Ron Merk)
1967 Pinocchiova Dobrodružství (Repubblica Ceca, Zdenek Sirový)
1971Le Avventure erotiche di Pinocchio (USA, Corey Allen)
1972Le Avventure di Pinocchio (Italia, Luigi Comencini)
1972Le Nuove Avventure di Pinocchio
(Kashi no Ki Mokku, Giappone, Tatsunoko)
1972Un Burattino di nome Pinocchio (Italia, Giuliano Cenci)
1975The Adventures of Buratino (remake, Russia, Leonid Nechayev)
1976Pinocchio (Pikorīno no Bōken, Giappone, Nippon Animation)
1976Pinocchio (Giappone, Manga Sekai Mukashi Banashi, ep. 124b/127b)
1976 Pinocchio (USA, Ron Field, Sid Smith)
1978Pinocchio (USA, Barry Letts)
1984Pinocchio (USA, Shelley Duvall’s Faerie Tale Theatre)
1987I Sogni di Pinocchio (USA, Filmation, Hal Sutherland)
1991964 Pinocchio (Giappone, Shozin Fukui)
1992Pinocchio (USA, Golden Films)
1995Pinocchio (Giappone, Anime sekai no dōwa, ep. 7)
1996Le straordinarie avventure di Pinocchio (USA, Steve Barron)
1996Bad Pinocchio (Pinocchio’s Revenge)
1999Il mondo è magia – Le nuove avventure di Pinocchio 
(The New Adventures of Pinocchio)
2000Geppetto (USA, Walt Disney Television, Tom Moore)
2001A.I. Intelligenza Artificiale (USA, Steven Spielberg)
2002Pinocchio (Italia, Roberto Benigni)
2003Pinocchio – Il grande musical (Italia, Saverio Marconi)
2004Pinocchio 3000 (Canada, Francia, Daniel Robichaud)
2007Bentornato Pinocchio (Italia, MondoTV, Orlando Corradi)
2009Pinocchio (Italia, GB, Roberto Sironi)
2010Pinocchio (Germania, Simsalagrimm, ep. 3×21)
2011 /’18C’era Una Volta (USA, Once Upon a Time)
2012Pinocchio (Italia, Enzo D’Alò).
2013Pinocchio (Germania, Anna Justice)
2019Pinocchio (Italia, Matteo Garrone)
2021Il villaggio incantato di Pinocchio (Italia, Francia, Stephan Mit)
2021Pinocchio and Friends (Italia, Iginio Straffi)
2022Pinocchio (USA, Walt Disney Pictures, Robert Zemeckis)
2022Pinocchio (USA, Messico, Guillermo del Toro)
Cynthia Erivo interpreta la Fata Azzurra nel remake in live action del Classico Disney, uscito nel 2022.

La Fata svelata

Quando Collodi introduce la Fata Turchina, Pinocchio passa dalla lunghezza tipica del récit francese a quella del romanzo vero e proprio. Senza di lei, la storia del burattino sarebbe rimasta a un livello molto più terreno. Un Cappuccetto Rosso di legno. Una buona favola ammonitrice, un po’ banale, che ci insegna quanto i bambini sappiano essere “teste di legno” e che, se agiscono come tali, vanno incontro alla più truce ed emerita morte. La Fata ha elevato questa storia e l’ha resa il capolavoro che è, un fiore all’occhiello nostrano in un momento storico che assisteva alla nascita di vere e proprie colonne portanti del genere fantasy, giunte a noi dal mondo anglosassone.

Nella storia di Pinocchio, la Fata è centrale e al contempo sfuggente, ambigua, dalla forma non univoca. Forse è stato proprio questo a renderla così affascinante ai nostri occhi, tanto da spingerci a scoprirla, a svelarla. Incontrando una poliedricità di significati dietro a una figura ridotta al ruolo molto più semplice e inquadrabile di magic helper del burattino.
Una gamma intera di colori riassunta in un semplice (e ingannevole) turchese. Tante sfumature, quante sono le sue diverse configurazioni. Proprio come una della meravigliose, antiche Dee del passato, il suo aspetto può essere mutato nei secoli, ma non il suo antico messaggio di vita e ciclicità. La Fata Turchina può essere ora la Vergine Maria, ora la Dea Iside, ora una dolce bambina al servizio della famiglia di Collodi, ora un’anarchica rivoluzionaria…
Il cinema in questo è venuto certamente in aiuto. Nessun altro mezzo è sempre lì, pronto a farci capire che possiamo vedere la stessa figura, o maschera, migliaia di volte in veste differenti, ma si tratta sempre di lei. Sempre lei, ma mai la stessa. Dea, fata, strega… e mille altre cose ancora.

1.Geppetto (2000); 2. Pinocchio (1911); 3. Le Avventure di Pinocchio (1972); 4. Pinocchio (2019); 5. Le avventure di Pinocchio (1935, incompiuto); 6. Un Burattino di nome Pinocchio (1972); 7. Le Nuove Avventure di Pinocchio (1972); 8. Pinocchio (1978); 9. Le Avventure di Pinocchio (1959); 10. Bentornato, Pinocchio (2007); 11. Pinocchio (2012); 12. Pinocchio (1940); 13. Pinocchio (2002); 14. Pinocchio (2009); 15. The Adventures of Buratino (1975); 16. Pinocchio (1976); 17. Pinocchio (1965); 18. Pinocchio – La Chiavetta d’Oro (1939); 19. Pinocchio in outer space (1965); 20. Pinocchio (1961); 21. Pinocchio – Il grande musical (2003); 22. Pinocchio (2022); 23. Le Avventure di Pinocchio (1947); 24. Pinocchio (2013); 25. Pinocchio (1976); 26. Pinocchio (1984); 27. Pinocchiova Dobrodružství (1967); 28. Pinocchio (1967); 29. Pinocchio (1995); 30. Il villaggio incantato di Pinocchio (2021); 31. Le straordinarie avventure di Pinocchio (1996); 32. C’era una volta (2011-2018); 33. A.I. Intelligenza Artificiale (2001); 34. Pinocchio (2010); 35. Pinocchio 3000 (2004); 36. Pinocchio (1992); 37. I Sogni di Pinocchio (1987).
La Fata Turchina nella versione di Gullermo del Toro.

A mia madre, Lara, che da piccola voleva un Pinocchio di legno.
– Angelo Serfilippi

A Nicola Carollo, che è diventato un “bambino vero”, e a Travis Stoll, che un tempo mi ha detto che sono la Fata Turchina.
– Leone Locatelli

Anna Marchesini imita la Fata Turchina di Gina Lollobrigida nella parodia de I Promessi Sposi (1990).

Bibliografia

Apuleio, Lucio, Metamorphoseon libro XI, Asinus Aureus, II sec. dC.

Barbalace, Giuseppe, “Alle radici del femminismo”, dalla rivista Mondoperaio 8-9/2016, p. 107.

Biffi, Giacomo. Contro Maestro Ciliegia. Commento teologico a “Le avventure di Pinocchio, Jaca Book, 1977.

Canali, Filippo, Carlo Collodi Lorenzini, un comunicatore del XIX secolo, Apice Libri, 2016.

Collodi, Carlo, Le avventure di Pinocchio, storia di un burattino, Felice Paggi, libraio – editore, Firenze, 1883. copia anastatica della prima edizione in volume.

Mantelli, Esther Rebecka Sjöberg, La Fata Turchina – Una Bildung per le donne?, Università di Umeå, Svezia, 2020.

Mazzoni, Cristina, The Short-Legged Fairy: Reading and Teaching Pinocchio as a Feminist. Forthcoming in Approaches to Teaching Pinocchio and Its Adaptations. Ed. Michael Sherberg. New York: Modern Language Association, 2006.

Rilli, Nicola. Pinocchio in Casa Sua. Da Firenze a Sesto Fiorentino. Realtà e Fantasia di Pinocchio, Arti grafiche Giorgi & Gambi, Firenze, 1973.

Soldani, Anna. Il Segreto di Pinocchio, la storia della “vera” fatina e dei luoghi del burattino. Con un epistolario inedito, Florence Art Edizioni, 2020.

Zolla, Ellémire, Uscite dal mondo, Adelphi Edizioni S.P.A., Milano, 1992.

Sitografia

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http://www.centrumlatinitatis.org/cle_it/atrium/Cultura/Iside_Mattera.pdf

https://digitalcommons.denison.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1021&context=religion

http://giacintobutindaro.org/2013/03/13/pinocchio-e-una-parabola-massonica/

http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/zolla/pinocchio.htm

http://www.mondoperaio.net/wp-content/uploads/2017/05/completo-8-9.pdf

https://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/7256.html

https://frameblog.unibo.it/index.php/2018/03/16/il-mito-di-iside-e-osiride/

https://grbs.library.duke.edu/article/viewFile/271/351
https://iniziazioneantica.altervista.org/moderni/zolla/uscite_dal_mondo_zolla.pdf

https://it.wikisource.org/wiki/Le_avventure_di_Pinocchio/Capitolo_34


https://professoressaorru.files.wordpress.com/2010/02/apuleio_metamorfosi.pdf

https://vitoditaranto.wordpress.com/2016/11/04/pinocchio-simbolismo-massonico-ed-esoterico/

https://wsimag.com/it/cultura/66968-il-terzo-occhio-di-pinocchio

https://www.diva-portal.org/smash/get/diva2:1564859/FULLTEXT01.pdf

https://www.psiconline.it/contemporaneamente-luci-ed-ombre-del-millennio/l-incarnazione-di-pinocchio.html

https://www.repubblica.it/rubriche/sfumature/2017/05/04/news/per_fortuna_una_fata_turchina_ci_salvera

https://www.uvm.edu/~cmazzoni/mazzoni_articles/2007pinocchio.pdf

https://www.yorku.ca/inpar/inpar001_pigg.pdf

Due versioni della fata che parla a Pinocchio dal suo balcone:
“In questa casa non c’è nessuno, sono tutti morti”.

Ricerca e realizzazione: Angelo Serfilippi
Ideazione e supervisione: Leone Locatelli