Kill Bill parla di maternità.
Più precisamente, di come la maternità possa influenzare la vita di una donna in una società che ragiona per compartimenti stagni, secondo cui una madre non può essere una donna in carriera, tantomeno una killer che uccide per denaro.
In che modo Beatrix, la protagonista della duologia di Quentin Tarantino, riuscirà a conciliare queste diverse parti di sé?
La presente analisi costituisce una piccola appendice al mio saggio Vita da Strega. Da Bewitched alle maghette giapponesi (Delos Digital, 2021).
Il preludio
Se Josef Von Sternberg è in procinto di girare Marocco e Marlene Dietrich resta incinta, lui aspetta la Dietrich!
Quentin Tarantino
Siamo nel 2001. Uma Thurman è appena rimasta incinta del suo secondogenito e Quentin Tarantino spiega così la sua decisione di posticipare le riprese del suo quarto lungometraggio, Kill Bill.
L’idea per il film era nata circa sette anni prima, sul set di Pulp Fiction (1994). Quentin era il regista, mentre Uma interpretava il ruolo di Mia Wallace, ex aspirante attrice che aveva avuto una parte in una serie televisiva che, sfortunatamente, non era riuscita ad andare oltre l’episodio pilota.
È la stessa Mia a raccontarne la trama:
«Era un programma su una squadra di donne agenti-segreto chiamato “Volpi Forza 5”. […] Volpi perché eravamo in gamba, astute e carine, Forza perché eravamo una forza con cui fare i conti. E cinque perché eravamo uno, due, tre, quattro e cinque di numero. C’era una bionda […], lei era il capo. La volpina giapponese era una maestra di arti marziali, alla ragazza nera toccavano le demolizioni: era un’esperta. La volpina francese aveva una specialità: il sesso […]. Il mio personaggio […] aveva una storia, era […] venuta su cresciuta da artisti del circo. Secondo il copione era la donna più pericolosa del mondo con un coltello…».
Chi conosce Kill Bill non avrà difficoltà a trovare in questa breve descrizione numerosi riferimenti al gruppo di killer del film. Infatti, è proprio partendo dalla trama di questo fantomatico episodio pilota che Quentin e Uma ideano l’intero universo di Kill Bill.
Fin da subito, i due decidono che un ipotetico film basato su quest’idea sarebbe partito dall’inquadratura del volto insanguinato di una donna in abito da sposa, per poi concentrarsi sulla sete di vendetta di quest’ultima.
Le riprese di Pulp Fiction, però, terminano, e le strade di Quentin e Uma si separano per qualche tempo.
Quattro anni più tardi, Uma diventa madre: nasce Maya, la sua prima figlia.
Passano altri due anni, siamo ormai nel 2000: Uma e Quentin si ritrovano e ricominciano a parlare della loro idea.
Quentin passa molto tempo insieme ad Uma e alla sua primogenita.
A causa di ciò, la storia di Kill Bill comincia a divergere dalle idee iniziali: sia Quentin che Uma concordano sul fatto che la maternità di quest’ultima abbia cambiato le carte in tavola.
E così torniamo al 2001: Uma Thurman rimane incinta per la seconda volta. Le riprese di Kill Bill iniziano qualche mese dopo il parto dell’attrice, che influenza definitivamente la direzione del film.
Trama
Kill Bill è una duologia diretta da Quentin Tarantino.
Il Vol. 1 è uscito nel 2003, il Vol. 2 nel 2004.
La storia tratta di Beatrix Kiddo (Uma Thurman), un’assassina professionista impegnata in una relazione con il suo “maestro” e superiore Bill (David Carradine), a capo della squadra di killer di cui fa parte, la Deadly Viper Assassination Squad.
Quando scopre di essere incinta di Bill, Beatrix decide di lasciare il suo impiego e far perdere le sue tracce, cercando di costruirsi una nuova vita per il bene della bimba che nascerà. Di nascosto da Bill e dal resto della squad, Beatrix si trasferisce in Texas, adottando una nuova identità, per poi fidanzarsi con un uomo del luogo. I due sono in procinto di sposarsi, ma, durante le prove del matrimonio, i membri della squad fanno la loro comparsa nella chiesetta di El Paso, sparando a tutti i presenti e picchiando a sangue Beatrix. Il tutto è stato architettato da Bill, geloso e infuriato per la sua scomparsa: è lui a spararle in testa, pensando di averla uccisa. La donna finisce in coma e si risveglia quattro anni dopo, intenzionata a vendicarsi per quello che è stato fatto a lei e alla bambina che aveva in pancia, che crede di aver perso. Uno ad uno, Beatrix affronterà e ucciderà tutti i membri della squad, arrivando fino a Bill. Qui scopre che anche la figlia è sopravvissuta allo sparo, e vive insieme al padre. Dopo averlo ucciso, Beatrix porta via con sé la bambina. Il film termina con un abbraccio fra le due, seguito dalla frase: “La leonessa si è ricongiunta al suo cucciolo e tutto va bene nella giungla”.
Potere e maternità
Nei film d’azione, il potere – incarnato dalla violenza – è tipicamente associato alla mascolinità.
In contrasto con quest’assunto, “i film di Kill Bill usano la violenza come uno strumento retorico per invertire l’equilibrio di potere fra uomini e donne”, come scrive Leah Andrea Katona.
Nella duologia di Quentin Tarantino, infatti, le donne incarnano un grado di violenza pari a quella solitamente riservata ai personaggi maschili, i cui atti violenti vengono qui superati per numero, intensità ed efficacia dalle loro controparti femminili.
Tuttavia, come scrive Angela Dancey, la storia riconduce le assassine di Kill Bill ai temi emozionali dei women’s movies (maternità, sacrificio, amicizia femminile, vita domestica, scelta fra amore e maternità, amore e carriera, carriera e maternità), introducendo anche elementi del maternal melodrama (separazione, separazione e ritorno, minaccia di separazione).
Sebbene la violenza sia strettamente legata all’archetipo della madre, questa tende a essere rappresentata come uno strumento da adottare esclusivamente in difesa dei propri figli o contro gli stessi, in quell’ottica di generazione e distruzione che caratterizza la rappresentazione del ruolo materno fin dai tempi di Medea. E infatti la stessa Beatrix combatte non solo per vendicare sé stessa, ma anche la figlia che ha perso, per poi agire in sua difesa quando scopre che quest’ultima è ancora viva.
A discapito della componente eroica insita nella difesa e nel salvataggio di un altro essere umano, Emily Mattern scrive che il ruolo della madre appare in contrasto con quello dell’eroe (“qualcuno che possiede qualità sovrumane ed è ammirato per le sue conquiste e i suoi meriti”), caratterizzandosi come un ruolo meno attivo, legato a mansioni di cura.
Le madri, nell’immaginario collettivo, sono profondamente legate alla dimensione dell’emozione, distaccandosi da quella fredda razionalità che – come scrive Julie McCollum – caratterizza invece le figure maschili.
Ed è proprio la maternità, la propria e quella delle altre donne, a costituire l’unico scrupolo nella spirale di violenza messa in atto dalle assassine di Kill Bill. Pensiamo al primo film: Beatrix non vuole uccidere la ‘collega’ Vivica Fox davanti a sua figlia, e l’unico combattente che risparmia, nella lunga battaglia alla Casa delle Foglie Blu, è un ragazzino spaventato, che congeda con una sculacciata: “Go home to your mother!“.
Nel flashback presente nel secondo film, Beatrix viene risparmiata a sua volta quando rivela di aver appena scoperto di essere incinta. È proprio da questa rivelazione, accompagnata dalla decisione di abbandonare il proprio lavoro di killer per una vita “normale”, che ha inizio il dramma che caratterizza l’intera vicenda.
Sebbene la violenza venga presentata come una prerogativa femminile, il film mette più volte in luce un’incompatibilità fra il ruolo della killer e quello della madre, con Beatrix che decide di ritirarsi nel momento stesso in cui scopre di essere incinta. Mettendo da parte le implicazioni morali e pratiche legate a un impiego di questo tipo, pensiamo a quest’abbandono attraverso una lente simbolica: si tratta di una donna che ritiene che il suo lavoro non sia compatibile con la sua maternità. Angela Dancey sostiene che questa dinamica metta in luce il giudizio della società nei confronti delle madri che lavorano, dato che ciò che Beatrix fa per vivere viene presentato come qualcosa di pericoloso per sua figlia.
Beatrix decide quindi di abbandonare l’organizzazione di killer presieduta da Bill per cambiare vita: si reca in Texas per sposare un uomo come tanti e lavorare nel suo negozio di musica.
Durante le prove del matrimonio, Bill ricompare nella sua vita: prima finge comprensione, poi compie il massacro che spingerà Beatrix a reclamare vendetta.
Ed è proprio nella vendetta che notiamo come le capacità di Beatrix, degne di una killer professionista, non risultino intaccate dal fatto di aver partorito. Insomma: il film chiarisce che diventare madre non annulla le abilità di una donna, né le sue capacità o la sua determinazione. Una madre è perfettamente in grado di assolvere al lavoro che effettuava prima del parto, anche se è opportuno ricordare che Beatrix scopre di aver effettivamente partorito solo alla fine del secondo film. Fino ad allora, infatti, la protagonista è convinta di aver perso la sua bambina a seguito del massacro (lo notiamo nella struggente scena in cui, in ospedale, si tocca la pancia): questa è la motivazione più profonda dietro al suo desiderio di vendetta, nonché il motivo stesso per cui decide di rimettersi in campo, contravvenendo al desiderio di lasciarsi alle spalle il suo passato da killer.
Maternità e identità
Per Beatrix, la violenza diventa lo strumento attraverso cui riprendere in mano la propria vita e la libertà di scegliere per sé.
È proprio mettendo in atto le competenze maturate nel corso del suo precedente impiego, che Beatrix può mettere a punto la sua vendetta.
Come scrive Michael Crowley, “l’eroina di Kill Bill smantella una falsa versione di sé [quella che stava per sposarsi in Texas, ndr] in modo da ricostituire, e riunirsi con la parte autentica e precondizionata di sé”, che rappresenta la sua “natura innata”.
Bill è caratterizzato come una figura complessa che da un lato priva Beatrix della sua libertà di scelta e dall’altro le fornisce gli strumenti per guardarsi dentro e riconciliarsi con la sua identità di killer, integrandola con la propria maternità.
Ad essere eloquente, in questo senso, è la famosa scena del monologo di Bill, dedicato a Superman:
«Come sai, io sono un grande appassionato di fumetti, soprattutto di quelli di supereroi. Trovo che tutta la filosofia che circonda i supereroi sia affascinante.
Prendi il mio supereroe preferito, Superman. Non è un grandissimo fumetto, la sua grafica è mediocre. Ma la filosofia non è soltanto eccelsa, è unica. L’elemento fondamentale della filosofia dei supereroi è che abbiamo un supereroe e il suo alter ego. Batman è di fatto Bruce Wayne. L’uomo ragno è di fatto Peter Parker. Quando quel personaggio si sveglia al mattino è Peter Parker. Deve mettersi il costume per diventare l’uomo ragno.
Ed è questa caratteristica che fa di Superman l’unico nel suo genere. Superman non diventa Superman. Superman è nato Superman. Quando Superman si sveglia al mattino è Superman. Il suo alter ego è Clark Kent.
Quella tuta con la grande S rossa è la coperta che lo avvolgeva da bambino quando i Kent lo trovarono. Sono quelli i suoi vestiti. Quello che indossa come Kent, gli occhiali, l’abito da lavoro, quello è il suo costume. È il costume che Superman indossa per mimetizzarsi tra noi. Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede. E quali sono le caratteristiche di Clark Kent? È debole, non crede in se stesso ed è un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana, più o meno come Beatrix Kiddo è la moglie di Tommy Plympton.
Tu avresti indossato il costume di Arlene Plympton, ma tu sei nata Beatrix Kiddo, e ogni mattina al tuo risveglio sei Beatrix Kiddo…».
Beatrix ribatte: “Stai dicendo che sono un supereroe?”.
“Sto dicendo che sei un killer“, risponde Bill, “un killer per diritto di nascita”. In inglese la definisce “natural born killer” (lett. “una killer nata”), evidenziando il fatto che si tratti di una componente innata del suo essere.
“Lo sei sempre stata e lo sarai sempre. Trasferirti a El Paso, lavorare in un negozio di dischi usati, andare al cinema con Tommy, collezionare punti premio; quella sei tu che cerchi di camuffarti da ape operaia, sei tu che cerchi di mimetizzarti nell’alveare. Ma tu non sei un’ape operaia. Sei un’ape killer ribelle e puoi bere tutta la birra che vuoi, mangiare hamburger e ingrossare il culo a dismisura, ma niente al mondo cambierà tutto questo”, conclude Bill.
Bill mette Beatrix al pari di Superman: due esseri straordinari che cercano di mimetizzarsi all’interno di una società composta da individui mediocri.
Se l’adattamento italiano ha optato per “ape killer ribelle”, la versione originale la chiama “renegade killer bee”.
“Renegade” può anche significare “ribelle”, ma in questo caso è più centrata la connotazione di “traditrice”. Beatrix è un'”ape killer traditrice” nel senso che ha tradito Bill, ma anche la sua stessa natura. Inoltre “renegade”, come suggerisce David Roberts, è un aggettivo tipicamente utilizzato per indicare una persona che rifiuta le convenzioni sociali – arriviamo quindi a una concezione di “ribelle” ben più sfaccettata di quanto l’adattamento italiano ci lasciasse credere.
Come ne L’ultimo unicorno, anche qui è il villain a riconoscere la vera natura della protagonista, in un momento in cui quest’ultima sembra non esserne conscia. Dopo averle iniettato un siero della verità, la interroga:
«Prima domanda: pensavi veramente che la tua vita a El Paso avrebbe funzionato?»
«No! Ma avrei avuto B.B.!»
«Non mi fraintendere, io credo che saresti stata una splendida madre, ma tu sei un killer. Uccidere tante persone per arrivare a me, ti ha dato un brivido, non è vero?»
«Sì…»
«Tutte, nessuna esclusa?»
«Sì.»
Questa scena è fondamentale: non è più solo Bill a considerarla una “natural born killer”, ma è lei stessa ad ammetterlo. Ad essere funzionale a questa presa di coscienza è il viaggio, letterale e metaforico, che l’ha portata fino a lì, un lento percorso che l’ha condotta all’ammissione finale. Riprendendo familiarità con il proprio lavoro (uccidere), Beatrix ritrova la parte più autentica di sé, come una madre che ricorda di non essere solo una madre.
In questo contesto, il discorso di Bill è solamente il mezzo attraverso cui Beatrix riesce a unire tutti i puntini, rappresentati dalle persone che ha dovuto uccidere per arrivare fino a lui.
Notiamo come Bill non contrapponga la natura di Beatrix alla sua maternità (“io credo che saresti stata una splendida madre”), allo stesso modo in cui non ritiene che il suo essere padre lo costringa a cambiare lavoro. Questo evidenzia un doppio standard: l’incompatibilità fra lavoro e figli viene presa in considerazione quasi sempre per le donne che lavorano (considerate “cattive madri”), quasi mai per gli uomini.
Secondo Rikke Schubart, Kill Bill mette in scena la trasformazione di un archetipo: Beatrix non è una bad mother, ma una new mother.
“La new mother non è una tradizionale good mother, ma una madre che riesce a negoziare nozioni tradizionali di maternità con valori post-femministi di forza, indipendenza e individualismo”.
La decisione di Beatrix di ritirarsi dal suo impiego dopo che scopre la sua gravidanza è un tentativo di incarnare la good mother tradizionale, quella con un marito e una casa in periferia. Tuttavia, ci rendiamo presto conto – come messo in evidenza dall’interrogatorio di Bill – che si tratta di un’illusione: Beatrix non è fatta per vivere una vita “normale”.
“Il suo passato la tormenterebbe (come successo a Vernita) e per creare un futuro deve prima accettare il suo passato e integrarlo nella sua nuova personalità”, scrive Schubart.
Notiamo come, nel film, la questione dell’identità sia particolarmente pregnante: per 3/4 della storia, non conosciamo il vero nome della protagonista, che ci viene presentata prima come The Bride (nome che la connota come vittima del massacro ai Sette Pini), poi come Black Mamba (il suo nome in codice da killer professionista), Arlene Machiavelli (il nome con cui intende iniziare una nuova vita in Texas) e infine Beatrix Kiddo.
Il suo vero nome viene censurato con un beep fino a metà del secondo film.
La protagonista deve quindi imparare a conciliare la sua identità di killer con quella di madre, trovando la vera sé stessa all’interno di questa dualità. Leah Andrea Katona sostiene che “alla fine, [Beatrix] riesce a fare entrambe le cose, a vivere con le due contraddittorie parti di sé” e che la storia la premi sia come killer (riesce a ottenere la sua vendetta), sia come madre (ritrova sua figlia). Beatrix, quindi, “impara a convivere con la dualità della sua esistenza, riuscendo a risolvere i suoi conflitti interiori”.
È importante ribadire come la scoperta di essere madre non addolcisca la sua natura assassina, né la determinazione nell’ottenere il suo obiettivo. Pur facendosi scrupoli in merito alla propria maternità e a quella altrui (tanto che si rifiuta di uccidere la figlia di Vernita), la sua vendetta viene compiuta senza intoppi sia nei confronti dell’ex collega, sia in quelli di Bill.
Nello scontro finale, la commozione la coglie a più riprese, ma non la ferma nel compiere la sua vendetta. Secondo McCollum, Beatrix riesce a unire fra loro tratti stereotipicamente attribuiti alla femminilità (come l’emozione e l’attaccamento alla famiglia, tipici dell’archetipo della madre) e tratti stereotipicamente attribuiti alla mascolinità (la razionalità, la determinazione, il “sangue freddo” del killer), costituendo un’immagine sfaccettata e realistica della donna americana del Nuovo Millennio.
Paradossalmente, la figura di Bill non assume solo i tratti del carnefice, ma anche quelli del (controverso) mentore che, in punto di morte, le lascia l’insegnamento più importante – mai dimenticare chi sei.
A questo punto, Beatrix deve dimostrare di saper mettere in campo quello che ha imparato: il primo modo per farlo è proprio uccidendo il padre di sua figlia, senza lasciarsi intenerire dal quadretto familiare che ha inscenato. Bill deve essere ucciso perché l’ha privata del suo libero arbitrio, di una decisione che lei avrebbe dovuto prendere per sé stessa, per il suo corpo e per la sua vita. Uccidendolo, Beatrix completa la sua vendetta e il suo percorso di autocoscienza, uscendo da quella metaforica foresta nella quale, come recita la citazione di Hattori Hanzō riportata nel primo film, “non sai dove sei, né da dove sei partito”.
“Solo dopo che tutte le persone sulla sua lista sono morte, e dopo essersi riunita con sua figlia, può tornare a essere la vecchia sé stessa, e al contempo trasformarsi immediatamente in una madre”, scrive Suzanne Klatten.
D’ora in avanti, Beatrix vivrà la propria maternità come meglio crede, ma con una nuova consapevolezza: pur nel costante tentativo di tenere sua figlia al sicuro, non potrà (e non dovrà) più negare la sua vera natura.
Non a caso, i titoli di coda ce la ripresentano con tutti i suoi nominativi, eccetto quello che avrebbe usato nella vita in Texas (Arlene Machiavelli), a dimostrare quanto quell’alter ego non fosse parte di lei, a differenza degli altri. Beatrix è una vittima/vendicatrice (The Bride), un’assassina professionista (Black Mamba), e ora anche una mamma (“mommy”).
Beatrix è sé stessa solo quando può essere tutte queste cose allo stesso tempo.
Dedicato a mia mamma, che è una figlia del ’68, una femminista, una sposa in rosa shocking, una Dottoressa, una madre, una controfigura di Xena, una capo d’azienda e molte altre cose (può anche insegnare matematica e scienze al liceo!).
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