L’Ultimo Unicorno (The Last Unicorn) è un film d’animazione del 1982, trasposizione dell’omonimo romanzo di Peter S. Beagle del 1968.

Scrivo di quest’opera come piccola appendice al mio saggio Vita da Strega. Da Bewitched alle maghette giapponesi: la protagonista, come Samantha e le altre streghe di cui ho scritto, si trova a dover conciliare due parti contrastanti di sé.

Dualità estetica

L’intero film è avvolto nel concetto di dualità, a partire dalla sua realizzazione: è stato prodotto, scritto e diretto in America, ma animato completamente in Giappone.

Per quanto non sia realizzato in stile anime, alcuni stilemi grafici rimandano direttamente a quell’immaginario.

La fluente chioma della protagonista in versione umana ricorda i personaggi femminili di Leiji Matsumoto.
In fondo, gli anni sono quelli: l’anime de La regina dei mille anni è stato trasmesso fra l’aprile 1981 e il marzo 1982, The Last Unicorn è uscito al cinema nel novembre 1982.

L’estetica del film indugia in un continuo rimando fra Occidente e Oriente, che può portare a confondere i confini dei rispettivi immaginari.
Le mani di Mommy Fortuna ricordano quelle di Yubaba de La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki, portandoci a immaginare un’ispirazione giapponese comune, ma in realtà la fonte originale è la Strega del classico Disney Biancaneve e i sette nani (1937),

Allo stesso modo, lo stile con cui è disegnato l’unicorno può ricordare Osamu Tezuka in opere come Kimba, il leone bianco, ma la radice comune è Bambi di Walt Disney.

I riferimenti vanno oltre al mondo dell’animazione, andando a toccare l’arte e la cultura del Paese del Sol Levante: l’onda di unicorni rimanda alla celeberrima Grande onda di Kanagawa di Hokusai (1830-1831), mentre il drago affrontato dal principe Lir ricorda quelli della tradizione cinese e giapponese, così come l’armatura del principe rimanda all’immaginario dei samurai.

L’estetica del film è quindi frutto di una commistione di identità visuali ben distinte, che mantengono le proprie caratteristiche pur fondendosi l’un l’altra. Questo concetto non si ferma al lato estetico, ma costituisce di fatto il tema portante dell’opera.

Analisi del film

The unicorn lived in a lilac wood, and she lived all alone.

La protagonista della storia è un’unicorno, che ci viene espressamente specificato essere di genere femminile – in contrasto con la tradizione che, fino a quel momento, aveva sempre attribuito agli unicorni il genere maschile – e ci viene presentata come l’ultima della sua specie.

Nel romanzo, ci viene presto spiegato che gli unicorni non provano emozioni, non si innamorano e non mettono su famiglia.
Niente di strano: caratteristiche di questo tipo vengono tradizionalmente attribuite alle figure magiche (pensiamo, ad esempio, alle streghe).
Essendo un animale, e per di più magico, l’unicorno non può che deviare dalle norme sociali umane, facendo dell’unicità la sua bandiera: anche per questo è stato accolto come un simbolo dalla comunità LGBT+.

La nostra protagonista si sente diversa da chiunque altro e ribadisce continuamente la sua identità: ne è ben consapevole, ma sente il bisogno di riceverne conferma dagli altri. Per questo chiede ossessivamente alla farfalla – primo personaggio che incontra nel suo cammino – di dirle chi è, per questo si infuria quando viene confusa per un cavallo bianco da un passante. In effetti, le persone comuni non riescono a vederla per quello che lei realmente è: la percepiscono come un semplice cavallo, ignorando la sua natura magica.

L’unicorno reagisce sdegnata quando un passante la confonde per un cavallo bianco.

Questo lascia spazio a varie interpretazioni in chiave queer: le persone LGBT+ si scontrano spesso con la percezione che si ha di loro dall’esterno. Pensiamo, ad esempio, alle persone transgender, che possono andare incontro a situazioni in cui non vengono viste per il genere a cui sentono di appartenere, o ad altri membri della comunità, come gli intersessuali, gli asessuali e i pansessuali, che si sentono “invisibili” agli occhi della società.
Il ritornello del brano principale, che dà il titolo al film, si apre al grido di “I’m alive!” (“Sono viva!”), come a voler urlare “Guardate che esisto!” ad una società che non riesce a vederti, o che finge di non farlo.

“I’m alive!” sembra rimandare anche alla celebre I Will Survive di Gloria Gaynor, inno queer da generazioni.

Da qui nasce l’esigenza, da parte della protagonista, di trovare qualcuno che sia come lei, perché non vuole credere di essere l’ultima rimasta. All’affermazione della propria identità si accompagnano, quindi, il bisogno di rivedersi in qualcun altro e la necessità di maturare un senso di appartenenza a una comunità, come può essere quella LBGT+.

“Ho bisogno di trovare qualcuno che sappia chi sono, che abbia visto altri come me”, riassume la nostra eroina. E così parte alla ricerca degli altri unicorni, che scopre essere stati imprigionati da uno spaventoso toro rosso (Red Bull) per ordine di un malvagio re, Haggard.

A un certo punto del viaggio, la protagonista sarà catturata da Mommy Fortuna, strega a capo del Midnight Carnival, una sorta di freakshow ambulante con varie creature, magiche e non, chiuse in gabbia. La donna ha capito che si tratta di un vero unicorno e la vuole per il suo carnival.
Non è la sola ad averla riconosciuta: anche il mago Schmendrick, che lavora per lei, l’ha capito, ma – quando la strega lo interroga in merito – finge di non saperlo.

L’unicorno finisce quindi fra le attrazioni del carnival, con un corno finto che, ironicamente, permette ai visitatori di vederla come un unicorno vero.
Al contrario, la magia illusoria di Mommy Fortuna permette agli spettatori di percepire gli altri animali in gabbia come creature fantastiche, quando in realtà non lo sono.

Il concetto di dualità ritorna prepotentemente nel momento in cui l’unicorno si trova davanti alla pericolosa arpia e capisce a primo sguardo che, a differenza degli altri animali, questa è reale, esattamente come lei. “Siamo due lati della stessa magia”, afferma, mettendo in luce una dicotomia che si esprime attraverso modelli femminili opposti. L’unicorno è tendenzialmente asessuata e quindi considerata pura e innocente, mentre l’arpia, il cui sesso viene rimarcato da tre mammelle ben evidenti, risulta terrificante: nonostante le differenze, entrambe sono creature magiche ed entrambe appartengono al genere femminile. La dicotomia sembra dividerle, ma la loro natura le riavvicina: così la protagonista la rispetta e vuole salvarla.

L’arpia possiede tre grossi e penduli seni che, come scrive Matthew J Shochat, non vengono assolutamente sessualizzati, ma “servono semplicemente a mostrare che è femmina e terrificante”.
Le forme femminili vengono connotate come fonte di pericolo anche in una delle scene successive, in cui una prosperosa “albera” quasi stritola Schmendrick.

Alla fine, grazie all’aiuto del mago Schmendrick, tutti gli animali riescono a liberarsi, e Mommy Fortuna viene uccisa dall’arpia, che si vendica per essere stata sua prigioniera.

L’unicorno continua il suo viaggio, ma non è più sola: il mago le chiede di poter venire con lei. In seguito, alla coppia si aggiunge anche Molly Grue, una donna di mezz’età che abbandona il marito per partire all’avventura, dopo averci regalato una scene delle più toccanti del film.

Il punto focale della vicenda ha luogo poco più tardi, quando i tre incontrano sul proprio cammino il Red Bull, la belva che ha imprigionato tutti gli unicorni per ordine del Re Haggard. Percepiamo subito una contrapposizione fra l’aspetto delicato e androgino della nostra protagonista e la virilità eccessiva e stereotipata del Red Bull, che diventa simbolo di potenza e mascolinità tossica.

Per salvare l’unicorno dai suoi attacchi, il mago la trasforma in un’umana.
La trasformazione, che avviene senza il consenso della diretta interessata, viene caratterizzata come un trauma, un vero e proprio abuso. “L’hai intrappolata nel corpo sbagliato”, esclama Molly, che sembra comprendere il dramma vissuto dall’unicorno, assimilabile alla disforia di genere sperimentata dalle persone transgender. La protagonista appare nuda, indifesa e impotente di fronte a un cambiamento avvenuto sul suo corpo, contro la sua volontà: “Che cosa mi hai fatto?! Io sono un’unicorno! Sono un’unicorno!”, esclama, in un ultimo, disperato tentativo di affermare la sua identità, per poi concludere: “Ho paura di questo corpo, più di quanto ne abbia del Red Bull”. E infatti, da questo momento in poi, la protagonista appare sempre più indebolita, oltre che profondamente turbata.

Britt Hayes associa la trasformazione dell’unicorno in umana ad un trauma che “le fa dimenticare chi era e cosa le rendeva così speciale”.

Più tardi, i tre raggiungono finalmente il castello del Re Haggard, chiedendo di poter lavorare per lui in cambio di ospitalità.
Nel romanzo, il figlio Lir li avvista e annuncia l’arrivo di un uomo (Schmendrick) e di una donna (Molly), mentre non è sicuro sull’identità della terza persona (l’unicorno, trasformata in umana).

La nostra protagonista, che in versione umana assume il nome di Lady Amalthea, non riesce ad aderire agli schemi di comportamento imposti al genere umano femminile, a cui ora appartiene.

Quando il mago di corte, adirato per il fatto di essere stato rimpiazzato dai nuovi arrivati, minaccia di attaccarla, il principe Lir si fionda a difenderla, ma lei lo scavalca incurante per affrontare, faccia a faccia, il suo aggressore. Non attacca, ma si limita a manifestare il suo potere, come un felino che mostra le zanne. Il mago si rende conto della vera natura di Lady Amalthea e decide di ritirarsi, ma non prima di lanciare un beffardo monito al re: “Hai fatto entrare la tua condanna dalla porta principale, ma non se ne andrà via nello stesso modo. Addio, povero Haggard!”.

Poco dopo, lo stesso Re si accorge che l’estranea ha qualcosa di strano: l’uomo non riesce a specchiarsi nei suoi occhi.
Per questo chiede insistentemente di conoscere la sua identità:
“Chi è lei?”
“Sua Maestà, Lady Amalthea è mia nipote”
“Voglio sapere chi è!”

Negli occhi di Lady Amalthea, il Re scorge gli animali del bosco in cui viveva come unicorno.

È il figlio Lir che riesce a calmarlo, portandolo a prendere una decisione: i tre estranei possono restare.
“Potete andare e venire come volete, i miei segreti si fanno la guardia da soli”, conclude il re, per poi rivolgersi ad Amalthea: “I tuoi faranno lo stesso?”.

Lir, palesemente attratto dalla giovane e misteriosa estranea, si offre di darle del tessuto: “Potresti farti un abito!”.
Il principe si rivolge a lei come se fosse una vera donna, dando per scontato – in quanto tale – che sappia cucire. Qui ci si ricollega a uno stereotipo di genere che non sarebbe risultato fuori luogo nel Medioevo (epoca a cui l’ambientazione della storia sembra aderire), ma che lascia Amalthea completamente indifferente: è un’unicorno, quindi non sa cosa significhi cucire, cucinare o fare le faccende di casa.
“Lascia che ti aiuti. Cosa posso fare per te? Fidati di me”, insiste Lir.
Per qualche secondo, Lady Amalthea non lo considera, poi si gira verso di lui con uno sguardo vacuo.

Parte un numero musicale accompagnato da un montaggio di scene in cui Lir assume il tipico comportamento del principe/cavaliere che corteggia la principessa: uccide un drago, ma lei accoglie il cadavere con indifferenza, quasi un velo di tristezza.

Il principe, frustrato, ne parlerà con Molly: lui vorrebbe conoscere meglio Amalthea, ma nessuna delle sue gesta è riuscita ad attirare l’attenzione della ragazza.
Molly ribatte: “Forse Lady Amalthea non è una donna che si fa conquistare da grandi gesta”, al che Lir si lascia andare alle stesse perplessità del padre, ponendo nuovamente l’attenzione sulla sua identità: “Chi è lei? Da dove arriva?”. Lui vorrebbe servirla, aiutarla a trovare qualunque cosa sia venuta a cercare, ma lei non lo degna di una parola.

Molly capisce che è il caso di andare a parlare direttamente con Amalthea.
“Sei crudele con lui, potresti almeno rivolgergli una parola gentile”, la rimprovera, ma Amalthea quasi non la ascolta.
“Molly, chi sono io? Perché sono qui? Cos’è che sto cercando in questo strano posto, giorno dopo giorno? Lo sapevo un momento fa, ma l’ho dimenticato”, sospira. Parte così un numero musicale che risulterà determinante per la caratterizzazione della protagonista nella sua versione umana, ossia Now That I’m a Woman.

“Ora che sono una donna, tutto è cambiato”, canta Amalthea.
Il brano mette in luce la nuova condizione della protagonista, che improvvisamente si ritrova ad aderire agli stereotipi di genere che caratterizzano quello che la società connota come “sesso debole”.
L’algida e razionale unicorno sta lasciando spazio ad una ragazza fragile, insicura e indifesa, che sta pian piano dimenticando chi era un tempo, qual era la sua missione. La dualità della sua condizione viene più volte evidenziata dai fotogrammi della sequenza.

Feminism Meets Fantasy In THE LAST UNICORN | Birth.Movies.Death.
Lady Amalthea, a metà fra donna e unicorno.

A metà del brano, Amalthea riesce temporaneamente a riprendere conoscenza: “Devo affrontare di nuovo il Bull e scoprire cosa ne ha fatto di loro [gli altri unicorni, ndr], prima che io dimentichi completamente chi sono”, afferma risoluta, prima di lasciarsi nuovamente andare a timori e insicurezze (“Ma non so dove trovarlo, e mi sento sola”).
Oltre a perdere la sua identità e tutte le particolarità del suo essere, la protagonista si ritrova a sentirsi completamente impotente di fronte agli eventi.

In una delle scene successive, Amalthea rivive in sogno uno dei momenti più terrificanti del suo viaggio, ossia l’incontro con l’arpia: una scena che – in veste di unicorno – aveva vissuto in modo più distaccato. Adesso, invece, è terrorizzata: svegliatasi di soprassalto, incontra sull’uscio della sua camera il principe Lir, intenzionato a recitarle una poesia d’amore. “Chi sei tu?”, gli chiede, come se lo vedesse per la prima volta. Lui ribadisce il suo intento di volerla servire come un cavaliere serve una dama, chiedendole cosa possa fare per lei. Finalmente, Amalthea risponde: “Soffoca i miei sogni, fa’ che io non ricordi ciò che loro vogliono che io ricordi”.

Parte così un altro numero musicale attraverso cui Lir cerca di esprimere quello che prova per la ragazza, pur senza trovare le parole per spiegarlo (“anyway I love you”).
La sequenza assume i contorni di un sogno durante il quale Amalthea riesce a scorgere sé stessa in versione unicorno. La protagonista guarda l’immagine della sua vera identità con gli occhi finalmente pieni di vita, ma dopo qualche secondo la figura fugge via, scomparendo dalla scena. Amalthea si vede quindi riflessa nell’acqua di un fiume, in versione umana, affianco a Lir: è il momento in cui l’eroina prende definitivamente atto della sua condizione umana, lasciando andare la parte di unicorno che ancora era presente in lei.

Il brano termina con un bacio fra Amalthea e Lir.
Come unicorno, la protagonista non poteva provare amore; come donna, pensa che la sua vita possa essere completa solo con un uomo accanto.
È un condizionamento sociale di cui la protagonista, in versione umana, si trova vittima.
“Now I know the way…”, canta Amalthea, ma capiamo presto che si tratta di un’illusione. L’amore non può salvarti dalla depressione e dal trauma. Non puoi annullare la tua identità sperando di essere felice, credendo che non ci siano conseguenze. Non puoi scappare da chi sei, dalla realtà e dal destino. Non puoi evitare un problema semplicemente aggirandolo.
E infatti Amalthea non trova la felicità, ma solo un sollievo temporaneo.

Anche dopo aver accettato le avances di Lir, Amalthea ha dubbi sulla sua identità.
“Beh, ovviamente sei di origini nobili. Non puoi certo essere la nipote di quel ridicolo mago!”, risponde lui.

Nella scena successiva, assistiamo a un confronto fra Amalthea e il Re Haggard, ormai perfettamente conscio della sua reale identità.
In originale dice: “Love is slowing you down, my dear” (“L’amore ti sta rallentando, mia cara”), mentre nella versione italiana, in modo più didascalico, afferma: “L’amore ti sta imprigionando”. Poi aggiunge: “Riuscirò a catturarti, infine, se amerai molto di più” (“I will catch you at last, if you love much more”).
Anche Haggard è conscio del fatto che la nuova condizione della protagonista la indebolisca, ma si adira quando quest’ultima sembra voler negare la sua vera natura: “Non prendermi in giro!”, ripete più volte, minaccioso. “So chi sei! L’avevo intuito già nel momento in cui ti ho visto per strada, mentre ti avvicinavi alla mia porta. Da quel momento, non c’è stato un tuo movimento che non ti abbia tradita”.
Qui torniamo al tema del non farsi scoprire, che si ricollega al potere di Samantha in Vita da Strega, ma anche alle tematiche queer, all’essere “scoperte” per un singolo movimento o per il tono della voce, nel caso di persone che non aderiscono alle norme di genere, oppure essere “scoperte” in quanto persone transgender in una società che discrimina la diversità anziché valorizzarla.

“Osi ancora negare te stessa?”, le domanda Haggard.
Non riesce a credere che l’unicorno possa aver dimenticato chi è, al punto che crede che lo stia prendendo in giro.

Guardandola negli occhi, Haggard non vede più gli animali della foresta, ma il riflesso di sé stesso. “Sono occhi vuoti come quelli di Lir, occhi che non hanno mai visto un unicorno”, commenta.

È interessante evidenziare il fatto che il Re, come gli altri personaggi che vivono nel castello (fatta eccezione per il Principe Lir), abbia ben chiara la vera identità di Amalthea: è solo lei a negarla, ad averla rimossa.
Notiamo una differenza anche nella sua voce: l’interpretazione della doppiatrice (Mia Farrow) la fa apparire stralunata, quasi svampita. Il modo in cui parla è decisamente diverso dal tono assertivo che la caratterizzava quando era un’unicorno.

Spaventata da Haggard, Amalthea scoppia a piangere e viene raggiunta da Schmendrick, che la ammonisce:

Non piangere. Se sei diventata umana abbastanza per piangere, allora tutta la magia del mondo non può trasformarti di nuovo [in un unicorno].

Don’t cry. If you have become human enough to cry, then all the magic in the world cannot change you back.

Schmendrick e Molly, determinati a portare a termine la missione, accompagnano l’ex unicorno alla ricerca del covo del Red Bull per liberare i suoi simili che – come spiega Haggard nella scena precedente – sono tenuti prigionieri nell’oceano.
I tre riescono a fuggire dal castello tramite un’uscita magica.

Amalthea viene identificata come unicorno anche da uno dei personaggi che vive nelle segrete del castello, uno scheletro animato che avvisa il Re della sua fuga.

Lir non è stato avvisato della missione, e decide di seguirli a distanza. Quando finalmente raggiunge Amalthea, fra loro intercorre il seguente dialogo:

– Saresti andata via senza di me?
– Sarei tornata indietro! Non so chi sono e perché sono qui, ma sarei tornata indietro.
– No, non saresti mai tornata indietro.

Sulla strada verso il Red Bull, Lir viene informato della vera natura di Amalthea. Lui si rivela sorprendentemente aperto, con un discorso facilmente associabile a quello di un uomo che ama una donna transgender: “Unicorno, sirena, strega… nessuno dei nomi che le dareste mi sorprenderebbe o mi spaventerebbe: amo chi amo”. Questa dichiarazione porta Amalthea, che un secondo prima non avrebbe esitato a lasciarsi Lir alla spalle, a rinegoziare il suo destino: vuole restare umana, e stare con lui.
Schmendrick è furioso: “Allora dichiara conclusa la missione! […] Sposa il principe e vivi per sempre felice e contenta!”.
“Sì, questo è il mio desiderio!”, risponde Amalthea, consapevole del fatto che, se venisse ritrasformata in unicorno, non potrebbe più amarlo.
In questo momento, la protagonista è disposta a cedere a quello che il suo ruolo di genere le impone pur di vivere una vita tranquilla, sfuggendo alle sue responsabilità.

Sorprendentemente, è proprio il principe a fermarla: “No”, afferma deciso. “Mia signora, io sono un eroe, e gli eroi sanno che le cose devono succedere quando è tempo che succedano. Una missione non può essere semplicemente abbandonata. Gli unicorni possono non essere salvati per lungo tempo, ma non per sempre. Il lieto fine non può arrivare a metà della storia”, spiega. Viene chiaramente evidenziata un’inconciliabilità fra il rapporto amoroso e la missione della protagonista, nonché il suo destino. Quando, poco più tardi, Molly cerca di convincere Schmendrick a esaudire il desiderio di Amalthea, permettendole di stare con Lir, il mago risponde deciso: “That’s not in the story”, non fa parte della storia.

I quattro incontrano finalmente il Red Bull: anche lui appare conscio della reale identità di Amalthea, tanto che si mette a rincorrerla. Amalthea fugge e inciampa, mettendo ancora in luce la fragilità che caratterizza il suo corpo e la sua psiche in forma umana. Schmendrick capisce che la protagonista può combattere solo se la sua vera identità le viene restituita, e la ritrasforma in un unicorno.
Anche in veste di unicorno, l’eroina incontra una certa difficoltà nel contrastare il Red Bull, che sembra in procinto di catturarla. In suo aiuto interviene Lir, autodefinitosi “eroe”, che viene messo al tappeto in tempo zero: sembra una parodia del principe/cavaliere che cerca di salvare la donzella in difficoltà, finendo per mettere in luce tutta la sua inettitudine.
Tuttavia, è proprio assistendo al sacrificio di Lir che l’unicorno trova la forza per difendersi e, mediante la luce propagata dal suo corno, chiama a raccolta tutti i suoi simili, che finalmente si liberano dalle onde marine. Anche in questo caso, è possibile trovare un collegamento a temi LGBT+: quando i membri della comunità si uniscono, uscendo dal metaforico closet, costituiscono una forza invincibile, che distrugge qualunque tentativo di oppressione. Gli unicorni marciano in una metaforica parata dell’orgoglio queer, causando la rovina dei loro oppressori: il Red Bull viene travolto dalle onde, mentre il castello viene distrutto e il Re cade in acqua, morendo affogato.

Gli unicorni sono liberi, la missione è compiuta.
La protagonista non ha la forza di dire addio a Lir e lo saluta da lontano, allontanandosi prima che il principe riacquisisca conoscenza.
La ritroviamo poi nella foresta, mentre congeda Schmendrick e Molly per l’ultima volta: prima di tornare a casa, ammette che l’esperienza l’ha resa diversa da tutti gli altri unicorni, perché ha potuto provare l’amore e il rimpianto.

L’unicorno dedica un ultimo sguardo a Lir, mormorando: “I remember you, I remember”.

Identità e dualità

Come abbiamo visto, il rapporto della protagonista con la sua identità è al centro dell’intera vicenda:

🌸 In veste di unicorno, passa la prima parte del film a ribadire la propria identità, mentre le persone comuni non riescono a vederla per quello che è.
🌸 Nei panni di Lady Amalthea, passa la seconda parte del film ad annullare inconsciamente la propria identità, mentre gli altri personaggi ne risultano consapevoli o ne prendono atto (nel caso di Lir).

Per gran parte del film, si può pensare che la protagonista sia diventata prigioniera del ruolo di genere che viene attribuito alle donne umane, con tutti gli stereotipi annessi e connessi. A tratti, sembra che di Lir le importi relativamente poco (tanto che, nella fuga, quasi si dimentica di lui), come se fosse solamente un accessorio che le permette di sentirsi donna.
Tuttavia, sul finale, l’eroina si riconcilia con entrambe le parti di sé, aggiungendo alla sua natura di unicorno quella componente umana che, dopo essere stata mortale per così tanto tempo, ormai fa parte del suo essere: è qui che capiamo che, in qualche maniera, Lir è stato importante per lei.

La sua umanizzazione ricorda un po’ quella di Gil in Bell, Book And Candle (1958), di cui ho scritto nel mio saggio su Vita da Strega, ma con un epilogo ben diverso. Ricordiamo che, prima di Samantha, le streghe venivano spesso connotate come entità sovrumane, che non erano in grado di innamorarsi, di provare emozioni e di piangere, esattamente come l’unicorno: e così anche Lady Amalthea, come Gil, va incontro ad un’umanizzazione che la porta ad incarnare un ruolo femminile più tradizionale, ritrovandosi ad essere più fragile e sensibile. Per entrambe, la trasformazione è inizialmente causa di shock, ma si lega alla possibilità di amare un uomo, e quindi viene accettata strada facendo.
Tuttavia, se la trasformazione di Gil viene premiata con l’amore (e siglata dalle lacrime), quella di Amalthea viene connotata negativamente per tutto il film (“Non piangere”, l’ammonisce Schmendrick), e non si conclude con un lieto fine.

“Can women have it all?”

Il film esce nel 1982, all’alba di un decennio in cui le donne americane entrano, come mai prima d’allora, sul mondo del lavoro.
Proprio in quell’anno, ci si comincia a chiedere se le donne possano “avere tutto” (“have it all”), se possano conciliare la loro identità con l’amore, il lavoro con la famiglia. Ci si chiede se possano esistere donne che lavorano e al contempo sono madri e mogli felici, sfuggite alla “mistica della femminilità” di cui scriveva Betty Friedan.

La risposta de L’ultimo unicorno è complessa, sicuramente agrodolce.
La storia insegna alla protagonista l’importanza della propria identità, presentata come un bene prioritario. Tuttavia, la scena finale complica la questione: nel momento in cui l’eroina afferma di essere l’unico unicorno a sapere cosa sono l’amore e il rimpianto, ci rendiamo conto che i sentimenti che ha provato come umana ora fanno parte di lei. La sua identità è diventata duale, ma le due parti di sé non trovano eguale realizzazione: l’ultimo unicorno, a differenza di Samantha, non può “avere tutto”.

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