In che modo Barbie, la fashion doll più famosa e longeva del mondo, ha incarnato lo spirito dei tempi, diventando il vessillo di una condizione femminile in continuo mutamento?
Partiamo per un viaggio nel tempo attraverso i modelli più significativi della bambola prodotti fra il 1959 e il 2000, per poi fare qualche considerazione sul difficile ventennio 2001-2021, e sul fenomeno #BarbieCore, scoppiato grazie al film Barbie (2023).
① 1959-1963: dalla nascita di Barbie all’alba della Seconda Ondata
L’invenzione di Barbie rappresenta, già di per sé, una piccola rivoluzione. Per la prima volta, le bambine avevano a disposizione una bambola che ampliava le loro possibilità di gioco: in qualità di fashion doll, Barbie si distingueva dai bambolotti con cui erano solite giocare a fare “la mamma”, presentandosi come un modello aspirazionale.
La prima campagna di marketing ideata da Mattel puntava a presentare Barbie come uno strumento attraverso cui le bambine – pettinandola e vestendola – avrebbero potuto imparare a badare al proprio aspetto in vista del matrimonio: alla luce di questo, il primo spot pubblicitario di Barbie poneva particolare enfasi sul modello vestito da sposa.
Nonostante le premesse, la bambola si cementerà nell’immaginario collettivo come un’eterna rappresentazione della donna nubile, anche grazie alle numerose carriere da lei intraprese. Nei primi anni ’60, infatti, il lavoro era generalmente visto come una fase transitoria nella vita di una giovane donna, un temporaneo spiraglio di indipendenza economica prima di sposarsi e abbandonare il posto per badare alla casa e alla famiglia.
Nei primi anni della sua carriera, Barbie ricopre mansioni considerate ‘femminili’ secondo i canoni del tempo: si tratta di lavori spesso legati all’accudimento – come quello dell’infermiera (1961) o della maestra (1965) –, talvolta coadiuvato con la richiesta di una ‘bella presenza’, come nel caso dell’hostess di volo (1961). Il lavoro femminile poteva poi abbracciare l’ambito della moda e della bellezza – Barbie viene di fatto presentata come una ‘fashion model’ fin dal suo debutto, ma nel 1960 diventa anche Fashion Editor. In questi primi anni stupisce la mancanza di una Barbie esplicitamente descritta come “segretaria”, uno dei mestieri più diffusi fra le donne, ma nel 1963 appare una più generica “Executive Business Girl” a rappresentare i più svariati lavori d’ufficio che una giovane dell’epoca poteva svolgere.
La presenza di un impiego suggerisce dunque che Barbie non sia sposata: nonostante i vari modelli a tema usciti nei suoi oltre 60 anni di vita, infatti, la Mattel ha preso la decisione di non far mai convolare a nozze il proprio personaggio proprio per non porre limiti all’immaginazione delle bambine. All’epoca, la bambola rappresentava quel periodo di temporanea libertà che precedeva il matrimonio, ma col tempo è diventata il vessillo di uno stile di vita senza ‘data di scadenza’. Già nel 1962, prima che alle donne americane fosse permesso di possedere un conto in banca a proprio nome, Barbie godeva dell’indipendenza garantita dai frutti del proprio lavoro grazie ad un’automobile personale e una DreamHouse a lei intestata.
La prima ‘casa’ di Barbie non prevede strumenti volti al lavoro domestico, concentrandosi sul comfort di un soggiorno in cui ospitare gli amici o rilassarsi dopo una giornata in ufficio. La presenza di una fotografia incorniciata del suo fidanzato (Ken) suggerisce che Barbie viva da sola, proprio come la Holly Golightly di Colazione da Tiffany, uscito l’anno prima.
Qualcosa stava cambiando per le donne nubili americane, che finalmente cominciavano a veder legittimato il loro stile di vita: nel 1962 esce Sex And The Single Girl di Helen Gurley Brown, il manuale che le invitava a divertirsi, godendosi l’indipendenza economica e le relazioni pre-coniugali. Nel 1963 esce La mistica della femminilità di Betty Friedan, che spingerà la casalinghe americane a cercare “qualcosa in più”, assaporando un po’ di quella libertà che era loro concessa prima del matrimonio.
La Seconda Ondata femminista era ormai alle porte…
➁ 1964-1968: Barbie fra diritti civili e movimenti giovanili
Il 1963 è anche l’anno del più celebre discorso di Martin Luther King (“I have a dream”), che porterà i diritti degli afroamericani al centro del dibattito internazionale, e della prima donna nello spazio, Valentina Tereshkova, di cui Barbie imiterà le gesta diventando un’astronauta (1965), con un elmetto che rimanda ai copricapi ispirati all’era spaziale, in gran voga in quegli anni, che rappresentano il sogno di un mondo senza confini.
La prima grande rivoluzione estetica di Barbie arriva verso la fine del decennio, all’alba del ’68. Fino a quel momento, i modelli di riferimento della bambola erano stati le grandi dive di Hollywood, poi Jackie Kennedy. Lo stile bon-ton dei suoi primi anni di vita è ben rappresentato dal completo rosso del 1962, ispirato alla First Lady, e dal tubino nero che indossa nel 1964 – un velato omaggio a Colazione da Tiffany, in grado di coniugare eleganza e praticità.
Nel 1967 cambia tutto: le nuove tendenze arrivano dalla Gran Bretagna, facendo seguito all”invasione” inaugurata dai Beatles tre anni prima, e Barbie si ispira alle modelle inglesi Twiggy e Jean Shrimpton per il suo nuovo look, inaugurato con il modello Twist’n’Turn, che presenta lunghe ciglia e un aspetto più giovanile, in linea con i canoni estetici dell’era ‘mod’.
L’abbigliamento è più semplice e sbarazzino, quasi infantile, ma la più grande innovazione sta nel corpo, con un busto rotabile che permette alla bambola di muoversi come mai prima d’allora, anticipando il fenomeno inaugurato dal musical Hair, uscito nello stesso anno, che ha incarnato lo spirito giovanile del tempo attraverso danze scatenate che, partendo dai palchi di Broadway, raggiungono presto le piste da ballo.
Una libertà di movimento che si tradurrà presto in una libertà di pensiero e d’azione, accompagnandosi ai movimenti giovanili (e femministi) in ascesa. L’anno successivo entra in vigore la legge che costituisce il completamento del Civil Rights Act del 1964, che aveva posto fine alla segregazione razziale: anche il mondo di Barbie fa spazio alla prima bambola afroamericana, di nome Christie.
➂ 1969-1979: Barbie e la liberazione femminile negli anni ’70
Il 1969 è l’anno del celebre Festival di Woodstock, che costituisce il pinnacolo della cultura hippie («Fate l’amore, non fate la guerra»), e due anni più tardi Barbie ne incarna i valori (in versione edulcorata) grazie al modello Live Action, il primo a essere completamente articolato.
Tuttavia, a lanciare una vera ‘rivoluzione sessuale’ in plastica sarà il modello Barbie Malibu, uscito nello stesso anno.
Si tratta della prima Barbie a guardare dritto davanti a sé: ad occhi contemporanei può sembrare un dettaglio irrilevante, ma non lo è. La critica culturale M. G. Lord la paragona all’Olympia di Manet nel suo guardare sfrontatamente in faccia il proprio interlocutore anziché aderire ai dettami di modestia e riservatezza che regolavano la rappresentazione delle figure femminili nella storia dell’arte (soprattutto quando presentavano corpi formosi e poco vestiti), le quali tendevano a guardare di lato, favorendo l’oggettificazione da parte dello sguardo maschile. Barbie Malibu, invece, guarda a sua volta lo spettatore: rifrangendo il suo sguardo, diventa un simbolo della liberazione femminile degli anni ’70.
All’inizio di quel decennio, il movimento femminista stava lottando per un maggiore coinvolgimento delle donne americane sul mondo del lavoro, anche in posizioni storicamente riservate agli uomini. Questo è interessante in relazione a quanto dichiarato da Ruth Handler, creatrice di Barbie, in un’intervista del ’94: commentando il fatto che fra i primi modelli della bambola, all’inizio degli anni ’60, ci fosse una Barbie infermiera e non una Barbie dottoressa, Handler aveva spiegato di non aver mai “sognato di provare a cambiare il mondo”, ma di aver voluto piuttosto “mostrare il mondo così com’era”, evidenziando come a quell’epoca non ci fossero “donne che facevano il medico”.
È evidente che qualcosa stesse cominciando a cambiare nel momento in cui Barbie, nel 1973, rindossa il suo camice, ma questa volta come chirurga e non più solo come infermiera.
Il ’73 è però anche l’anno in cui scoppia una recessione economica che mette in ginocchio gli Stati Uniti. Sul finire del decennio, dopo anni di protesta, impegno politico e crisi sociale ed economica, i giovani trovano una via di fuga nel ritmo e nel glamour della scena ‘disco‘ e Mattel lancia il modello Superstar Barbie, che scolpisce l’immagine della bambola come una diva bionda in abito da sera e boa di struzzo, facendo strada all’edonismo che caratterizzerà gli anni ’80.
➃ 1980-1988: Barbie fra ambizione ed edonismo
Dal 1980 al 1989, gli Stati Uniti sono governati da Donald Reagan: con la liberalizzazione del mercato si riaccende l’American Dream, che promette ai cittadini americani che, se lavorano sodo, possono realizzare tutti i loro sogni. Questo è il mantra degli anni di Reagan, incentrati sull’individualismo come fonte del proprio successo, tanto che la povertà è considerata un fallimento personale.
Si tratta di un decennio caratterizzato da un forte ottimismo di matrice capitalista: se ti impegni, puoi realizzare qualunque cosa. Questo vale anche per le ragazze, ma la deriva post-femminista è dietro l’angolo: è in questo decennio che nasce la convinzione che le donne abbiano già ottenuto tutti i diritti che potevano ottenere e dunque, se non riescono ad emergere sul mercato del lavoro, è solo perché non ci hanno provato abbastanza. La colpa è dell’individuo, non del sistema.
In questo contesto, ad affermarsi sono giovani ambiziosi e rampanti, i cosiddetti yuppie, che venerano il lavoro tanto quanto il divertimento: al centro di tutto c’è il fatto di godersi la vita nel senso più consumistico del termine. I concetti appena esposti sono perfettamente illustrati dalla campagna “We girls can do anything… right, Barbie?” del 1985, basata sul fatto che le ragazze possano fare qualunque cosa vogliano nella propria vita, l’importante è provarci. Lo spot mette in luce anche un altro concetto fondamentale: “We love working from 9 to 5, but when the day is done we girls deserve some fun” (“Adoriamo lavorare dalle 9 alle 17, ma quando la giornata finisce noi ragazze meritiamo un po’ di divertimento”), che fa eco al celebre ritornello della canzone Girls Just Want To Have Fun di Cindy Lauper, uscita due anni prima: “When the working day is done, oh girls they wanna have fun” (“Quando la giornata lavorativa è finita, le ragazze vogliono divertirsi”).
La Barbie Day To Night del 1985 esprime appieno questo mantra, presentando un abbigliamento da ufficio per il giorno e un abito da cocktail per la sera. Sono gli anni di “Women can have it all”: le donne possono fare tutto e avere tutto – il successo professionale e una vita privata altrettanto eccitante.
Sul lavoro, Barbie indossa una power suit rosa: le spalle ampie, tipiche dell’abbigliamento da businesswoman anni ’80, costituiscono un metaforico incoraggiamento a farsi strada – anche con la forza e con la ‘stazza’ – in un ambiente fino a quel momento dominato dagli uomini, mentre la scelta del colore può essere letta come una rivendicazione della propria femminilità (come avevo scritto qui). È proprio negli anni ’80, infatti, che il rosa si afferma definitivamente come colore simbolo di bambine, ragazze e donne.
Dopotutto, si tratta di un decennio in cui colori sgargianti e ‘fluo‘ spopolano in tutti gli ambiti, dal business al tempo libero, caratterizzando anche il boom dell’aerobica, lanciato dai corsi in VHS di Jane Fonda, che rendono popolari body e tutine multicolor come quella indossata da Barbie Great Shape nel 1984. Coloratissimi anche gli outfit super-glam delle Barbie & The Rockers, la linea creata da Mattel per battere sul tempo l’uscita delle bambole di Jem & le Holograms, della Hasbro. Lavoro, fitness, divertimento, colore, musica e competizione (anche sleale): questi sono i favolosi anni ’80!
➄ 1989-2000: Barbie e il post-femminismo
Alla fine degli anni ’80, dopo due mandati del repubblicano Reagan, gli americani non sono diventati solo più ricchi, ma anche più conservatori.
Dopo aver allentato la presa negli anni ’70, i ruoli di genere si sono irrigiditi nuovamente: da un lato una mascolinità tutta-muscoli, dall’altro una femminilità che si ridipinge di rosa.
In questo senso, è interessante notare come la prima Barbie Principessa ispirata alle fiabe risalga proprio al 1989, lo stesso anno in cui è uscito il Classico Disney La Sirenetta.
Si torna a modelli femminili tradizionali (principesse, spose…), ma con una nuova consapevolezza. Il fermento neo-conservatore della fine degli anni ’80 deve fare i conti con decenni di lotte femministe che non possono essere cancellati da un giorno all’altro.
E così, i principi base del movimento femminista appaiono sottintesi nelle storie di stampo fiabesco che vedono protagoniste le principesse del Rinascimento Disney (ne ho parlato qui) e, in seguito, la stessa Barbie, in un mix fra tradizione e progresso.
Alla luce di quanto detto, è importante notare come, fra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, Barbie non ricopra solo i ruoli di principessa, sposa o sirena (come Ariel), ma anche quelli di pilota e ufficiale dell’esercito (entrambi nel 1989), a cui seguiranno molti altri mestieri tradizionalmente maschili: poliziotta nel 1993, pompiera del fuoco nel 1995, etc.
L’attivista Amy Richards fa notare come, nel corso della sua storia, Barbie abbia ricoperto alcune mansioni che nella realtà erano assolte da un numero molto limitato di donne.
Per quanto riguarda il prossimo modello, possiamo dire con sicurezza che Barbie abbia incarnato un sogno che ad oggi non si è ancora avverato per nessuna donna, candidandosi come prima presidente degli Stati Uniti. Barbie For President esce nel 1992 e presenta due cambi: un tailleur più istituzionale e uno sfavillante abito da sera con i colori della bandiera americana. Nel Nuovo Millennio, Barbie si candiderà ad ogni elezione: 2000, 2004, 2008, 2012, 2016 (in coppia con la vicepresidente) e 2020 (all’interno di un team di professioniste).
Come dicevamo, il mantra “We girls can do anything” può avere un risvolto potenzialmente deleterio, favorendo l’erronea convinzione che la società non ponga più limiti alle aspirazioni delle donne. Le vittorie femministe dei decenni precedenti vengono date per scontate o addirittura additate come la causa dell’infelicità delle donne stesse.
E così ci si chiede se il femminismo possa ancora servire a qualcosa, mentre l’ottimismo degli anni ’80 lascia spazio all’insicurezza: è davvero possibile, per una donna, conciliare lavoro e famiglia?
Il pensiero che il femminismo abbia fatto il suo corso, che le donne abbiano ormai tutti i diritti che spettano loro, e che quindi non abbiano più di che lamentarsi ha dato il via libera al ventennio più misogino della storia recente: da inizio anni ’90 (come evidenziato dal saggio Backlash di Susan Faludi) alla fine degli anni ’00.
Naturalmente, queste tensioni non si riflettono direttamente nella storia di Barbie, ma è interessante notare come il look della Working Woman del 1999 possa farci pensare al tipico abbigliamento di Ally McBeal, l’avvocata protagonista dell’omonima serie televisiva (andata in onda dal 1997 al 2002), che ha incapsulato molte delle tematiche appena espresse, tanto che il Time l’ha eletta a icona post-femminista in contrasto con le femministe della Prima e della Seconda Ondata.
Entriamo infine nel Nuovo Millennio grazie a Jewel Girl Barbie (2000): corpo atletico e outfit di gran tendenza. La moda del tempo richiede che l’ombelico sia scoperto e quindi Barbie, per la prima volta nella sua storia, ha anche l’ombelico (e la vita flessibile).
La bambola presenta una gonna lunga e ampia che cela al suo interno un paio di pantaloni a zampa d’elefante: due elementi, in apparente contrasto fra loro, che le bambine possono combinare con altri capi d’abbigliamento.
Uno dei temi fondamentali della Terza Ondata femminista, che negli anni ’90 e ’00 è andata ora a scontrarsi e ora a fondersi con l’imperante post-femminismo, è la valorizzazione di quelle apparenti “contraddizioni” che in realtà sono semplicemente sfaccettature del carattere, delle passioni e delle attitudini di ogni ragazza e di ogni donna. E così, anche sport e iperfemminilità non sono più concetti separati, ma possono coesistere: nel 2001, Nike lancia una campagna che gioca sull’apparente dissonanza fra le attitudini e i comportamenti stereotipicamente considerati ‘femminili’ e quelli stereotipicamente considerati ‘maschili’, con claim come “Mi metto lo smalto alle unghie. Gioco a football”, mentre Reebok presenta una campagna in cui Venus Williams appare con un abito rosa da principessa e le scarpe da ginnastica, a dimostrare come una donna possa “fare” entrambe le cose.
Negli anni ’00, i prodotti audiovisivi rivolti a bambine/i, tween e teenager giocheranno molto con questo mix & match fra capi d’abbigliamento e accessori romantici, principeschi e tradizionalmente femminili, e altri più sportivi, grintosi, moderni. Troviamo un esempio magistrale nella in Lizzie McGuire – Il film (2003): al concerto finale, la protagonista indossa una gonna lunga e ampia di cui ad un certo punto si libera, svelando un paio di pantaloni argentati a zampa d’elefante. Esattamente come Jewel Girl Barbie.
Questo concetto viene esplorato in maniera più profonda nell’episodio 2×32 della serie a cui il film si collega, ossia Lizzie McGuire (2001-2004). Protagonista della scena in questione è la coach Kelly, la professoressa di Educazione Fisica di Lizzie. L’insegnante è una donna forte e robusta, che a un primo sguardo può incarnare tratti stereotipicamente legati alla mascolinità, ma che non si lascia definire da ciò che la società associa al suo aspetto. “Per alcuni, essere forti è una cosa da maschi, ma è solo perché hanno poco cervello. Solo perché ti piace giocare a football, non significa che tu non possa fare cose più femminili. Io sollevo i pesi, ma mi piace anche ballare lo swing con il signor Lang. E mi cucio gli abiti da sola, dato che non ne trovo adatti alle mie braccia”.
“Questo è figo, allora lei fa entrambe le cose?”, chiede Lizzie.
“Sì, e puoi farlo anche tu, McGuire”.
Dopotutto, la stessa Barbie non ci aveva insegnato che le ragazze possono fare qualunque cosa? Una possibile commistione fra sport e iperfemminilità era già stata suggerita dal succitato spot del 1985, che si apriva con una bambina che giocava con Barbie in tenuta da football. Si tratta di una rappresentazione ben più illuminata rispetto a quella proposta dal video musicale Stupid Girls (2006) di P!nk oltre vent’anni più tardi, che di questo spot sembra costituire una parodia: anche qui c’è una bambina bionda con i codini che ama il football e le Barbie, ma alla fine del video è costretta a scegliere fra le due cose e l’attività ‘maschile’ è connotata in positivo a discapito di quella ‘femminile’. Assistiamo a un processo di demonizzazione della femminilità tradizionale: un nuovo modello dominante prende il posto del precedente con il risultato di porre nuovi limiti sulla libertà di espressione delle bambine. Una cosa che Barbie non ha mai fatto.
Ponendo le proprie basi sul Girl Power di metà-fine anni ’90, il jingle pubblicitario della Jewel Girl proclamava dunque:
“It’s a great time to be a girl!”
“È un ottimo momento per essere una ragazza!”
Nel 2000, Barbie torna a ricoprire il ruolo di candidata alla presidenza degli Stati Uniti ispirandosi al look di Hilary Clinton, che nello stesso anno era diventata senatrice dello stato di New York, dando inizio alla sua carriera politica.
Post-2000
Come si cambia, per non morire (2001-2019)
Nel 2001 arrivano le Bratz, prodotte da MGA: con il loro look eccessivo e spregiudicato, caratterizzato da un’attenzione maniacale alla moda e un make-up marcato che enfatizza tratti già caricaturali, aderiscono perfettamente allo stile McBling (incarnato da Paris Hilton, fra le altre), che punta su un’estetica super-femminile dal gusto iper-artificiale.
A confronto, Barbie sembra un’educanda, o un relitto degli anni ’80.
Mentre Mattel lancia la linea MyScene, palesemente ispirata alle Bratz, la stessa Barbie rischia di perdere la bussola nel tentativo di imitare le sue rivali.
Tuttavia il fenomeno delle Bratz, essendo così radicato nell’estetica degli anni ’00, non poteva durare a lungo, e infatti le bambole della MGA faranno faville solo fino al 2008. Di lì a poco, gli effetti della crisi economica traghetteranno la moda di fine anni ’00 verso il minimalismo degli anni ’10.
Le prime linee di Barbie Fashionistas, uscite dal 2009 al 2013, costituiscono gli ultimi colpi di coda di quell’estetica aggressivamente trendy (ai limiti del pacchiano) e iper-sessualizzata che nel nuovo decennio susciterà critiche a non finire.
E infatti, la nuova rivale di Barbie sarà la bambola Lammily, lanciata nel 2014: il trionfo dell’ordinario per fisico e abbigliamento.
Al centro del mirino c’è anche la scarsa inclusività dei modelli proposti da Mattel. Non è più solo questione di integrazione etnica: la linea Basics del 2009 viene criticata aspramente perché mostra sì donne di etnie diverse, ma tutte con fisici da supermodella.
Niente di nuovo per la casa produttrice di Barbie, da sempre accusata di promuovere un modello di bellezza prevalentemente caucasico, eccessivamente idealizzato e sessualizzato, ma in questo decennio le critiche escono dai circoli femministi per raggiungere i social media, e quindi la gente comune. Nei primi anni ’10 nasce una nuova consapevolezza in merito al rispetto e alla valorizzazione delle differenze di genere, razza, etnia, forma fisica e abilità che darà vita alla Quarta Ondata femminista.
A questo si accompagna una crescente attenzione al concetto di fluidità di genere con un conseguente allentamento di ruoli e stereotipi di genere rispetto ai decenni precedenti.
Mattel capisce che è arrivato il momento di cambiare e parte dal corpo: nel 2016, lancia sul mercato diverse bodyshape per le sue bambole – tall (alta), curvy (formosa) e petite (minuta).
A dare la notizia è una copertina del Time che ha già fatto la storia: “Adesso possiamo smetterla di parlare del mio corpo?”.
Si tratta di un vero e proprio spartiacque nella storia di Barbie, a cui seguirà una produzione sempre più inclusiva: nel 2020, Mattel lancia una nuova linea di cui fanno parte bambole in carrozzella, calve, con la vitiligine, con una gamba artificiale…
Le bambole cominciano a riflettere anche l’abbattimento di stereotipi di genere nel look, come dimostra il make-up esibito dal Ken prodotto per il sessantesimo anniversario di Barbie nel 2019, o la linea di bambole gender-neutral (Creatable Worlds) che Mattel lancia sul mercato nello stesso anno.
Dopo aver insegnato alle bambine che potevano essere come lei, Barbie ha cominciato a diventare come le bambine (e i bambini) che l’ammirano, abbracciando tutte le sfumature della realtà. L’abbattimento di ogni etichetta invita tuttə ad essere davvero qualunque cosa vogliano essere.
Il ritorno del rosa (2022-2023)
Nell’estate del 2022, le foto di Margot Robbie e Ryan Gosling sul set di Barbie fanno faville, generando il fenomeno #Barbiecore: vestirsi in total pink diventa il trend del momento, alimentato dall’uscita della collezione di Pierpaolo Piccioli per Valentino (Autunno-Inverno 2022-23), quasi in contemporanea.
A livello sociologico, si possono ipotizzare almeno due cause scatenanti:
- La nostalgia
In linea con il revival anni ’00 che ha caratterizzato i primi anni ’20, il Barbiecore rievoca un tempo passato, quello dell’infanzia-adolescenza delle 20-30enni, percepito come più sereno. Da sempre la nostalgia gioca una funzione rassicurante in tempi di incertezza sociale, e questo vale anche per chi quei tempi non li hai mai vissuti, come le teenager di oggi. Naturalmente, il concetto di spensieratezza infantile che Barbie evoca non deve per forza ricollegarsi agli anni ’00, ma è innegabile che sia stata la nostalgia per quel decennio, culminata nella rivalutazione di quelle celebrità femminili che all’epoca hanno subito un trattamento ingiusto da parte di media e pubblico (in primis Paris Hilton e Britney Spears) a spingere la Quarta Ondata femminista, e la cultura in toto, a riabbracciare l’iperfemminilità (tipica dell’estetica McBling) come lecita espressione del proprio essere. E così anche l’archetipo della bimbo, ossia lo stereotipo della bionda stupida e superficiale, attenta solo alla moda e alla bellezza, va incontro non solo a una rivalutazione (che mette in luce come il vero problema fosse la società), ma anche a una riscrittura, nonché a una rivendicazione di queste caratteristiche in ottica femminista, socialmente responsabile e consapevole. Si veda il fenomeno del #BimboCore su TikTok, capitanato da Chrissy Chlapecka: un esercito di ragazze che, fra trucco e abitini rosa, indossano la maschera della “bionda stupida” per lanciare messaggi su tematiche importanti, di fatto rivoltando lo stereotipo su sé stesso.
- Il massimalismo post-pandemia
A qualche anno dallo scoppio della pandemia di COVID-19, ci si comincia a interrogare su quali saranno le sue conseguenze sulla moda. La tendenza attuale sembra volgere al massimalismo, riflettendo la volontà della gente di vivere al massimo e quindi anche vestire al massimo, senza paura di esagerare, in risposta alle restrizioni che per anni erano state imposte dal virus.
Dipinto il quadro generale, non resta che chiederci come questo abbia influenzato Barbie.
La linea più rappresentativa del fenomeno illustrato è quella di Barbie Extra, in cui finalmente il glamour si riaffaccia nel guardaroba della bambola insieme a una buona dose di kitsch (o forse di camp?), che non si vedeva da tempo. Barbie abbandona la morigeratezza degli anni ’10, in cui tutto doveva essere semplice, ordinario e con i piedi per terra (nel disperato tentativo di apparire relatable), e ricomincia ad osare, strizzando l’occhio agli anni ’90 e ’00. Barbie ritrova l’iperfemminilità, e così recupera parte del suo fascino originario, pur avendo ormai assorbito, come un fait accompli, una nuova sensibilità in relazione agli ideali di bellezza e di inclusività.
Da anni, Mattel produce bambole con i piedi piatti, anziché sulle punte (pronti ad indossare un tacco a spillo), e il il trailer di Barbie gioca proprio su questo, deliziando tutti: l’affetto per la Barbie dell’infanzia, quella degli anni ’80, ’90 e ’00, ha il sopravvento sulla maggior parte degli adulti che andranno a vedere il film, ma Mattel non sembra voler tornare indietro. E così Barbie di Greta Gerwig presenta una Barbie che sul finale diventa ‘ordinaria’, ma la campagna pubblicitaria del film batte cassa sulla tipica Barbie bionda, magra, iperfemminile, con i piedi arcuati. Il successo ottenuto dalla pellicola suggerisce che la soluzione ideale consista in un continuo gioco di equilibri fra la Barbie classica e quella moderna, fra realismo e fantasia, fra divertimento e riflessione e fra stereotipo e sovversione. Senza mai dimenticare il rosa, che – come il concetto stesso di femminilità – può veicolare allo stesso tempo tanti diversi significati che appaiono anche in contrasto fra loro, in bilico fra tradizione e rivoluzione. La cultura contemporanea si sta riappropriando di questo colore con consapevolezza, e forse anche la Barbie odierna sta provando a fare lo stesso, cercando un equilibrio fra ordinario e straordinario.
Scopri tutto sul colore rosa e sulle sue diverse connotazioni.
Si ringrazia Vittorio Pio Rosario Savasta per la consulenza.
Fonti consultate
Documentari
The Toys That Made Us, Stagione 1, episodio 2, Netflix, 2017
Tiny Shoulders: Rethinking Barbie, Hulu, 2018
https://www.youtube.com/watch?v=cKFVVZuvCY0
https://www.youtube.com/watch?v=cleZIXu4PXM
Siti
http://stage.onestore.barbie.com/en-us/about/history.html
http://www.pinkfashiondoll.com/mission.htm
Cataloghi
Catalogo mostra “Barbie” al MUDEC, Sole 24 Ore, 2015