Dopo il successo delle analisi di Principesse del loro tempo, in cui ho ricollegato le prime otto principesse Disney al contesto storico-sociale e alla moda degli anni in cui i loro rispettivi film sono usciti al cinema, l’idea di proseguire con le successive principesse era nell’aria.
E così, dopo aver parlato di Biancaneve, Cenerentola e Aurora (qui), prendendo in considerazione l’arco temporale 1937-1959, e di Ariel, Belle, Jasmine, Pocahontas e Mulan (qui), prendendo in considerazione i dieci anni del Rinascimento Disney (1989-1999), ad avere l’onore e l’onere di continuare la tradizione sarebbero state le principesse uscite fra il 2009 e il 2016, ossia Tiana, Rapunzel, Merida e Vaiana, con l’immancabile aggiunta di Elsa e Anna.

Essendo passati solo poco più di 10 anni da La principessa e il ranocchio, e poco più di 5 da Oceania, il pensiero di imbastire un’indagine altrettanto ricca e precisa su un intervallo temporale così recente poteva risultare un azzardo.
Tuttavia, qualche piccola intuizione l’ho avuta, dando vita a una serie di post pubblicati sulle mie pagine di Instagram/Facebook e qui raccolti, in versione riveduta e arricchita, con il titolo di Principesse del nostro tempo: 2009-2016.
Nell’analizzare queste principesse lasciamo da parte i riferimenti alla moda, ad oggi non pervenuti, per abbracciare integrazioni relative al contesto produttivo e alla ricezione dei loro rispettivi film, oltre a tracciare qualche parallelo con le dinamiche sociali ad essi coeve, che negli anni Dieci passano per forza di cose dal web, dai social e dalla politica, con il passaggio di testimone fra due presidenti che hanno già fatto la storia degli Stati Uniti.
Ponendo le proprie basi su Come d’incanto (qui la mia analisi), una nuova era di fiabe Disney (e di relative analisi) prende forma, qui e ora!

La principessa e il ranocchio (2009)

Crederci ancora

Nel 2006, la Walt Disney Company acquisisce la Pixar e John Lasseter diventa il direttore creativo di entrambi gli studi d’animazione. La sua prima decisione, a sorpresa, è quella di riavvicinare la Disney alla sua tradizione fiabesca. Due anni prima, l’allora CEO Michael Eisner aveva preso la decisione di chiudere con l’animazione in 2d: l’infausto compito era stato affidato al puerile Mucche alla riscossa (2004). Se parliamo di fiabe in senso stretto, tuttavia, l’ultima era stata Aladdin, quasi 15 anni prima. Lasseter decide che è giunto il momento di riaprire entrambe le porte e così facendo dà vita al Revival, un’epoca di nuovi successi per la Disney.
Ad aprire le danze è La principessa e il ranocchio nel 2009.

In questo film, la protagonista (Tiana) cerca di ottenere i soldi per aprire il suo ristorante, mentre la Disney cerca di ritrovare gli artisti, la tecnica e la magia dei suoi capolavori più acclamati. Alla regia vengono richiamati Musker & Clements, che avevano diretto La Sirenetta (1989), Aladdin (1992) e Hercules (1997).

Fra le immagini più note del film ce n’è una della protagonista sul balcone, con un abito azzurro, a rappresentare l’epitome della principessa Disney. Eppure, in quella scena Tiana è solo “travestita” da principessa – indossa un vestito preso in prestito dall’amica Charlotte durante una festa in costume. Allo stesso modo, anche il film di cui fa parte è solo “travestito” da Classico del Rinascimento Disney, ma la sua è un’anima in parte rétro, come quella dei Classici dell’Alto e soprattutto del Basso Medioevo, o Dark Age (1977-1988), e in parte spiccatamente contemporanea.

A inizio film lo scenario e il design dei personaggi umani rievocano lo scintillio del Rinascimento (a Tiana ha lavorato Mark Henn, lo stesso animatore dietro a Belle, Jasmine e Mulan), arricchendolo di nuove suggestioni, ma la vibrante New Orleans lascia presto spazio al buio della palude, che accompagna il nucleo centrale della storia, con toni meno epici di quelli dei kolossal degli anni ’90, ma anche meno spensierati delle storie degli anni ’60-inizio ’70 (La Carica dei 101, Gli Aristogatti) e meno tragici di quelle di fine anni ’70/inizio ’80 (Bianca e Bernie, Red e Toby).

Nonostante l’intento fosse quello di tornare all’immaginario fiabesco, il film si concentra per la maggior parte del tempo su animali parlanti (le due rane protagoniste, il coccodrillo Louis e la lucciola Ray) dal design vagamente rétro. È curioso notare come, nell’intento di lanciare una nuova era di fiabe di successo, la Disney sia ripartita più o meno consapevolmente proprio dalla sua età più buia, appena prima del Rinascimento, con gli animali parlanti in una palude dichiaratamente ispirata a quella de Le avventure di Bianca e Bernie (1977), condita anch’essa da caricature dei tipici contadinotti del Sud degli Stati Uniti. Forse è stato necessario, propedeutico e quasi catartico calarsi nuovamente in quell’abisso per poi ritrovare la luce (di una stella, o di una lucciola).

Insomma, La principessa e il ranocchio è uno strano ibrido che pesca sia dai picchi dell’animazione disneyana che dai suoi (paludosi) abissi: l’elemento più contemporaneo è forse lo spirito di cui è pervaso. Il film infatti mette al centro il raggiungimento di un sogno nel quale la protagonista crede fermamente, come le principesse prima di lei, ma nel farlo evidenzia una contrapposizione fra l’incanto che porta a sperare che la Stella dei desideri possa far avverare i propri sogni e il disincanto che porta a credere che sperare non serva a niente, e che solo il duro lavoro possa portare i risultati sperati, ammesso che il sogno possa effettivamente avverarsi!

Tiana dovrà trovare un equilibrio fra questi due punti di vista. Lo stesso fa la Disney, che in questo film inietta un po’ del pragmatismo della sua protagonista nella formula magica che può dare vita a una fiaba moderna. L’espediente di rivolgersi a una stella da un lato viene quindi dipinto come infantile e delirante, ma dall’altro costituisce un’ultima, disperata fonte di speranza per tutti i personaggi.

Nella scena sul balcone, i colori dell’abito di Tiana ricordano quelli di Cenerentola nel franchise delle Principesse Disney.

Tiana chiede aiuto alla Stella dopo che i due agenti immobiliari da cui intende acquistare il proprio ristorante le comunicano che intendono accettare la proposta di un altro acquirente, e pochi attimi più tardi le compare di fianco Naveen in versione ranocchio, dando inizio all’avventura che le permetterà infine di realizzare i propri sogni.

La Stella tornerà poi al centro della storia con la comparsa di Ray, convinto che essa sia la sua fidanzata, Evangeline. Tiana e Naveen scelgono inizialmente di non svelare alla lucciola che Evangeline è una stella e in seguito si ritrovano entrambi a rivolgersi proprio a lei in cerca di una guida. Tiana decide poi di privare Ray della propria illusione nel momento in cui lei stessa si sente più disillusa che mai (pensando che Naveen stia per sposare la sua amica Charlotte), ma la lucciola continua a credere al proprio sogno d’amore. La sua perseveranza viene premiata quando, andando incontro alla morte, Ray ricompare in cielo sotto forma di stella, accanto alla sua Evangeline.

La stella è un chiaro riferimento ad uno dei tòpoi della tradizione disneyana fin dai tempi di Pinocchio (1940), dunque la speranza premiata di Ray è un omaggio alla perseveranza di personaggi della Golden e Silver Age (1937-1942; 1950-1959).

A ricollegare nuovamente la storia ai fasti del Rinascimento Disney è invece l’amore fra due giovani di mondi diversi che imparano qualcosa l’uno dall’altra, ma anche il rapporto che lega Tiana a suo padre (troviamo forti legami padre-figlia anche in Ariel, Belle, Jasmine, Pocahontas e Mulan, pur con modalità diverse), mentre la reciproca contaminazione fra incanto e disincanto è certamente figlia di un mondo post-Shrek. Sotto quest’ultimo punto di vista, il film è vicino al precedente Come d’incanto, che pure presenta una storia d’amore che unisce due mondi, fra fiaba e realtà.

Ad anticipare le successive fiabe disneyane c’è poi il fatto che il film si incentri su un viaggio (come Rapunzel, Frozen, Oceania e Frozen II) e un certo gusto per la violenza slapstick subita dalla controparte maschile, che si prende per due volte un libro in testa: qui tali sketch hanno luogo quando lui è nella sua forma animale, in linea con la tradizione disneyana secondo cui ad essere oggetto di gag in stile “Looney Tunes” erano i personaggi comici, spesso gli animaletti, ma in Rapunzel – come vedremo – le cose cambieranno. Ad ogni modo, la caratterizzazione di Naveen comincia già ad accarezzare quella spacconeria maschile che ritroveremo nei successivi Flynn Ryder, Kristoff e Maui, poi ridimensionata dalle controparti femminili.

Riprendendo le fila del discorso, evidenziamo come la perseveranza di Ray sembri rispecchiare la speranza della Disney di fine anni ’00 nel puntare di nuovo sulle fiabe, convinta che anche il pubblico possa tornare a crederci. Come canta Tiana nella sua I Want Song, la Disney negli anni ’00 ha avuto la sua buona dose di trials and tribulations (tentativi e tribolazioni) e adesso, contro ogni previsione, si sente almost there, quasi arrivata: il suo castello incantato tornerà a risplendere, come la catapecchia trasformata in ristorante, ma bisognerà pazientare ancora un po’.

Il testo di Almost there potrebbe ricollegarsi anche al fatto che il ritorno alla fiaba (e all’animazione in 2d) potesse essere visto come un azzardo per la Disney degli anni ’00, che negli ultimi anni si era accodata al trend delle commedie in CG senza voler rischiare: “This old town (l’industria dell’animazione?, ndr) can slow you down, people taking the easy way. […] People down here think I’m crazy, but I don’t care“.

D’altro canto, la speranza è la stessa virtù che ha fatto il successo di Biancaneve e Cenerentola (sia nelle loro storie individuali, sia nella storia degli studios), e che torna utile ora che la Disney ha bisogno che il pubblico, scettico come Tiana, ricominci a credere alle fiabe animate, decretandone il successo. La Disney persevera nel crederci e vuole che il pubblico faccia lo stesso. E allora bisogna iniettare un po’ del pragmatismo di questa nuova principessa in quella vecchia formula per far sì che continui a funzionare, dimostrando che i sogni diventano realtà. È la realtà travestita da fiaba o è la fiaba che si traveste da realtà? Oppure è un Classico degli anni ’70 travestito da Rinascimento, o da commedia con gli animali in CG degli anni ’00?
In ogni caso, il successo sarà modesto, condannando il 2d all’oblio: non sarà Tiana la principessa che salverà la Disney, né quella che salverà l’animazione tradizionale.
Nonostante il piano di Lasseter fosse riuscito solo in parte, La principessa e il ranocchio servì comunque a riportare la Disney sui binari della fiaba, suggerendo che, anche se il successo non sarebbe tornato da un giorno all’altro, era importante crederci ancora.

Quasi principessa

«Ci serve una principessa, chi c’è là?».

La prima scena de La principessa e il ranocchio ci mostra la Stella dei desideri, poi l’inquadratura si sposta subito su una villa che assomiglia a un castello da fiaba. Entriamo nella torre più alta per conoscere la principessa che analizzeremo in questo paragrafo.

Parliamo di Charlotte (‘Lottie’) La Bouff, l’amica bianca e ricca di Tiana.
Viziata, egocentrica, nevrotica e con una malsana ossessione per fiabe, principi e principesse, ma in fondo buona e solidale con la protagonista.

Charlotte incarna appieno lo stereotipo della principessa, vista come una ragazzina bionda e viziata che pensa solo a sposare un principe. In questa storia non solo non riuscirà a sposarlo, ma non riuscirà neanche a diventare una vera principessa, dovendosi accontentare del titolo di Principessa del Martedì Grasso, a cui ironicamente dovrà rinunciare a mezzanotte, proprio come Cenerentola deve rinunciare ad abito e carrozza.

Attraverso questa figura, il film sembra voler mettere in scena una parodia delle bambine degli anni ’00, ossessionate dalla linea di prodotti del brand Disney Princess.

Non a caso, notiamo che la cameretta di Charlotte è piena di oggetti a tema principesse, dalle bambole agli abiti.
In particolare, è attraverso i costumi (confezionati dalla madre di Tiana) che il film fa un riferimento diretto al franchise delle principesse Disney, nato proprio dalla consapevolezza che le bambine volevano vestirsi come le loro eroine. Avevamo trovato lo stesso riferimento in Come d’incanto, uscito due anni prima.

Di questo fenomeno ne ha scritto Peggy Orenstein in What’s Wrong With Cinderella? (2006) e Cinderella Ate My Daughter (2011), dando voce alla preoccupazione delle madri americane in merito al modello che le principesse Disney costituiscono per le loro figlie. Fra i messaggi veicolati dai prodotti del franchise – ma non dai film di cui i relativi personaggi fanno parte! – viene evidenziata una morbosa attenzione verso l’aspetto estetico con l’intento di ottenere l’attenzione di un principe. Bellezza e matrimonio vengono dipinti come i principali obiettivi da raggiungere.

Con il suo pomposo abito rosa, Charlotte rappresenta la caricatura di ciò che il pubblico degli anni ’00 pensa sia una principessa Disney, ossia una ragazza iper-femminile e sprovveduta che anziché impegnarsi in prima persona chiede aiuto alle stelle, e che pensa solo a sposare un principe – qualunque principe!
Questi sono gli insegnamenti sbagliati che le madri rappresentate da Orenstein temono che le principesse Disney trasmettano alle figlie.

Attraverso Charlotte, la Disney strizza l’occhio a queste madri, ma allo stesso tempo sminuisce la loro preoccupazione, caratterizzando questo personaggio come una figura che non può essere presa sul serio. Si tratta di un personaggio comico e anche il suo design, buffo e tondeggiante, rimarca questo aspetto. Charlotte è quasi uno zimbello da prendere in giro in confronto con la razionalità e la compostezza di Tiana, che è la vera principessa della storia e che, come tutte le principesse che l’hanno preceduta, trasmette valori ben diversi.

Infatti, chi conosce le fiabe animate in questione sa bene che le principesse Disney non hanno mai presentato tratti come superficialità, egocentrismo e vanità, che invece caratterizzano Charlotte, più vicina ad una sorellastra di Cenerentola (in versione buona) che a Cenerentola. Al contrario, le virtù di quest’ultima sono incarnate da Tiana, con la sua modestia, umiltà ed etica del lavoro. Come Cenerentola, Tiana è maltrattata dal suo “capo” e spera in una nuova vita.

Il film premia l’impegno di Tiana a discapito del privilegio di Charlotte.
E così la stessa Charlotte si traveste da principessa con capelli raccolti e un abito pomposo e rosa (il trionfo della stereotipo), forse ispirato ad alcune concept art del Classico Disney del 1950, e balla col principe Naveen colpita dai riflettori in inquadrature che ricordano il film in questione, mentre Tiana sceglie di indossare un abito da dama rinascimentale (un simbolo della sua concretezza, più vicina alla realtà storica che all’incanto della fiaba), ma poi questo si sporca e l’amica le presta un abito nei toni dell’azzurro e dell’argento, proprio come quello di Cenerentola al Ballo (e nel franchise).

Ben lungi dall’attaccare le proprie principesse, con questo film la Disney sembra piuttosto voler lanciare un messaggio a chi interpreta male il messaggio da loro trasmesso, sia nell’emularle che nel criticarle. E così, ad essere demonizzato non è tanto l’amore a prima vista, ma l’approccio di Charlotte, per cui un principe vale l’altro. Insomma, Tiana impara a credere all’incanto della stella dei desideri, a cui affianca il proprio duro lavoro, e quindi viene premiata (al suo “Ti prego!” segue la comparsa di Naveen trasformato in ranocchio), mentre Charlotte ci crede con superficialità, come se la stella potesse darle qualunque cosa senza doversi impegnare in prima persona, e quindi viene ingannata dal principe-villain e dal suo stesso desiderio (al suo “Ti prego!” segue la comparsa del “falso” Naveen, ossia del valletto Lawrence trasformato in principe con la magia vodoo), una dinamica simile a ciò che accadrà ad Anna, ingannata da Hans in Frozen.

Sul finale, la principessa del Martedì Grasso ottiene una dimostrazione di cosa (e chi) è davvero una principessa Disney.
Alla fine, Charlotte – che nella vita ha sempre avuto tutto – non ottiene ciò che desidera, perché l’amore non si può comprare, e perché forse lei stessa non aveva neanche capito in cosa consistesse ciò di cui tanto aveva letto nelle fiabe, prima di averne una dimostrazione grazie a Tiana e Naveen.
E così anche il pubblico di fine anni ’00, con la mente confusa da Shrek, ma anche dagli aspetti più superficiali del franchise Disney Princess, ha la dimostrazione di cosa sia davvero una principessa Disney.

Obama e l’American Dream

Nel 2008 entra nel vivo la campagna presidenziale di Barack Obama, incentrata su due slogan fondamentali: HOPE (Speranza) e YES WE CAN! (Sì, possiamo farcela!). L’elezione del primo presidente nero della storia degli Stati Uniti è un avvenimento storico che invita gli afroamericani a credere nell’American Dream, un ideale di successo che prima sembrava riservato ai bianchi.

L’American Dream prolifera in epoche di grande benessere, ma il 2008 è l’anno della più grave crisi economica dai tempi della Grande Depressione. Quindi da un lato c’è la recessione, dall’altro la rinnovata speranza degli americani, che vedono in Obama la luce in fondo al tunnel di un decennio molto duro, iniziato con la caduta delle Torri Gemelle e sfociato nella guerra in Iraq. Se davvero il Sogno Americano è alla portata di tutti, persone di colore comprese, adesso più che mai è giunto il momento di rimboccarsi le maniche per far sì che si avveri, in barba ad ogni avversità. Crisi economica compresa!

In questo clima esce La principessa e il ranocchio. La protagonista è la prima principessa Disney afroamericana, così come Obama era stato il primo presidente afroamericano. Il film afferma che chiunque può realizzare il proprio Sogno Americano se si impegna duramente. Non è un concetto nuovo, ma nel 2009 poteva risultare attuale per via della Crisi Economica e dell’elezione di Obama, faro di speranza per la comunità afroamericana.

Essendo la prima principessa Disney che lavora, la sua caratterizzazione non poteva scampare a un quesito sorto negli anni ’80 e fino a quel momento solo accennato nei Classici Disney (vedi La Sirenetta), ossia: “Women can have it all?“.
Le donne possono lavorare e poter comunque avere un fidanzato/marito e una famiglia? Possono avere l’amore e anche un’identità propria?
Il finale reitera l’importanza dei rapporti umani (può sembrare un veto posto sulle vite delle donne che lavorano, ma il messaggio vale anche per gli uomini), ponendo particolare enfasi su una risoluzione di tipo romantico che, accompagnandosi alla realizzazione professionale della protagonista, coniuga tradizione e modernità.

Rapunzel (2010)

La principessa ritrovata

Questa è la storia di una principessa rimasta chiusa in una torre fino ai suoi 18 anni. Diciotto come gli anni che erano passati dall’uscita di Aladdin, l’ultima fiaba animata tradizionale prodotta dalla Disney fino a quel momento. Dopo tutto questo tempo, una nuova principessa vede finalmente la luce, ma deve andare incontro alle perplessità della stessa Disney.

Secondo la dirigenza dell’epoca, infatti, un fattore determinante dietro al tiepido riscontro ottenuto da La principessa e il ranocchio era stato il titolo del film, che – includendo la parola principessa (princess) – poteva suggerire che si trattasse di una storia rivolta soprattutto alle bambine. Un ragionamento certamente influenzato dal fatto che negli anni ’00, più che nell’era del Rinascimento Disney, ogni prodotto legato all’immaginario delle principesse veniva fortemente connotato come “femminile”. A questo si aggiunge la preoccupazione di riconquistare il pubblico con quella che in fondo restava una fiaba classica in un mondo post-Shrek, dopo l’ambientazione americana e relativamente “moderna” del Classico precedente. Ecco dunque che il titolo del nuovo film viene cambiato, nella versione statunitense, da Rapunzel al più neutro Tangled, ossia “ingarbugliato”, ispirando altre fiabe animate che, negli anni appena successivi, utilizzeranno come titolo un aggettivo: Brave (coraggiosa) e Frozen (ghiacciato). Inoltre, i trailer, le immagini promozionali e il film stesso offrono molto spazio al comprimario maschile, il ladro Flynn Rider (Eugene Fitzherbert), e mettono in luce la componente d’azione e d’avventura, nel tentativo di attirare l’attenzione dei “maschietti”.
Completa il quadro un’ampia dose di umorismo che un po’ ricalca Shrek, ma senza essere altrettanto “cattivo”, arguto o dirompente, e che tende a ricorrere fin troppo spesso allo slapstick, coinvolgendo per la prima volta la principessa e il suo futuro principe in sketch fino a quel momento riservati ad animaletti e spalle comiche.

Uno sketch degno dei Looney Tunes…

Rapunzel vuole essere tante cose allo stesso tempo e queste molteplici identità vanno a influire sull’economia del film, con un eccesso di comicità nella prima parte e di dramma nella seconda. Tale dualità riflette le varie fasi di produzione del film, che è andato incontro a diverse riscritture. C’è stata la versione Rapunzel Unbraided, che prevedeva un ibrido di live action e animazione incentrato su due teenager che si ritrovano nel mondo delle fiabe nel ruolo di Raperonzolo e il principe: uno spunto vicino a Come d’incanto, ma con un’umorismo più cinico e dissacrante, in pieno stile Shrek. A questa versione ne è seguita un’altra, in cui la storia di Raperonzolo veniva reinterpretata con toni oscuri, drammatici.
Il film definitivo sembra pescare da entrambe le versioni, con i problemi di tono e di equilibrio che ne derivano.

In qualche modo, nonostante tutti questi venti che soffiavano da parti opposte, o forse proprio grazie a questi, il film ha avuto presa sul pubblico, inaugurando un nuovo corso per l’animazione disneyana.

Rapunzel, infatti, avrà un’influenza maggiore sulle successive fiabe animate rispetto a La principessa e il ranocchio, dettando legge sia dal lato promozionale (immagini dei protagonisti con espressioni determinate, minacciose e spaccone, in pose da film d’azione), sia da quello dell’umorismo (un po’ meta– e un po’ slapstick), che diventa parte integrante di questo nuovo approccio alla fiaba.

Ciononostante, Rapunzel si tiene ancora lontano dalle frecciatine autoreferenziali e dai maldestri tentativi di sovversione che avrebbero caratterizzato Frozen.
Il film presenta una trama più tradizionale, ad oggi l’ultima fra i Classici Disney, con relazione amorosa e villain palese.
Oltre la corazza moderna, quella di Rapunzel è in fondo la classica storia di una principessa dolce, ingenua e innocente che si libera dalla propria prigionia, che persevera e si adatta ad ogni ambiente (facendosi benvolere da tutti) e che alla fine realizza (e poi “trova”) il proprio sogno.

Il contributo dell’animatore Glen Keane, che circa vent’anni prima aveva dato vita ad Ariel, si è rivelato fondamentale per conferire un’anima e un cuore a una tecnica, la computer grafica, che fino a quel momento aveva mostrato diversi limiti nell’espressione delle emozioni umane.
L’arte di Keane, ideale punto di raccordo fra il Rinascimento e il Revival, ha permesso agli spettatori di empatizzare con Rapunzel, tifando per questa piccola, vivace e buffa principessa così come avevano fatto per Ariel.

Dopotutto, Rapunzel non è poi così diversa dalle principesse che l’hanno preceduta, pur rispondendo all’esigenza contemporanea di modelli femminili meno idealizzati, in cui potersi immedesimare.
Si tratta di una principessa di un tempo e di un regno “molto, molto lontano”, in contrasto con la specifica realtà storica e geografica in cui era immersa la precedente Tiana, ma comunque una principessa del proprio tempo, i primi anni Dieci. Qui la principessa nella sua forma più classica, con lunghi capelli biondi, balcone e torre, esce alla scoperta del mondo, incontrando la contemporaneità. Sotto la corazza di un umorismo post-Shrek, anche la magia della fiaba Disney trova il modo di uscire allo scoperto, dando inizio a una nuova era.

Come canta Rapunzel in I See The Light, i Walt Disney Animation Studios alla fine ritrovano la luce, la nebbia si è dissolta e al suo posto appare un cielo nuovo. Il film ha ridato fiducia al pubblico e alla Disney stessa, che ha finalmente trovato la chiave di lettura giusta per riprendere in mano fiabe e principesse, ritrovando il successo perduto.

Fra social e politica, le principesse del Revival degli anni '10

Mansplaining

Nel 2010, il New York Times include mansplaining fra le parole dell’anno.
Il termine sta a indicare l’atteggiamento paternalistico con cui alcuni uomini si approcciano alle donne. Si tratta di uomini che spiegano in modo eccessivamente semplificato “qualcosa di ovvio, oppure qualcosa di cui lei è esperta, perché pensano di saperne sempre e comunque più di lei oppure che lei non capisca davvero” (Il Post, 2016).
La scrittrice Rebecca Solnit, a cui viene accreditata la prima articolazione del concetto nel saggio Men Explain Things to Me (2008), attribuisce il fenomeno a una combinazione di “eccesso di sicurezza e mancanza di competenza”.
In quel periodo, la Quarta Ondata femminista è alle porte e se determinate discriminazioni sono universalmente condannate già da tempo, certe microagressioni smettono di passare inosservate per essere finalmente messe alla berlina.

Nel 2010, le dinamiche di genere che intercorrono fra la principessa e il suo comprimario maschile in Rapunzel sembrano proprio riflettere quel momento in cui, dopo decenni di post-femminismo, ci si rende nuovamente conto che esiste una disparità sociale fra maschi e femmine. All’interno del film, Flynn ha un ruolo preponderante: è il primo personaggio di cui vediamo il volto (su un manifesto da ricercato) e sentiamo la voce all’inizio della storia, considerato che assume addirittura il ruolo di narratore.

La sicurezza di sé è una delle caratteristiche principali di Flynn Rider, pronta a sfociare in una spavalderia che si rivelerà essere solo una corazza. Di contro, Rapunzel è più emotiva, ingenua e insicura, avendo passato 18 anni in una torre, ma è comunque piena di risorse e determinazione.

Lui approfitta dell’ingenuità di lei e ridicolizza gli aspetti più infantili e stereotipicamente femminili del suo carattere. Flynn ha decisamente più esperienza del mondo rispetto a Rapunzel, ma sbaglia nel sottovalutarla, tanto che lei dimostra di trovare sempre il modo per cavarsela, anche meglio di lui (come alla taverna).

Non è la prima volta che una coppia Disney incarna le dinamiche di genere in atto al tempo della sua uscita: quasi 20 anni prima c’era stato La bella e la bestia, in cui la Bestia, grazie all’intervento di Belle, passa dall’ipermascolinità dell’eroe degli anni ’80 alla sensibilità del maschio riformato degli anni ’90 (ne ho scritto qui).
La situazione dipinta da Rapunzel risulta però più sottile e potenzialmente problematica. Nel caso della Bestia, il pubblico non aveva dubbi in merito al fatto che i suoi atteggiamenti fossero sbagliati, tanto che le relative scene conservavano perlopiù un tono grave. Nel caso di Flynn Rider non si parla di aggressioni fisiche o verbali evidenti, ma di tanti piccoli gesti con cui sottovaluta, minimizza e ridicolizza la controparte femminile in scene tendenzialmente connotate come comiche. Inoltre, se il pubblico non aveva alcun dubbio in merito al fatto che Belle fosse perlopiù dalla parte del giusto e che costituisse la parte forte della coppia dal punto di vista intellettivo e morale, Rapunzel viene invece messa in ridicolo dal film stesso e dal pubblico che ne ride.

La relazione fra i due presenta dinamiche che fanno parte della realtà quotidiana di molte ragazze, e che qui vanno in scena in un film che la Disney ha in larga parte pubblicizzato e indirizzato a un pubblico maschile, che si ritrova a parteggiare per Rider. Il film fa il doppio gioco, caratterizzando l’iniziale spacconeria di Flynn come un atteggiamento “figo”, per la gioia dei maschietti in sala, ma evidenziando e premiando la capacità di Rapunzel di reagire, dimostrando che lui sbagliava a sottovalutarla.

A onor del vero, la relazione fra Rapunzel e Flynn raggiunge fin da subito un suo equilibrio. Pur conservando tratti stereotipici in relazione ai rispettivi generi (lei è dolce e innocente, lui è scafato e spavaldo), in altri momenti c’è quasi un’inversione dei loro ruoli di genere.
Al loro primo incontro, lei ricorre alle “maniere forti”, usando la forza fisica (con i capelli e la padella), mentre lui gioca sul fascino (fallendo miseramente),
Nella scena finale, Rapunzel prende di nuovo il controllo su di lui in modo fisico, poco prima di baciarlo, riprendendo una dinamica già presente in Come d’incanto.

In definitiva, il film presenta tentativi di prevaricazione maschile come fossero gag, ma la storia mostra come anche la ragazza che sembra più sprovveduta possa rispondere a tono a quell’atteggiamento paternalistico a cui in fondo Flynn, come molti altri uomini, sembra ricorrere per nascondere la propria vulnerabilità, nonché la parte più autentica di sé (Eugene), dietro a una corazza di spavalderia.

Brave (2012)

L’outsider

Nel 2012 esce Brave, la prima fiaba animata prodotta dalla Pixar, e l’anno dopo la sua protagonista (Merida) entra a far parte del franchise delle Principesse Disney, pur apparendo fin da subito come un’intrusa in mezzo a loro, a partire dal design.

In uno sketch di Ralph Spaccainternet (2018), le altre principesse diranno di non riuscire a capire una parola di ciò che Merida dice perché “è dell’altra casa di produzione”, ma nel 2012 John Lasseter era il direttore creativo sia della Pixar che dei Walt Disney Animation Studios, e con Brave estendeva la propria missione di recupero della fiaba a entrambi gli studi d’animazione. Pur pescando a piene mani dall’immaginario disneyano pregresso (“il riflesso di antiche civiltà”), Merida va per la sua strada, rivelandosi essere da un lato un’eterna outsider e dall’altro un’inconsapevole pioniera, anticipando Frozen su diversi punti.

Si tratta del primo film Pixar co-diretto da una donna (Brenda Chapman), la cui storia e la cui protagonista introducono alcuni elementi fondamentali che saranno ripresi dalle fiabe e dalle principesse successive.

Il primo punto è l’enfasi sui rapporti famigliari, soprattutto quelli fra donne, per tratteggiare i quali Brenda Chapman prima e Jennifer Lee poi attingeranno alle proprie esperienze personali. In questo caso abbiamo una madre e una figlia: il personaggio di Elinor ha la funzione di riabilitare la figura della Regina Cattiva, che qui non è matrigna, ma madre biologica, e soprattutto non è “cattiva”, ma è una donna complessa che deve cercare di comprendere e farsi comprendere da Merida.

Con la propria storia, Merida pone definitivamente fine alla questione dei matrimoni forzati, un tòpos molto presente nel Rinascimento Disney, per cui alla base delle successive tensioni famigliari non ci sarà più il desiderio amoroso, e quindi la ricerca e l’affermazione del Vero Amore (non accettato dai genitori e/o dalla società in cui vivono), ma altro.

Merida è la prima principessa a restare single e la mancanza del lieto fine romantico farà scuola, caratterizzando le successive Elsa (Frozen, Frozen II), Vaiana (Oceania) e Raya (Raya e l’ultimo drago), ma anche non-principesse come Judy (Zootropolis), Mirabel, Isabela e Luisa (Encanto).

Anche l’ampio spazio riservato alla componente famigliare farà scuola, tornando (fra gli altri) in Encanto e Strange World, con minacce spesso legate ai rapporti fra persone (come in Ralph Spaccainternet, Raya e l’ultimo drago e il pixariano Red) che prendono il posto dei villain effettivi dopo una breve fase di villain a sorpresa (Ralph Spaccatutto, Frozen, Zootropolis).

In ultimo, Merida non appare bella nel senso convenzionale del termine. Non è il caso di scomodare il realismo, visto che il suo aspetto è assolutamente cartoonesco, ma di certo questa principessa risulta essere meno idealizzata rispetto alle precedenti a livello di design, ma anche di atteggiamento, facendo strada all’ordinarietà di figure come Mirabel di Encanto. Tuttavia, resta da chiedersi quanto il pubblico infantile possa aver davvero accolto un tale modello estetico, considerando che Mirabel è stata nettamente battuta da Isabela nella vendita di bambole e altri oggetti a tema, così come Merida è stata stra-battuta da Elsa di Frozen su qualunque fronte commerciale, dal botteghino all’home video, passando per il merchandise.

In conclusione, con Brave inizia ufficialmente un nuovo corso di cui Rapunzel ha posto alcune fondamenta a livello di tono e di approccio alla fiaba, ma che sarà fortemente influenzato da questo film e dal successivo.
A differenza di Frozen, tuttavia, Brave non riscuoterà un successo travolgente: fra i motivi c’è forse il fatto che la promozione del film sembrasse puntare su Merida come “maschiaccio”, un elemento marginale rispetto al rapporto madre-figlia che dà corpo al film. Inoltre, la parte di pubblico che si aspettava una “principessa guerriera” (nel senso più letterale e stereotipato del termine) è rimasta delusa da quella che è essenzialmente una storia disneyana classica, incentrata sui contrasti generazionali, e da una principessa che insegue lo stesso ideale di libertà delle sue precorritrici, pur slegandolo dal sogno romantico.

Inoltre, l’approccio disincantato con cui è stata trattata la relazione fra Merida e la madre, nonché la caratterizzazione della stessa principessa, è stato un’arma a doppio taglio. Se prendiamo in ballo La Sirenetta, notiamo come molti adulti oggi si ritrovino a simpatizzare con Re Tritone, ma allo stesso tempo la luce negli occhi di Ariel attiva una componente irrazionale per cui risulta difficile per chiunque non tifare almeno un po’ per la sirenetta, a qualsiasi età. Al contrario, il grande pubblico ha faticato a empatizzare con questa nuova principessa: si può discutere su quanto possa aver influito la complessità del rapporto con Elinor (Merida distrugge l’arazzo della madre così come Tritone aveva distrutto la collezione di Ariel: ci vuole un attimo a passare dalla parte del torto) o la mancanza di una vera e propria I Want Song, sostituita dalla poco convincente I Touch The Sky. Nonostante tutto, Merida è comunque riuscita a costruirsi una propria nicchia di fan anche in virtù della sua natura di anomala pioniera ed eterna intrusa nel canone disneyano, a cui pur attinge a piene mani.

Not Like Other Princesses

Sul web, fra la fine degli anni ’00 e l’inizio degli anni ’10, proliferano meme che mettono nero su bianco una differenza percepita fra due categorie di ragazze: quelle “normali” e quelle che “non sono come le altre”.
Nasce il concetto di “I’m not like other girls“, secondo cui le “altre ragazze” sono superficiali e ossessionate dal proprio aspetto, mentre la ragazza che parla in prima persona è più alla mano, si veste casual e non è sempre perfetta, indossa poco trucco, mangia voracemente, ama hobby considerati ‘maschili’, come sport e videogames. Per fortuna, oggi stiamo superando questa dicotomia, veicolo di misoginia interiorizzata, per cui le uniche ragazze degne di rispetto (anche da parte dei ragazzi) sono quelle che si comportano “come un ragazzo”.
Nel 2012, però, questo concetto era più vivo che mai, andando a influenzare la percezione della fiaba PIxar di quell’anno, Brave. La promozione del film, e ancor più la ricezione dello stesso sui social, enfatizza il messaggio: Merida non è come le altre principesse!

«Una principessa non ride a quel modo e non si ingozza; si sveglia presto, è compassionevole, paziente, cauta, pulita e, soprattutto, una principessa mira alla perfezione».
La descrizione fornita da Elinor rappresenta la quintessenza di ciò che la principessa Disney, nella sua conformazione più classica, rappresenta nell’immaginario collettivo. Un ideale a cui Merida sembra opporsi strenuamente. Questo aspetto del personaggio è stato tuttavia ingigantito e di fatto traviato dalla stampa e dal pubblico a ridosso dell’uscita del film, dipingendo Merida come l‘anti-principessa.

In effetti, Merida non è una “perfettina”, ha un atteggiamento e un aspetto scomposto (a partire dai capelli), meno idealizzato rispetto alle sue precorritrici. Tira con l’arco (come i maschi!), rifiuta un matrimonio combinato e gareggia per la propria mano.

A onor del vero, la sua caratterizzazione include diversi tratti già presenti nelle principesse del Rinascimento (esuberanza, ribellione nei confronti dei genitori e di un matrimonio forzato), ma la superficie vagamente tomboy del personaggio basta per far inneggiare ad una rivoluzione che passa purtroppo per il confronto con le sue precorritrici, culminando in una voragine di misoginia per cui Merida viene considerata migliore delle altre perché è un ‘maschiaccio’, non si mette con un uomo e via dicendo, come se esistesse solo un modo giusto di essere donna (o principessa).

Come spiega a Indiewire la co-regista Brenda Chapman, vera ideatrice della storia, Merida è a proprio agio con l’essere una principessa e con l’essere una ragazza, non era mai stata sua intenzione dipingerla come un ‘maschiaccio’ o come una ‘donna tosta’, in inglese ‘badass woman‘, tanto che si ritrova ad alzare gli occhi al cielo quando l’intervistatrice tira in ballo questo termine. “Merida era una ragazza atletica che aveva aspirazioni diverse dal semplice sposarsi, ma non l’ho mai vista come una principessa guerriera”, dichiara Chapman, suggerendo che il pericolo è quello di creare uno stereotipo opposto a quello della damigella in pericolo, ma altrettanto limitante: “È fantastico avere delle supereroine, ma possiamo avere più storie che non si incentrino su quello? Possiamo avere più storie raccontate da una prospettiva femminile, che mostrino alle donne che è ok essere tutto ciò che le donne sono?”.
Nonostante Chapman sia stata allontanata dal progetto nel 2010, a causa di divergenze con John Lasseter, la sua visione trova in qualche modo riscontro anche nel prodotto finito, in barba a come è stato pubblicizzato.
Il lieto fine promuove un rapporto di pacifica convivenza fra diversi tipi di femminilità, con un possibile riferimento al contrasto fra il post-femminismo (con l’enfasi sul matrimonio come fine ultimo di ogni donna) e la nascente Quarta Ondata femminista, a simboleggiare quel passaggio di testimone che stava avendo luogo proprio nel 2012.

La riconciliazione fra Merida e la madre Elinor promuove comunque una coesistenza fra diversi tipi di femminilità e un rapporto di solidarietà non solo fra generazioni diverse, ma fra donne diverse. Alla fine del film, madre e figlia hanno imparato a venirsi incontro, ad ascoltarsi e a comprendersi a vicenda. Le vediamo mentre passano più tempo insieme, unendo le passioni dell’una (cucire) a quelle dell’altra (cavalcare), in una celebrazione delle reciproche differenze.

Frozen (2013)

Quarta Ondata

Nel 2013 esce Frozen, un film che, almeno a un primo sguardo, sembra riprendere esattamente da dove Rapunzel e Brave si erano fermati. Anche qui abbiamo un aggettivo a far da titolo a una fiaba raccontata con un approccio contemporaneo e incentrata su un viaggio, come Rapunzel.
Torna l’enfasi sui rapporti famigliari fra donne, come in Brave, e anche qui abbiamo per la prima volta un film co-diretto da una donna, Jennifer Lee, che è anche l’autrice della sceneggiatura, e che come Brenda Chapman si è ispirata al suo vissuto, nello specifico al rapporto con la sorella maggiore, per caratterizzare il legame fra Elsa e Anna.

Le difficoltà nell’adattare La regina delle nevi di Hans Christian Andersen, insorte fin dai tempi in cui Walt Disney era in vita, trovano una risoluzione proprio nell’intuizione di rappresentare la protagonista (Anna) e l’antagonista (Elsa) come sorelle. Il personaggio di Elsa muta ulteriormente e definitivamente a seguito della scrittura del brano Let It Go, riconfigurandosi non più come una semplice “cattiva”, ma come una ragazza incompresa, insicura e impaurita, che desidera solo lasciarsi andare e trovare un po’ di pace.

Il personaggio di Anna nasce invece sulla scia del successo di Rapunzel, con cui ha diversi tratti in comune: ingenua, sognante e di buon cuore, ma anche più buffa, goffa e imbranata della bionda principessa che l’ha preceduta, tanto che diventa più spesso oggetto di gag che la fanno apparire ridicola (come quando la vediamo nel dormiveglia), nel disperato tentativo di apparire relatable.

Tuttavia, quando si parla di Frozen è Elsa la figura più significativa, quella che non a caso ha riscosso maggiore successo, e che appare ben più composta e idealizzata.

L’intento del film è quello di sovvertire sia l’immagine della tipica Regina Cattiva/strega disneyana, sia il concetto di Vero Amore, che fino a quel momento risultava legato esclusivamente all’amore romantico. Infatti sarà proprio il rapporto con Anna a spingere Elsa a riprendere il controllo del suo potere e della sua vita, riportando la primavera nel Regno, così come sarà l’amore fra le due sorelle a sciogliere l’incantesimo che ha trasformato Anna in una statua di ghiaccio.

Tuttavia, pur riconoscendo e apprezzando le innovazioni apportate da questa fiaba nel canone disneyano (benché la figura di Elsa e il rapporto con Anna siano certamente debitori a Wicked), non si può nascondere il fatto che Frozen abbia diversi problemi. Il film sembra talmente interessato a sovvertire tutto il sovvertibile da dimenticarsi di colmare diverse falle a livello di sceneggiatura e caratterizzazione dei personaggi e delle loro relazioni. Il risultato sono risvolti maldestri e discutibili, come l’inverosimile rivelazione del principe Hans come cattivo della storia (e il pugno che Anna gli tira sul finale), o frecciatine gratuite, didascaliche e superficiali, come quella di Elsa in relazione alle tempistiche dell’innamoramento.

I risultati più deleteri dello spropositato successo di Frozen sono da ricercarsi nella ricezione dello stesso, che già al tempo si era propagato attraverso i social, con Elsa che veniva contrapposta alle altre principesse ancor più della precedente Merida. L’elogio di Elsa come “donna forte” è il frutto di un giudizio superficiale non solo nei confronti delle precedenti principesse e del concetto di “forza”, ma anche in relazione a ciò che il film effettivamente mostra, ossia una figura femminile che più che “forte” (nel senso più stereotipato del termine) appare vulnerabile, e che dovrebbe risultare interessante proprio in virtù di questo. Allo stesso modo, anche il fatto di pensare che Elsa sia meglio delle altre perché non si innamora a prima vista (o meglio non si innamora affatto) è una dimostrazione di superficialità.

Inoltre, l’impatto pionieristico del film avrebbe bisogno di essere ridimensionato, dopo anni in cui pubblico e critica l’hanno ingigantito a dismisura.
Ad esempio, la prima principessa a rimanere single non è stata Elsa, ma Merida, anche se è opportuno notare come in Frozen, a differenza di Brave, non ci sia neanche una singola menzione all’obbligo di maritarsi (tanto che Elsa sale al trono da nubile), e questo farà scuola nei film successivi.
Ad essere elogiato oltremodo è anche il legame fra Elsa e Anna (anche se non viene mai realmente approfondito): è vero che nei Classici Disney non ci vengono quasi mai presentati rapporti di amicizia fra ragazze coetanee, ma affermare che Frozen sia stato il primo film a raccontare l’amore fra sorelle significa ignorare l’esistenza e l’importanza di Lilo & Stitch (2002), benché questo presentasse due sorelle, Lilo e Nani, con età molto differenti.

Con Frozen, l’era Revival raggiunge il suo picco massimo a livello di successo, tanto che il Classico Disney in questione diventa il film d’animazione con maggiore incasso nella storia del cinema (per poi essere superato solo dal suo stesso sequel), oltre a ricevere premi, far vendere merchandise a palate e scolpirsi nell’immaginario collettivo dei primi anni Dieci.
Se Rapunzel è l’equivalente di ciò che è stata La Sirenetta per il Rinascimento Disney, avendo la funzione di riaccendere la fiaccola della speranza in uno studio d’animazione ormai alla deriva, Frozen può essere visto come il nuovo Il Re Leone, ma senza avere la sua stessa solidità artistica e narrativa.

È un momento di grande splendore, in cui la Disney raggiunge il picco massimo di consensi, ma è anche un momento buio, in cui la Disney sacrifica definitivamente il sapiente equilibrio che aveva dato vita a Come d’incanto per venire incontro a un pubblico sempre più pigro con espedienti sempre più goffi. Quella scintilla accesa da Shrek si è ormai trasformata in una fiamma in grado di travolgere la tradizione cinematografica disneyana, ma questa volta il timone non è in mano a uno studio concorrente.

Da questo momento in poi, la Disney comincia a prendersi a pizze in faccia da sola, sputando sulla propria tradizione (e sul piatto in cui ancora mangia), pur di inseguire uno spettatore che si ferma in superficie, al significato più letterale della narrazione. Il confine fra l’incarnare lo spirito dei tempi e il sottomettersi ai capricci degli utenti sui social diventa sempre più labile. E così cominciamo a chiederci se questa nuova magia Disney non sia solo un trucco, un gioco di prestigio ideato per compiacere un pubblico con cui porsi in modo servile, come Elsa che – nella scena finale del film – riduce i suoi poteri a fonte di intrattenimento per il suo popolo.
È una nave che si muove come una zattera, influenzata dai venti che corrono, incurante del proprio glorioso passato. Chi ha davvero il timone in mano, allora?

Tumblr feminism e Problematic Faves

I primi anni Dieci hanno visto il sorgere di una nuova Ondata Femminista, la Quarta, che ha trovato nei social media una cassa di risonanza dopo decenni di post-femminismo. In questo contesto, Tumblr può essere visto come l’equivalente social delle fanzine delle riot grrrl di inizio anni Novanta (Terza Ondata), ossia un luogo di incontro e discussione fra quelle giovani donne che ricominciano a definirsi “femministe”. Tumblr permette alle ragazze adolescenti o poco più che ventenni di esprimersi, confrontandosi sulle disuguaglianze di genere che incontrano nella vita di tutti i giorni, sulla natura costrittiva degli ideali di bellezza perpetuati dalla società (e dagli stessi social) e molto altro.

Tuttavia, come spesso accade negli ambienti virtuali, i luoghi d’incontro su Tumblr potevano facilmente essere pervasi da un clima tossico, generalmente instaurato dalle utenti percepite come “autorità”, che tendevano a zittire in modo aggressivo chi aveva un pensiero diverso dal loro, convinte di aver ragione a prescindere e quindi di non doversi sforzare a capire o fornire ulteriori spiegazioni.

In contrasto con la natura (anche troppo) liberale del post-femminismo, la nuova Ondata tende a promuovere sui social un femminismo che ragiona in un’ottica di bianco o nero, ignorando le sfumature.
Su Tumblr, i concetti base del femminismo vengono estremamente semplificati, quasi banalizzati, ridotti ad un manicheismo che ammette solo un certo modo di essere femminista.

Il fenomeno è talmente diffuso che nasce il termine ‘tumblr feminism‘ per riferirsi all’approccio semplicistico con cui queste ragazze rielaborano i principi base della lotta femminista.
Una voce di Urban Dictionary del marzo 2014 (qualche mese dopo l’uscita di Frozen) sostiene ironicamente che “un altro dei sintomi del tumblr feminism è che, quando gli si chiede di spiegare le loro posizioni, le pazienti se ne vanno via infuriate anziché rispondere alla domanda”. E ancora: “Dato che crede nel tumblr feminism, è contraria a qualsiasi forma di umiliazione. A meno che, ovviamente, non si tratti di umiliare qualcuno che la pensa diversamente da lei”. Ora, non dobbiamo prendere sul serio queste definizioni, ma la percezione esterna di ciò che è stato il fenomeno del tumblr feminism conserva un fondo di verità, come ammesso dalle stesse ‘femministe di Tumblr’ a quasi dieci anni di distanza. “Essendo teenager, eravamo spesso molto cattive le une con le altre, soprattutto se qualcuna diceva qualcosa che strideva con la nostra visione del mondo in quel momento. In più, sempre essendo teenager, avevamo la capacità di essere incredibilmente egocentriche”, scrive Alice Corner su Medium.
Insomma, il volto virtuale del tumblr feminism erano ragazzine che si spacciavano per autorità sulla questione, ma che in realtà stavano ancora imparando.

Sempre su Tumblr, nel 2013, debutta il blog Your fave is problematic, che dà vita a una nuova tendenza che spesso volgerà lo sguardo al passato, a personaggi pubblici o di finzione, per metterne retroattivamente in luce gli aspetti che appaiono ‘problematici’ attraverso una lente contemporanea.
Si tratta di un’operazione che da un lato ha il merito di evidenziare comportamenti razzisti o sessisti un tempo passati inosservati, ma dall’altro dimostra una scarsa sensibilità nei confronti del contesto storico-sociale in cui determinati personaggi hanno vissuto o sono stati concepiti, peccando spesso di inaccuratezza e superficialità, come nel caso delle polemiche rivolte alle principesse Disney.

Frozen esce proprio in questo clima, raccogliendo gli strali di una fervente crociata online nei confronti delle principesse Disney precedenti, una battaglia che assume i tratti di un’amnesia collettiva in relazione ai meriti delle stesse. Questo discorso ci riporta alla scena in cui Elsa pronuncia la sua celebre frase “Non puoi sposare un uomo che conosci appena“, che ha ispirato un famoso meme volto a valorizzare la sua figura a discapito di quella delle precedenti principesse solo in virtù del fatto che queste ultime si innamorino a prima vista.

“You can’t marry a man you just met” è la risposta secca di chi si crede superiore, ma che finisce per banalizzare questioni complesse (dai tòpoi delle fiabe alla tragica realtà dei matrimoni forzati), promuovendo una visione del mondo senza sfumature, per cui l’amore a prima vista è sempre e comunque negativo, anche quando è calato all’interno di una storia che rimanda a un significato più profondo. Una dimostrazione di superficialità, nonché di insofferenza nei confronti di realtà diverse dalla propria, senza preoccuparsi di contestualizzarle.
Il film mette bene in chiaro il fatto che Anna stia sbagliando a fidarsi di Hans, ma la reazione di Elsa accende i riflettori sul suo errore (demonizzando la sua scelta) anziché venirle incontro, cercando di capirla e di farle capire dove sbaglia.
L’uscita di Elsa incarna il lato peggiore del tumblr feminism, quello che mostra un’aggressiva insofferenza nei confronti dei pensieri e delle problematiche di donne diverse, magari in difficoltà, che avrebbero bisogno di un confronto più pacato e costruttivo.

Oceania (2016)

Fra nuovi orizzonti e antiche certezze

Nel 2016, l’uscita di Oceania (Moana) costituisce un importante momento di incontro fra passato, presente e futuro. Questo film rappresenta il punto in cui l’inizio coincide con la fine, incarnando diverse “ultime volte”, ma anche “prime volte”.

Innanzitutto, è il film dell’addio di Musker & Clements, la coppia di registi che con La Sirenetta aveva dato inizio al Rinascimento e con La principessa e il ranocchio aveva dato inizio al Revival, ma è anche il loro primo (e ultimo) film realizzato in computer grafica.

Oceania è anche l’ultimo Classico Disney uscito durante il periodo in cui John Lasseter è stato il direttore creativo dei Walt Disney Animation Studios, quindi si può dire che sia a tutti gli effetti l’ultimo film dell’era qui analizzata. Con il Revival, la tradizione del musical fiabesco disneyano è tornata a risplendere dopo che per anni era stata accantonata dagli stessi studios: su questo punto possiamo certamente ricollegarci all’antica pratica della navigazione, abbandonata e “dimenticata” dal popolo di Motunui a causa dei suoi pericoli, e ripresa in mano proprio da Vaiana.

La storia di Oceania è profondamente classica.
Lo è in senso disneyano, con la I Want Song (How Far I’ll Go, che fa un po’ pensare a Part Of Your World de La Sirenetta) che porta l’eroina a esplorare un nuovo mondo, spinta dalla sua nonna-mentore (Nonna Tala, che ricorda un po’ Nonna Salice di Pocahontas), e contrastata dal padre, ma lo è anche in senso più ampio: la struttura del viaggio ha alimentato miti e leggende fin dall’alba dei tempi, anche se spesso a compiere tale viaggio erano eroi maschili.

Un viaggio era già stato al centro de La principessa e il ranocchio, Rapunzel e Frozen, ma la narrazione di Oceania assume tratti mitologici più che fiabeschi, presentando un vero e proprio “viaggio dell’eroina”, con la principessa che parte per salvare il proprio popolo e poi finisce per trovare anche sé stessa, una tematica classica che tornerà in Frozen II e Raya e l’ultimo drago, ma che in fondo era già presente in Mulan.

Oceania è, inoltre, il primo film delle principesse Disney in cui non è presente alcun interesse romantico.
Questo non significa, tuttavia, che manchino dinamiche uomo-donna, anzi: il rapporto fra la protagonista Vaiana e il semi-dio Maui non si discosta molto da quanto visto in Rapunzel e in Zootropolis, in cui la spavalderia della parte maschile sembra prevalere su quella femminile, salvo poi venire ridimensionata da quest’ultima, contro ogni previsione.
Come nei due film citati, anche in Oceania la dinamica di genere che la Disney presenta risulta ambigua: ci viene mostrato che il maschio è dalla parte del torto, ma le sue prevaricazioni sono connotate come gag.
Maui, così come Flynn Ryder e Nick Wilde, appare irrimediabilmente come un “figo”, strizzando l’occhio ai maschietti, anche per il modo in cui inizialmente tratta Vaiana. Quest’ultima troverà, comunque, il modo di reagire, anche grazie alla propria intelligenza.

Il contrasto fra Vaiana e Maui, nonostante gli aspetti potenzialmente problematici, funziona e porta avanti il film, ma il fulcro emotivo della storia poggia soprattutto sulla protagonista in relazione con sé stessa e con la sua famiglia, nonché sull’equilibrio fra terraferma e oceano, sogni e responsabilità, nuove scoperte e antiche certezze.

Diverse delle battute di Maui sono pervase da quell’estenuante meta-umorismo tipico dei Classici del Revival, come quando asserisce che Vaiana è una principessa perché ha un vestito e un animaletto da compagnia, o quando ha la sensazione che Vaiana stia per lanciarsi in un numero musicale e allora premette: “Se cominci a cantare, giuro che vomito”.
La stessa Vaiana diventa oggetto di gag che la ridicolizzano, come successo ad Anna di Frozen, nel tentativo di renderla più relatable.
Inoltre, pur presentando una bellezza più convenzionale rispetto a Merida di Brave o a Mirabel di Encanto, Vaiana presenta un fisico meno idealizzato rispetto alle principesse che l’hanno preceduta, instaurando un nuovo standard. Occorre ricordare, però, come anche in questo caso Lilo & Stitch abbia fornito un precedente nel fisico di Nani, che rispecchia gli ideali di bellezza hawaiiani.

Al netto di certi scivoloni, di un senso dell’umorismo spesso opinabile e di una struttura episodica costellata da incontri poco memorabili, Oceania riesce comunque a fare centro con una storia semplice ed eterna, una protagonista con cui è semplice empatizzare e una colonna sonora incisiva. Pur essendo oppresso da una corazza di prosaica contemporaneità, il cuore del film batte ancora, riportando alla magia delle narrazioni più classiche.

Se Vaiana canta di una linea in cui “il cielo incontra il mare”, il film mira a raggiungere una linea invisibile fra la tradizione, basandosi quindi sul know-how di veterani come Eric Goldberg (che ha animato in 2d i tatuaggi di Maui), e la possibilità di aprirsi a nuovi orizzonti, non solo a livello strettamente narrativo ed estetico, ma anche musicale, con il primo contributo di Lin-Manuel Miranda su un Classico Disney.
Il musicista, che a 9 anni era rimasto folgorato dalle note di In fondo al mar, dà vita a brani memorabili proprio in occasione del commiato dei registi de La Sirenetta, i già citati Musker & Clements (e nel 2023 scriverà quattro nuove canzoni per il remake in live action del Classico del 1989): si chiude un cerchio.

Come suggerisce il brano We Know The Way, il film si poggia su antiche certezze, abbracciando l’identità disneyana (“Il nostro popolo ha la sua identità, noi tutti sappiamo chi siamo”), onorando i grandi artisti del passato e tramandando la loro eredità (“We tell the stories of our elders in a never-ending chain”), ma anche volgendo lo sguardo a nuove scoperte.

Allo stesso modo, chi guarda con affetto e nostalgia al Rinascimento Disney percepirà qualche eco di Ariel nel personaggio di Vaiana, che canta dei suoi sogni di esplorazione con altrettanto ardore in How far I’ll go, ma questa nuova eroina guarda anche al futuro, anticipando la graduale riconnotazione della principessa Disney come “leader” del proprio popolo anche a livello politico-amministrativo.
L’orizzonte sembra promettente, ma la Disney Animation degli anni successivi soffrirà dell’acerba dirigenza di Jennifer Lee, che prenderà il posto di Lasseter nel 2018, dando inizio a un nuovo periodo di incertezze e buchi nell’acqua.
Forse ci vorranno un’altra principessa e un altro viaggio per riportare la Disney ai tempi in cui solcava i mari in tutta la sua gloria…
Un viaggio è finito, ma un altro viaggio, forse, sta per cominciare.

Donald Trump e il #MeToo

Oceania esce a fine 2016, nello stesso mese in cui Donald Trump viene eletto presidente degli Stati Uniti. Le sue posizioni conservatrici e le sue dichiarazioni sessiste, oltre che razziste, non fanno altro che rafforzare il fervente attivismo (online e offline) in fatto di diritti delle donne, delle persone di colore e della comunità LGBT+, che si stava riaccendendo dopo decenni di post-femminismo. Appena un mese prima era girato su internet un video privato in cui Trump affermava che, quando sei un uomo importante, ricco e famoso, le donne ti lasciano fare qualunque cosa, puoi perfino “afferrarle per la fica” (“grab them by the pussy”).

Nel 2016 sono usciti due Classici Disney che hanno fatto indirettamente i conti con le dinamiche sociali legate all’elezione di Trump: Zootropolis l’ha fatto dal punto di vista delle tensioni razziali, ma qui parliamo naturalmente di Oceania.
In questo film troviamo un esempio di mascolinità tossica nel semidio Maui, presuntuoso e arrogante.
Il suo complesso di superiorità – che nasconde una profonda fragilità – trae le radici dal potere divino, ma anche dalla stazza e dalla forza fisica. Da questo punto di vista, il contrasto con la protagonista (Vaiana) appare evidente, tanto che inizialmente questa relazione appare sbilanciata, con lui che la prende di forza, la sposta, la butta in mare senza alcun riguardo.
L’approccio violento e prevaricatore insito nel concetto di “grab them by the pussy” non è molto lontano dal modo in cui Maui dispone del corpo di Vaiana nel film: in entrambi i casi si tratta di uomini a cui tutto è sempre stato concesso; uomini che non hanno mai dovuto chiedere scusa e che in qualche modo, pur dovendo pagare qualche scotto, l’hanno sempre fatta franca.
Vaiana riuscirà gradualmente a farsi rispettare, non solo con la forza. La sua resistenza può essere letta come un invito a reagire di fronte a qualunque tipo di prevaricazione maschile.

Sul finale, Maui deve chiedere scusa alla Dea Te Fiti per le sue malefatte, a lungo lasciate impunite. La risoluzione del conflitto suggerisce che per costruire un mondo equo si debba prima ammettere e rimediare agli errori del patriarcato. In questa nuova cornice, Vaiana si sente a proprio agio nel prendere il potere, che passa di padre in figlia.

Ebbene, la storia di Oceania, con Maui che si ritrova a dover fare ammenda per i suoi torti passati, si riflette curiosamente in una delle manifestazioni di resistenza alle dichiarazioni sessiste del nuovo presidente, ossia la nascita del movimento Me Too, che trae le proprie radici dalla rabbia nei confronti di un atteggiamento che caratterizza Trump, certo, ma anche molti altri uomini potenti (in fondo anche Maui, in quanto semi-Dio, può essere collocato fra questi) che abusano di tale potere per ottenere favori sessuali e compiere molestie sul posto di lavoro, facendola sempre franca.

Nel 2017, a meno di un anno dall’uscita del film, scoppia il Caso Harvey Weinstein: il noto produttore cinematografico statunitense è pubblicamente accusato di molestie e aggressioni sessuali nei confronti di una dozzina di donne. Arriva il momento della verità per Weinstein e per tutti quegli uomini che per lungo tempo hanno potuto fare i loro porci comodi, essendo protetti dalla società patriarcale. Utilizzando l’hashtag #MeToo, lanciato dall’attrice Alyssa Milano (che nel 1989 era stata di ispirazione per Ariel), numerose donne rivelano di aver ricevuto molestie sul posto di lavoro, non solo nell’ambiente hollywoodiano. Per ironia della sorte, anche lo stesso John Lasseter, il direttore creativo che aveva dato vita ai film di cui abbiamo parlato in quest’analisi, viene allontanato dalla Disney proprio sulla scia di questo movimento. L’era Revival finisce insieme a lui, ma il risultato è (si auspica) un ambiente di lavoro più sicuro per tutte/i ai Walt Disney Animation Studios. A prendere le redini è una donna: assistiamo dunque a un passaggio di potere da una figura maschile più anziana a una femminile più giovane, come fra Vaiana e suo padre, ma la fortunata erede, Jennifer Lee, sceneggiatrice e co-regista di Frozen e Frozen II, deve ancora dimostrare il proprio (eventuale) valore come leader, tanto che gli studios, dopo gli exploit del 2009-2016, sembrano diretti verso un’era più nebulosa.

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