Un film sui desideri che lascia a desiderare.
Una fiaba Disney ordinata su Wish.
Ridentem dicere verum: quid vetat?
Volente o nolente, Wish racconta tanto della crisi in cui versano i Walt Disney Animation Studios.
Dopo averlo visto in anteprima, traccio qualche coordinata per capire dove si trova la Disney, a 100 anni dalla sua fondazione.
Annus horribilis
Il 2023 sarà ricordato come uno dei momenti più bui nella storia della Walt Disney Company. Reduce dal colossale flop di Strange World (2022), la major ha inanellato una delusione dopo l‘altra. Il tiepido riscontro ottenuto dal remake in live action de La Sirenetta, a discapito delle enormi aspettative, è uno dei sintomi più eclatanti un progressivo allontanamento del pubblico, che ormai più che scettico è semplicemente stanco del modus operandi con cui la Disney stessa si approccia ai suoi capisaldi. A testimoniarlo ci sono le polemiche che hanno investito Rachel Zegler e l’intera produzione del remake di Biancaneve: una sommossa che per la prima volta non ha coinvolto solo gli appassionati più irriducibili, ma anche gli spettatori comuni. A questo si aggiungono i flop della Marvel e di altre properties della Disney, fra cui Indiana Jones. Alla luce di tutto ciò, non poteva esserci anno peggiore di questo per celebrare i 100 anni dello studio…
Cade la maschera
Guardando Wish, l‘impressione è quella di trovarsi davanti a un film travestito da grande Classico Disney del passato. Forse non è un caso che una serie di illustrazioni promozionali presentino Star, la stella del film, nei panni di diversi personaggi dei film più iconici della Casa del Topo.
Similmente, un filmato promozionale colloca Star negli scenari dei più grandi Classici Disney. Si cerca di far credere al pubblico che il personaggio, come il film di cui fa parte, si riallacci direttamente a quella tradizione animata: la stessa premessa del film suggerisce che non solo ne abbia sempre fatto parte, ma che dalla sua storia scaturisca parte di quello stesso immaginario, se concepiamo Wish come l‘origin story della Stella dei desideri. Mentre i remake in live action tendono a riscrivere la storia dei film originali, nella presunzione di aggiornarli o addirittura correggerli, Wish si pone con più reverenza nei confronti del patrimonio disneyano, ma pretende di inserirsi, a forza, all’inizio di tutto.
Inevitabilmente, Wish viene presto smascherato…
E si rivela per ciò che è veramente.
Un film che si colloca perfettamente sulla scia dei più recenti Classici Disney: il messaggio socio-politico c’è, il resto è scritto con ChatGPT.
Sul fronte narrativo, è palese la somiglianza con Encanto.
Su altri fronti, come l’ambientazione, lo stile musicale (con canzoni che cercano di ricreare lo stile di Lin-Manuel Miranda) o finanche i colori della protagonista (simili a quelli di Isabela, la cui bambola è stata vendutissima), possiamo ipotizzare che si tratti di somiglianze volute, ma quando si parla di sceneggiatura il paragone con Encanto risulta meno auspicabile, ricevendo piuttosto il testimone del debole storytelling disneyano degli ultimi anni.
I due film presentano un grosso problema in comune: la trama è scontata, lo sviluppo è prevedibile, semplicistico e sempliciotto, particolarmente affrettato sul finale. Encanto compensava questa debolezza con le canzoni e le caratterizzazioni dei personaggi e delle loro relazioni: tutti elementi che in Wish non risultano altrettanto forti. Le canzoni sono gradevoli, ma non memorabili (con l’eccezione, forse, dell’assolo di Asha); le relazioni fra i personaggi sono appena accennate.
La canzone d’apertura, Venite a Rosas, in cui Asha – nei panni di guida turistica – ci porta alla scoperta del suo Regno ricorda molto La famiglia Madrigal, canzone in cui Mirabel ci presentava la sua famiglia in Encanto. “Parte del problema è che molte delle canzoni scritte da Michaels e Rice tentano di scimmiottare lo stile veloce delle canzoni di Miranda, presumendo che se DeBose e i suoi compagni cantano abbastanza velocemente, avranno l’effetto di suonare memorabili”, scrive Josh Spiegel di Slash Film.
Su quest’esile struttura si innestano alcuni degli elementi tipici delle grandi narrazioni disneyane del passato. Uno su tutti, il ritorno del villain dopo un decennio di cattivi a sorpresa o minacce astratte.
Presentato come un ‘cattivo’ degno della grande tradizione Disney, Re Magnifico riesce a intrattenere (specie nella parte finale), ma non si dimostra all’altezza del ruolo di cui è investito. Al netto di qualche occasionale guizzo, la caratterizzazione di Magnifico è appiattita da una backstory confusa e approssimativa che accompagna il personaggio verso un’evoluzione sbrigativa e poco credibile, sia nel rapporto con Asha e con la Regina Amaya, sia nella sua effettiva discesa verso il male. Le pretese di complessità tanto care alla sceneggiatrice Jennifer Lee, che nel promuovere il film ha nuovamente calcato la mano su questo fronte, crollano come un castello di carte alla prima folata di vento.
Allo stesso modo, anche il messaggio alla base della storia è potenzialmente complesso e interessante – sicuramente meno banale della premessa di Encanto – ma non è sviluppato a dovere.
Riassumendo: la storia è scarna, la caratterizzazione dei personaggi principali e delle loro relazioni è insufficiente. A completare il quadro c’è la chiassosa irrilevanza dei personaggi di sfondo: Valentino non ha alcuna funzione se non fare battute discutibili, Star è carina quanto inutile, gli amici di Asha hanno effettivamente un ruolo nella storia, ma sono estremamente blandi, così come gli animaletti del bosco, inseriti solo perché caratteristici delle fiabe Disney del passato.
Passiamo al fronte visivo.
L’estetica generale del film esercita un certo fascino e il character design dei personaggi principali (soprattutto Asha e Magnifico) risulta incisivo, ma questo fantomatico stile ibrido, che pur permette al film di sfoggiare fondali acquerello (che rimandano a Biancaneve) nel formato cinemascope (che rimanda a La bella addormentata), lascia un po’ a desiderare, nel complesso.
Il risultato finale, a un primo sguardo, non si discosta molto dal tipico film d’animazione in CGI di casa Disney. La sperimentazione, che pur c’è, si nota a malapena, perfino sul grande schermo. Bisogna stare davvero molto attenti per notare elementi e tratti in 2d… che poi in 2d non sono!
Lo stile d’animazione di Wish non è vera magia, ma un gioco di prestigio: il 2d è finto, ricreato al computer; l’acquerello è digitale.
È una CGI travestita da 2d. Il trucco c’è, e si vede.
Belen Edwards di Mashable scrive che “i due stili”, ossia la CGI e il (finto) 2d, “si scontrano invece di completarsi a vicenda. In alcuni momenti, i contorni dei personaggi appaiono troppo netti rispetto allo sfondo più morbido, dando l’illusione che siano stati inseriti in green-screen nell’ambiente invece di abitarlo pienamente. Altre volte, le scene perdono il senso della dimensione, con piani confusi che oscillano tra l’appiattito e il corposo”.
Petrana Radulovic, che ha recensito il film per Polygon, arriva a dire che “tutto appare piatto e privo di vita, cosa che in realtà si addice molto al film stesso”. Ouch!
Undercooked (‘ancora crudo’) e half-baked (‘cotto a metà’) sono fra i termini più utilizzati per definire il film nelle recensioni statunitensi.
E vale sia per la storia che per l’animazione. Gli elementi ripescati dalla tradizione Disney hanno la funzione di gettare fumo negli occhi dello spettatore per distrarlo, sperando che non si accorga che il film che sta guardando non è un grande Classico Disney. Un espediente che non basta a mettere a segno il trucco di un illusionista di bassa lega.
In più c’è un senso di confusione che ben si manifesta nell’estetica, con questo miscuglio di tecniche che non si amalgamano in modo soddisfacente, portando a un risultato che appare perfino cheap, sebbene il budget non fosse certo modesto. Una sensazione di “Vorrei, ma non posso” che traspare tanto nell’aspetto visivo quanto in quello narrativo.
Un appiattimento che rappresenta appieno la crisi d’identità della Disney odierna. Insicura, in balìa del vento, senza punti di riferimento se non la propria stessa storia, pregna di una magia che ormai è solo un ricordo.
Quello della Disney è un disperato tentativo di rimandare a un passato glorioso, ma senza poterlo eguagliare, col risultato di rimanere ancorata a un passato più recente e più modesto (quello di Encanto e di Raya), anziché volgere al futuro. Anzi, l’impressione è quella di trovarsi davanti a un prodotto televisivo per un pubblico prescolare, come le serie di Disney Junior Elena di Avalor (2016-2020) e Sofia la principessa (2012-2018).
Considerando che stiamo parlando di un Classico Disney, un film d’animazione destinato ai cinema, che per di più si pone l’obiettivo di celebrare il centenario dello studio, lo scenario è sconfortante.
C’è tutto, ma non c’è niente
Accantonate le sovversioni di Frozen, la Disney guarda indietro, alla ricerca di una nuova identità. Con l’eccezione della storia d’amore, il film sembra voler barrare tutte le caselle di quella che è la tipica narrazione disneyana. Wish sfrutta questi elementi ricorrenti in modo così eclatante che a tratti sembra perfino una parodia – come nella scena degli animaletti del bosco che cantano.
Aprendosi a un confronto diretto con il passato, Wish finisce per mettere in luce tutti i limiti del presente. Si tratta di un confronto inclemente, ora più che mai. E mentre scorrono i titoli di coda, che omaggiano i Classici Disney precedenti, viene quasi da piangere. Per la nostalgia, ma anche per una sorta di strana tristezza. Viene da chiedersi: è tutto qui? Com’è possibile che tutti questi film meravigliosi – ma anche quelli meno riusciti – ci abbiano portato a questo? Wish è un traguardo o un lascito? Una celebrazione o una pietra tombale?
Il ragionamento che ha fatto la Disney sembra essere il seguente: “Se facciamo un’omaggio all’incanto [dei passati film Disney], il pubblico sarà incantato”, scrive Owen Gleiberman di Variety: “La vera magia, tuttavia, non può essere riciclata”.
“Wish è così ossessionato dal passato che non riesce ad aggiungere niente di nuovo. Se hai intenzione di rendere omaggio a 100 anni di magia Disney, non puoi dimenticare di conservare un po’ di magia per te”, scrive Devan Coggan di Entertainment Weekly.
“Quando scorrono i titoli di coda di Wish, le immagini che accompagnano i nomi di cast e staff non sono quelle del film stesso, nel consueto stile Disney. Si tratta invece di scintillanti sagome dorate […] di personaggi classici (e altri meno conosciuti) dei film Disney del passato. Questa è l’essenza di Wish: un pallido abbozzo di ogni buon film che lo ha preceduto, senza molto altro da aggiungere”, scrive ancora Radulovic di Polygon.
Chiariamoci: Wish non è un film attivamente brutto.
A visione conclusa non si prova la rabbia di chi ha appena assistito a uno scempio, ma lo sgomento di aver assistito a qualcosa di drammaticamente inconsistente.
La debolezza del più recente storytelling disneyano – pensate a Raya o a Encanto – si fa sentire, con il suo bagaglio di pressapochismi.
E così una premessa interessante si sviluppa in modo troppo prevedibile, con il film che sembra più interessato a omaggiare il passato anziché raccontare qualcosa di nuovo. È un film che non ha un carattere, né un’identità propria o definita. Un film che non osa, preferendo adagiarsi sugli allori non solo della grande tradizione dello studio, ridotta a una serie di sterili easter egg, ma anche degli exploit più recenti. La stessa Asha non ha un carattere definito, limitandosi a essere goffa-ma-determinata come molte delle sue precorritrici, da Rapunzel in poi.
E poi ci sono gli animaletti parlanti, perché in una fiaba Disney devono esserci, no? Peccato che la loro utilità sia pari a zero.
E poi sette amici di diverse etnie e fisicità per poter ottenere il massimo punteggio possibile sul fronte dell’inclusione (e poter citare, al contempo, i Sette Nani di Biancaneve): peccato che siano evanescenti, a dir poco.
E poi un cattivo, ma giusto perché il pubblico l’ha richiesto a gran voce: peccato che non sia un villain classico (quindi cattivo-e-basta), ma neanche un personaggio dalla caratterizzazione complessa (al massimo appare confusa).
Insomma: c’è tutto, ma non c’è niente.
Né infamia, né lode.
Continua a sognare
Mettendo in scena la propria tradizione, è come se la Disney esprimesse il sogno di ritornare a quei fasti. Sembra quasi un disperato tentativo di fingere di essere ancora quella Disney per illudere il pubblico (e sé stessi) di esserlo davvero, o per tornare a esserlo proprio con questo film.
Fake it till you make it.
Per ironia della sorte, il messaggio di Wish – è importante avere un sogno, anche se non si avvera – trova un tragico riscontro proprio nella situazione attuale della Disney. E così viene messa in luce l’importanza di continuare a sognare, anche e soprattutto nei momenti di crisi. Nella darkest hour, ossia nell’ora più buia, per citare un’espressione utilizzata anche dallo stesso Walt Disney.
La Disney sta sicuramente vivendo una delle sue ore più buie.
Wish, che sulla carta poteva sancire l’inizio della risalita, è un film estremamente basico, incolore e insapore: il pubblico chiede – anzi, esige – “qualche cosa in più per noi, se c’è”, per riprendere la canzone portante del film, quella attraverso cui Asha esprime il suo desiderio alla stella.
E proprio il pubblico, simbolicamente, rappresenta una grande componente del film, rappresentato dagli abitanti di Rosas che a un certo punto mettono in dubbio la logica dietro alle decisioni di Magnifico tanto quanto gli spettatori mettono in dubbio il valore della Disney attuale. “A un certo punto, gli abitanti di Rosas si confrontano con Re Magnifico e gli elencano la lista dei problemi legati alla sua operazione di elargizione dei desideri e, per estensione, i difetti insiti in questa sceneggiatura. In un certo senso, gli abitanti di Rosas sono la voce del pubblico, curioso di sapere perché sono state fatte queste scelte all’interno di una storia che riesce a essere eccessivamente contorta e didascalica allo stesso tempo, lasciando anche tante domande senza risposta”, scrive Ross Bonaime di Collider.
La risoluzione finale – che non svelerò, anche se è piuttosto scontata – prevede effettivamente il contributo del popolo di Rosas. È come se la Disney ci stesse dicendo che, per far sì che il suo desiderio si avveri, dobbiamo crederci tutti insieme. La Disney di oggi potrebbe rivedersi nei panni di Asha, ma ad occhi più cinici potrebbe essere associata a Magnifico che “mantiene il suo potere dando false speranze al suo popolo”, come spiega la sceneggiatrice Jennifer Lee. E la Disney non ha fatto esattamente questo, annunciando il ritorno del cattivo e via dicendo?
Proprio come Magnifico, la Disney ha realizzato un desiderio a caso fra quelli del pubblico, uno fra i desideri più innocui – quello di assistere appunto al ritorno del villain tradizionale (cioè cattivo-e-basta), ma ha esaudito questo desiderio senza comprenderlo appieno, o facendo finta di non comprenderlo appieno. L’ha fatto senza crederci davvero, solo per mantenere il proprio potere, ma questa strategia le si è ritorta contro, tanto che l’agognata canzone del cattivo è stata esposta al pubblico ludibrio.
Lo stesso si potrebbe dire dello stile d’animazione ibrido, che ammicca al fascino del 2d, ma senza comprenderlo davvero.
“Non ci sperate troppo!” (“Don’t get your hopes up!”) ci avverte Gabo, l’amico di Asha ispirato a Brontolo.
Eppure, ci dice la Disney, dobbiamo continuare a sperare in lei e con lei.
Dobbiamo imparare a crederci ancora e di nuovo.
O forse, in realtà, dobbiamo imparare a fare a meno di lei, come il popolo di Rosas con Magnifico, se ci rendiamo conto che non esaudirà mai i nostri desideri.
Qualche cosa in più per noi, se c’è
“Il mio sogno è… qualche cosa in più per noi, se c’è“.
Quel “se c’è” riassume perfettamente la sensazione che si prova a fine film.
Al termine dei titoli di coda, e quindi della sfilata delle ‘vecchie glorie’ disneyane sotto forma di costellazioni, la percezione è un po’ quella: la Disney ha ancora qualcosa da dire o ha esaurito le idee, le tematiche e le storie da raccontare?
Se ancora c’è qualcosa da raccontare (e crediamo fermamente che sia così), forse la Disney non può o non vuole farlo. E, in fondo, di storie ne ha già raccontate tante, e le ritroviamo quasi tutte in questo film.
E allora: se c’è qualche cosa in più per noi bene, ma se non c’è?
Dobbiamo accettare anche questa prospettiva.
La sensazione è che gli ultimi cent’anni ci abbiano portato fino a questo punto, e adesso la Disney ci voglia dire: “il mio lavoro qui è finito”.
Ora che, attraverso le sue storie, abbiamo acquisito gli strumenti per far avverare i nostri sogni, non abbiamo più bisogno di storie?
No, però forse dobbiamo cercarle altrove.
E così, ironicamente, Wish non si è rivelato essere un film su un viaggio, a differenza di quanto era trapelato inizialmente (“an epic adventure among the stars through the various worlds”), ma è comunque un film su un viaggio. Il viaggio della Disney, alla ricerca della magia perduta.
Non esiste un Classico Disney che esprima in modo altrettanto eclatante la necessità di perseverare, perfino quando tutto sembra perduto. Perfino quando la mappa è confusa e la strada è sterrata.
Questo è un film sul viaggio, e non sulla destinazione. Tanto che anche il destino di Asha sembra incerto, sul finale. Lei stessa non si sente all’altezza del proprio sogno. E infatti non lo è, o non lo è ancora. Proprio come la Disney di oggi. Non capiamo fino a che punto il desiderio possa realizzarsi. Quel che è certo è che c’è da lavorare per trasformare un maldestro colpo di bacchetta in un incantesimo meraviglioso.
Una luce nel buio
Se è vero che la storia si ripete, ecco che gli ultimi Classici Disney sembrano rimandare all’era sperimentale dei primi anni ’00, con l‘action, il fantasy (Raya) e la fantascienza (Strange World) che mal si amalgamano con la tradizione Disney, come già dimostrato all’epoca dai modesti risultati di Atlantis (2001) e Il pianeta del tesoro (2002).
E poi c’è Wish che sembra voler iniziare un nuovo corso, ma ottiene i punteggi più bassi su Rotten Tomatoes dai tempi di Chicken Little (2005), che similmente aveva tentato di aprire una nuova strada per la Disney, quella delle commedie demenziali con animali in CGI.
Però Wish ricorda anche e soprattutto La principessa e il ranocchio: non solo per la tematica del desiderio, ma per il fatto di essere stato investito di una missione al di sopra delle proprie possibilità. Un ritorno alla fiaba che ha un sapore insipido, come un gumbo senza tabasco. Senza infamia, né lode. Specchio di una Disney in viaggio nella palude più buia, a un passo dalla luce. Almost there.
In ultimo, perfino l’ambientazione di Wish potrebbe inconsciamente suggerirci qualcosa. Se pensiamo al Medioevo come ‘epoca buia’ viene automatico associarvi una delle ere più buie della Disney. Per alcuni si tratta del periodo 1977-1988, ma io tendo a inglobare in quest’era tutto ciò che va da La Carica dei 101 (1961) a Oliver & Co (1988), parlando più generalmente di ‘medioevo xerox’, al massimo dividendo fra Alto e Basso Medioevo.
Se escludiamo Biancaneve, il cui setting non era comunque molto chiaro, i Classici Disney ad ambientazione medievale non sono mai stati forieri di buone notizie.
La bella addormentata nel bosco (1959) è stata un’opera colossale sul fronte estetico (e infatti è citata a più riprese in Wish), ma i suoi costi proibitivi non sono stati ripagati. Con questo film, la Disney ha perso un sacco di soldi e ha abbandonato le fiabe, inaugurando i tre decenni di cui sopra, in cui non sono mancate ambientazioni medievali, quasi a voler rimarcare la condizione degli studios. Così abbiamo avuto La spada nella roccia (1963), Robin Hood (1973) e infine Taron e la pentola magica (1985), uno dei più grandi tonfi nella storia della Disney. E forse non è un caso che nel Rinascimento disneyano, ossia quel periodo di grandi successi fra il 1989 e il 1999, le fiabe di stampo europeo tenderanno ad essere ambientate in epoche successive, attorno al Sette-Ottocento, arco temporale che nel 1950 aveva portato fortuna a Cenerentola.
Se è vero che la storia si ripete, rimane da chiedersi dove si colloca Wish in questa cornice. L’ambizione estetica potrebbe rimandare a La bella addormentata, anche se con sforzi economici più sostenibili.
Può essere, però, che – come successo allora – la Disney decida di abbandonare la fiaba per un po’ a fronte di questo flop.
Oppure si tratta di un equivalente di Taron, quindi un tonfo che porterà a un periodo di assestamento e infine a un nuovo Rinascimento che passerà anche attraverso la fiaba? Sarà come La principessa e il ranocchio, che aveva subito fatto spazio a Rapunzel (e quindi all’epoca Revival), o ci vorrà più tempo?
Un altro elemento che inconsciamente sembra dirci qualcosa è il fatto che gran parte della storia di Wish abbia luogo nel cuore della notte.
Il buio aveva caratterizzato i Classici dal 1977 al 1981, quelli della Dark Age più profonda, e quindi Bianca e Bernie (1977), Red & Toby (1981), Basil l’investigatopo (1986), ma in generale tutti quelli che hanno seguito La bella addormentata: anche quando le ambientazioni sono diurne, c’è comunque una lieve patina grigiastra, perfino in Winnie The Pooh (1977). Questa condizione estetica, dovuta anche a budget più risicati, era sintomatica di una magia appannata, una cura minore, un’arte che veniva a mancare.
In Wish ritroviamo un buio che però non appare oscuro e tetro come nei remake in live action dei Classici Disney, né deprimente come quello della Dark Age, ma solo lievemente malinconico, a tratti perfino affascinante.
La luce è ancora lontana, ma se guardi bene, nel buio della notte, una stella brilla ancora. Se ti fermi ad ammirarla, è incantevole.
Wish è al cinema dal 21 dicembre.