“Storicamente, il culto delle principesse è emerso durante periodi di incertezza e profondi cambiamenti sociali”, spiega la storica Miriam Forman-Brunell.
Nel 2006, la giornalista Peggy Oreinstein prende in prestito le sue parole per riflettere sulla princess mania che in quegli anni ha contagiato sua figlia e milioni di altre bambine negli Stati Uniti e nel mondo. L’ipotesi è che non sia un caso che questo nuovo culto delle principesse sia sorto dopo l’attentato dell’11 settembre 2001, come risposta a un nuovo, pericoloso mondo.

Il sequel di "Pretty Princess" (2001), ossia "Principe azzurro cercasi" (2004), fa i conti con la mania per le principesse (Disney e non) negli anni '00.

In Principe azzurro cercasi, sequel di Pretty Princess, vediamo un gruppo di bambine che assistono alla parata della principessa Mia, e che poi vengono invitate da quest’ultima a prenderne parte. “Ti piacerebbe essere una principessa oggi? […] Dichiaro ufficialmente che oggi chiunque può essere una principessa. […] Per essere una principessa devi credere di esserlo. […] Ricordati semplicemente che sei una principessa”: le frasi che Mia rivolge a Carolina e alle altre orfanelle rievocano il motto de La piccola principessa (1995), di cui ho scritto qui: la protagonista – che resta orfana (nel romanzo) e cade in disgrazia – afferma che chiunque può essere una principessa se ci crede veramente.
Si tratta di un concetto simile a quello che sta alla base del franchise Disney Princess, nato nel 2000 per soddisfare la crescente domanda di abiti da principessa per le piccole clienti.
Principe azzurro cercasi esce nel 2004, nel pieno della princess mania, e infatti la stessa Mia compra una coroncina per ognuna delle bambine presenti (e anche per i bambini).
Notiamo che anche il finale di Come d’incanto (2007) rimanda a questo discorso, con la principessa Giselle che apre un marchio di abiti da principessa, e viene letteralmente accerchiata da tante piccole principesse in costume: ne ho parlato nell’analisi del film.

Anche "Come d'incanto" (2007) fa riferimento al franchise delle principesse Disney (Disney Princess).

E proprio nel 2001 assistiamo alla genesi di due filoni di film incentrati sulle principesse: da un lato la serie di lungometraggi animati di Barbie, pensata per un pubblico infantile e inaugurata da Barbie e lo schiaccianoci (ne ho parlato qui), e dall’altro una serie di film in live action, rivolta prevalentemente a un pubblico femminile tween (8-12 anni) e teen (13-18), e inaugurata da Pretty Princess (The Princess Diaries).

Notare la somiglianza fra la locandina di Pretty Princess e quella di Un principe tutto mio: le due ‘principesse’ siedono scomposte sul trono. La posa di Paige (Julia Stiles) nella seconda evoca un’insofferenza che ritroviamo nella posa di Carter (Selena Gomez) nella locandina di Programma protezione principesse (2009).

Nel 2004 escono ben quattro film a tema: A Cinderella Story, Un principe tutto mio (The Prince & Me), Ella Enchanted (Il magico mondo di Ella) e il sequel dello stesso Pretty Princess, che in Italia è stato ribattezzato Principe azzurro cercasi. Fra questi, Ella è fuori posto perché si colloca in un mondo fiabesco (simil-Shrek), mentre gli altri sono tutti ambientati in contesti contemporanei: se Un principe tutto mio (che avrà tre sequel direct-to-video) e i due film di Pretty Princess hanno a che fare con effettive monarchie in un contesto pseudo-realistico, A Cinderella Story, che inaugura un franchise composto da altri cinque film direct-to-video, trasferisce gli elementi della fiaba ai giorni nostri, filtrandoli attraverso una lente simbolico-metaforica, per cui la protagonista (Sam) non è di sangue reale, non vive in un castello e via dicendo, ma ricopre effettivamente il ruolo della ‘principessa’ nell’economia della storia.
Sulla scia di A Cinderella Story si porrà poi Sydney White (2007), che riprende gli elementi di Biancaneve anziché di Cenerentola, in un’ambientazione universitaria anziché liceale.
Programma Protezione Principesse (2009) chiude il cerchio unendo, per certi versi, le due sottocategorie: in un contesto contemporaneo, la principessa Rosalinda proviene da una vera famiglia reale, mentre Carter è una ragazza comune che entra in contatto con la sua ‘principessa interiore’.

La locandina di "Una ragazza e il suo sogno" ("What A Girl Wants), teen movie del 2003 con Amanda Bynes. Un altro tipo di principessa teen degli anni duemila.
La locandina di Una ragazza e il suo sogno (2003) è molto simile a quella di Un principe tutto mio (2004) e rimanda anche a quella di Pretty princess per la posa scomposta della ‘principessa’.

Come nota a piè di pagina, facciamo un breve accenno a un filone di film degli anni ’00 con ‘principesse’ teenager in senso lato: si tratta di casi in cui la protagonista non è una principessa effettiva (come Mia di Pretty Princess), né riflette direttamente la figura di una principessa delle fiabe (come Sam di A Cinderella Story), ma il parallelismo con la principessa è comunque presente perché si tratta di figlie di personalità che nel mondo contemporaneo detengono potere al pari di un Re: politici importanti, addirittura il presidente degli Stati Uniti…
In questa sede non tratteremo i film di codesto filone, ma citiamo velocemente i più rilevanti, notando come gli anni d’uscita coincidano, non a caso, con il boom dei teen movie a tema principesse.
Una ragazza e il suo sogno (What A Girl Wants, 2003) è il più simile ai film di cui parleremo in quest’analisi: la protagonista Daphne scopre, a 17 anni, di essere la figlia di un politico britannico di origini aristocratiche, Lord Henry Dashwood.
Come Mia di Pretty Princess, quindi, Daphne vive con la madre e non sa quasi nulla del padre, la cui prestigiosa famiglia non vede di buon’occhio il fatto che l’uomo abbia sposato una ‘popolana’. Un bel giorno, Daphne scopre chi è suo padre e questa rivelazione cambia per sempre la sua vita. Come Mia, Daphne si adatta al nuovo ambiente con qualche difficoltà, ma restando sempre sé stessa. A differenza di Mia, Daphne non va incontro a un vero e proprio restyling, anzi trionfa proprio per la sua individualità e “americanità” (che spicca in un contesto britannico).
Inoltre, questo film potrebbe ricollegarsi anche a A Cinderella Story in quanto la storia di Cenerentola viene più volte evocata nel corso del film, con la protagonista che si autoidentifica in lei, specie in contrasto con la sorellastra cattiva, che definisce evil queen (Regina cattiva), rimandando a Biancaneve.
Altri due film di questo filone, usciti nel 2004, sono Amori in corsa (Chasing Liberty) e Una teenager alla casa bianca (First Daughter), che però rimandano più che altro a Vacanze romane perché si tratta di ‘principesse’ in cerca di libertà.

Il presente articolo intende fare il punto sugli elementi principali di questo filone di teen movie e sull’immagine di principessa ‘moderna’ che restituiscono. Un’immagine che sicuramente deve molto a Pretty Woman (ne ho parlato qui) – il cui regista, Garry Marshall, ha diretto non a caso anche Pretty Princess e relativo sequel –, ma naturalmente in versione edulcorata, visto il target a cui si rivolgono.
Da non sottovalutare anche l’ancestrale influenza di Vacanze romane (ne ho parlato qui), il film che nel 1953 ha imposto una nuova immagine della principessa come giovane ribelle in cui le adolescenti dell’epoca potevano rivedersi, mettendo in luce anche un lato più imbranato, umano e dunque relatable: in questo senso Mia di Pretty Princess, interpretata da Anne Hathaway, deve sicuramente qualcosa alla principessa Anna, interpretata da Audrey Hepburn, anche nella decisione finale di accettare le proprie responsabilità regali.

L’immagine della principessa moderna concilia una serie di elementi che appartengono da un lato alla quotidianità delle ragazze del ventunesimo secolo e dall’altro a un ruolo monarchico che, pur esistendo ancora nella contemporaneità, conserva un retrogusto anacronistico che rimanda alla fiaba, più che alla realtà.
Ecco, dunque, che la principessa del Nuovo Millennio non può che porsi come una contraddizione in termini, basando la sua stessa esistenza su contrasti e paradossi.

Anne Hathaway nel ruolo della principessa Mia in "Pretty Princess" (2001).
Una tiara su abiti sportivi e capelli bagnati.

Tiara e Converse

La confusione e la contraddizione marcano le modalità con cui il femminismo viene compreso a cavallo del ventunesimo secolo.

Amanda Lotz

La rappresentazione femminile nei prodotti mediali degli anni ’00 è influenzata da due forze che tendono a fondersi, più che a contrapporsi: il femminismo di Terza Ondata e il post-femminismo. Il concetto di “contraddizione” li caratterizza entrambi, influenzando i teen movie con principesse degli anni ’00.

“Molte femministe di Terza Ondata utilizzano la contraddizione come un veicolo per comprendere identità emergenti […]. L’agency [ossia la capacità di pensare e agire in modo autonomo] deriva quindi dall’utilizzo della contraddizione come strumento di autodeterminazione e identità, nonché di trascendenza rispetto a scelte apparentemente forzate o dicotomiche”, scrivono Valerie Renegar e Stacey Sowards.

Arriviamo dunque agli abiti da principessa con le scarpe da ginnastica.
Carol Dole scrive che, nel 2001, Nike si rivolgeva al target femminile con slogan come “Mi dipingo le unghie dei piedi. Gioco a calcio”.
In alcuni spot televisivi andati in onda durante l’importante torneo di tennis US Open, la campionessa Venus Williams indossava scarpe Reebok sotto un abito rosa da principessa.

Nello stesso anno esce Pretty Princess, sulla cui locandina ritroviamo il contrasto di cui sopra. Qui non si tratta di scarpe da ginnastica (sono anfibi), ma il contrasto con abito e diadema appare chiaro, dipingendo un primo, vivido ritratto della protagonista (Mia): una principessa moderna, insofferente al protocollo. Lo notiamo non solo dalle scarpe, ma anche dall’atteggiamento poco ortodosso che ostenta, esemplificato dal modo scomposto in cui è seduta sul ‘trono’, anche se il suo sorriso è rassicurante, candido e principesco.

La locandina di "Pretty Princess" (2001), teen movie Disney che è diventato un cult.

In altre immagini promozionali del film ritroviamo contrasti simili.
Il caso più noto (su sfondo azzurro) ci presenta occhiali da rose e cuffie contro diadema e abito. In un altro caso (sfondo giallo), si punta ancora su un atteggiamento sfrontato, nel modo in cui gli occhiali da sole vengono avvicinati alla bocca. In un altro caso ancora (sfondo bianco), Mia viene direttamente ‘sdoppiata’ e il contrasto ha luogo quindi fra le due diverse versioni di sé: ragazza comune e principessa.

Nell’ultimo caso che analizziamo, qui sotto, vediamo gli step con cui Mia si prepara a ‘diventare’ principessa: viene messa in luce la difficoltà e l’artificiosità della sua trasformazione (makeover), e ancora l’atteggiamento ha una certa importanza: nell’ultima immagine, in basso a destra, è ormai in piena versione principessa, ma la posa suggerisce tutt’altro.

Immagine promozionale di "Pretty Princess" (The Princess Diareis", 2001).

Qualche anno dopo troviamo un paio di Converse All Star rosa ai piedi della ‘principessa’ interpretata da Hilary Duff sulla locandina di A Cinderella Story (2004), che ci fanno subito intendere che si tratta di una ragazza (e di una fiaba) moderna.

Locandina di "A Cinderella Story" (2004) in cui Hilary Duff indossa le Converse All Star rosa sotto un abito da principessa.

E questi sono solo gli esempi più celebri a livello cinematografico.

Nel videoclip Mono di Courtney Love, uscito sempre nel 2004, troviamo un gruppo di bambine travestite da principessa che brandiscono minacciose armi: un contrasto ancora più forte di quello offerto da diademi e scarpe da ginnastica. Un contrasto che nasce come provocazione, ma che di nuovo, attraverso l’eccesso, mira a tratteggiare identità ibride.

Principesse armate nel video di "Mono" di Courtney Love, 2004.

Anche Peggy Orenstein, nel già citato articolo What’s Wrong With Cinderella?, parla della ricerca di una nuova identità in mezzo a due modelli opposti.
“Doveva esserci una via di mezzo tra compiacente e insolente, tra sottogonne e paper bags [la giornalista si riferisce alla principessa ‘femminista’ di Paper Bag Princess, 1980, ndr]. Mi sono ricordata di un video su YouTube, la pubblicità di un gioco Nintendo chiamato Super Princess Peach. Mostrava un branco di ragazze con diademi, abiti e guanti bianchi lunghi fino ai gomiti che scivolavano lungo una teleferica utilizzando i loro ombrellini, che sui loro tacchi a spillo attraversavano un percorso a ostacoli fatto di pneumatici, strisciavano sulle loro pance sotto il filo spinato, poi usavano i loro poteri telecinetici per dare fuoco a una parete rampicante. ‘Se riesci a tenere testa alle persone davvero cattive’, dice la voce fuori campo, ‘forse hai quello che serve per essere una principessa’”.

Alla grazia delle principesse è dunque accostata la durezza dell’allenamento militare, un ambito dominato dagli uomini. Anche la voce fuori campo è di un uomo e suona piuttosto virile, ma debutta con il celeberrimo “Once upon a time”, ossia “C’era una volta”, creando un ulteriore contrasto.
Contro ogni aspettativa, e abbracciando il paradosso, le dirette interessate si dimostrano perfettamente in grado di affrontare la sfida.

“Ecco alcune ragazze che avevano sia grinta che grazia. Amavo la principessa Peach anche se sapevo che non era possibile che potesse correre con quei tacchi, che la sua peachiness non faceva nulla per sconvolgere la gerarchia delle aspettative: poteva essere atletica, intelligente e forte, ma era anche adorabile. Forse è ciò a cui puntano quei genitori […] postfemministi: la fusione fra vecchi e nuovi standard. E forse è una buona cosa, la soluzione ideale”, scrive Oreinstein.

Super Princess Peach (2006)
Forse non è un caso che il creatore di Super Mario, Shigeru Miyamoto, abbia chiesto a Yōichi Kotabe di disegnare Peach in modo che apparisse “tenace, ma anche carina”:
di nuovo due elementi in apparente contraddizione.

Abbiamo dunque messo in luce come elementi in apparente contraddizione possano fondersi per dare vita a nuove identità in grado di coniugare antico e moderno, fiaba e realtà, forza ed eleganza, sport e glamour, femminilità e femminismo.
In fondo, agli albori del Nuovo Millennio, ci ritroviamo nel cuore del post-femminismo, che rappresenta un concetto contraddittorio per definizione, costituendo un instabile ponte fra progressismo e conservatorismo, fra tradizione e innovazione.

La sposa con la spada (katana) in "Kill Bill Vol. 2" (2004).
Alcune immagini promozionali di Kill Bill Vol. 2 (2004) ci mostrano un contrasto fra l’abito da sposa – uno dei massimi simboli della femminilità tradizionale – e la katana sguainata.
A livello metaforico, il contrasto è fra il desiderio di normalità delle protagonista, che passa dal matrimonio e dalla maternità, e la sua innata natura di killer professionista.
Ne ho scritto qui.
Converse All Star in "Marie Antoinette" (2006) di Sofia Coppola.
Le Converse All Star compaiono, a sorpresa, anche nel film storico Marie Antoinette (2006).
Maria Antonietta viene dipinta come una teenager anche ricorrendo ad anacronismi come questo, che mettono in luce una sua aderenza all’immaginario rock, skater e underground.
Le scarpe di Mia in "Pretty Princess"
In Pretty Princess, l’attenzione della nonna di Mia si scaglia sulle calzature della ragazza (“Non voglio mai più vedere quelle scarpe!”) anche se non sono anfibi (come nella locandina), né scarpe da ginnastica (come in altri film).

The Princess Paradox

Nel 2004, Time Magazine pubblica un articolo intitolato The Princess Paradox che si pone l’intento di fare i conti con l’ambigua immagine della principessa nel Nuovo Millennio, partendo dalla mole di film a tema pubblicati in quell’anno, ben quattro: The Prince & Me (2 aprile), Ella Enchanted (9 aprile), A Cinderella Story (16 luglio), The Princess Diaries 2: Royal Engagement (11 agosto).

"Principe azzurro cercasi", il sequel di "Pretty Princess"
I titoli italiani dei film appena citati sono rispettivamente Un principe tutto mio, Ella Enchanted – Il magico mondo di Ella, Cinderella Story, Principe azzurro cercasi (sequel di Pretty Princess): anche in Italia sono tutti usciti nel corso del 2004.

Nell’articolo, James Poniewozik scrive che i primi anni Duemila hanno forgiato una nuova figura di principessa che “ha imparato le lezioni del femminismo – o almeno ha imparato a sostenerle a parole”.
Questi film affermano che “puoi avere il sogno delle scarpe di cristallo e del vero amore […], così come l’ideale dell’autodeterminazione e dell’indipendenza – e ogni contraddizione a metà strada non può nulla contro la magia di questi film”.

Poniewozik scrive che in passato le donne avevano il desiderio di fare tutto ciò che gli uomini già facevano, mentre le ragazze che vanno a vedere questi film “prendono quella libertà come un dato di fatto” e quindi “il [loro] desiderio è anche quello di potersi innamorare e andare al Ballo, senza vergogna”.

Poniewozik scrive che, per poter mantenere saldo quest’equilibrio, le nuove principesse devono seguire alcune regole non scritte. La principessa del Nuovo Millennio “deve essere carina, ma come una capoclasse, non come una cheerleader. Deve essere in grado di farsi valere […]. Deve essere socialmente consapevole – una conseguenza, dice Meg Cabot, autrice di The Princess Diaries, del lavoro di beneficienza di Lady Diana. E soprattutto non deve voler essere una principessa – almeno fino a quando non cambia idea”. Quest’ultimo punto è vero soprattutto per Mia di Pretty Princess e Paige di Un principe tutto mio: non è solo la ragazza che deve dimostrarsi all’altezza del titolo di principessa, ma è anche il titolo di principessa che deve dimostrarsi all’altezza della ragazza.
Questa tensione evidenzia quella dissonanza, di cui parlavamo prima, fra femminismo e femminilità, laddove il primo viene incarnato dall’ideale della ragazza moderna, indipendente e autodeterminata, mentre la seconda si ricollega a un’immagine di stampo più tradizionale, incarnata dalla figura più stereotipata della principessa, quella che ‘ha bisogno di essere salvata’. Ecco perché queste nuove figure appaiono inizialmente esitanti di fronte a tale prospettiva: l’immagine della principessa risulta essere in contrasto con quella della ragazza contemporanea su più livelli, ma alla fine tutte queste ragazze cedono ai piaceri (e si sobbarcano i doveri) dell’essere una principessa, seppur moderna. E così, anche i film stessi inizialmente sembrano quasi mettere in ridicolo la figura della principessa e le convenzioni della fiaba, per poi invitare il pubblico a goderne comunque, battendo cassa proprio su quest’ambivalenza.

La principessa Mia (Anne Hathaway) nel film Disney "Pretty Princess".
Inizialmente, Mia rifiuta il proprio ruolo regale: capiamo che non si sente all’altezza, ma oltre a questo ridicolizza anche l’idea in sé: “Già così sono abbastanza ridicola, mettiamoci pure in testa una corona!”.

«There’s something a little have-your-tiara-and-disdain-it-too about making your protagonists ambivalent about the very fantasy that people paid $9 to see them live out», scrive Poniewozik.
Quest’ambivalenza, tipica del post-femminismo, è riscontrabile anche in Barbie (2023). Ne avevo scritto qui, e riporto di seguito la parte saliente:
“Ora che femminismo e femminilità si sono riconciliati, il post-femminismo è dietro l’angolo, con tutte le sue contraddizioni. E, infatti, lo stesso Barbie si regge sulle contraddizioni, mettendo sul tavolo tutti gli aspetti più ‘problematici’ dell’icona bionda per poi spingere il pubblico a empatizzare proprio con la sua configurazione più problematica. «This is a movie that wants to have its Dreamhouse and burn it down to the ground, too», scrive David Fear su Rolling Stone. Insomma, il film mette in luce tutto ciò che non va con la bambola, ma allo stesso tempo invita il pubblico a giocare con quella stessa bambola e a godere del suo immaginario, fatto (anche) di proporzioni irrealistiche e via dicendo”.

Un velo di ironia è ciò che ci vuole per far sì che la storia appaia credibile agli occhi del pubblico contemporaneo, che potrebbe altrimenti percepire l’intera operazione come stucchevole o anacronistica.
Secondo Poniewozik, gli ingredienti del successo di questi film sono “una ragazza esuberante, una profilattica dose di scetticismo e un favoloso abito da ballo nei confronti del quale non è necessaria alcuna ambivalenza”.

Questa tensione è ben percepibile nello sviluppo della protagonista di Un principe tutto mio che, come evidenzia Poniewozik, “realizza di aver bisogno di essere ‘salvata’ dal suo carrierismo disciplinato ma unidimensionale tanto quanto ha bisogno di affermare la sua indipendenza”.
E infatti è in questo film, complice anche l’età più matura di Paige rispetto alle altre protagoniste considerate, che più viene accarezzata l’idea che le donne possono ‘avere tutto’ (have it all), sia l’amore che la carriera, pur evidenziando un compromesso necessario: il principe (e la monarchia) dovrà aspettare che Paige si laurei prima di sposarla. E poi, che succederà? Paige sarà sia Regina che dottoressa senza frontiere?
Il primo film non entra nel merito, ma i sequel sembrano affermare la volontà della neo-laureata di bilanciare questi due ruoli, pur con tutte le difficoltà del caso.
Ed ecco che torniamo di nuovo lì, ai contrasti che coesistono all’interno dell’identità femminile, fra diademi e stetoscopi.

Paige di "Un principe tutto mio" ("The Prince & Me", 2004), interpretata da Julia Stiles.
La risoluzione romantica di Paige in Un principe tutto mio è curiosamente simile a quella di Erika in Barbie – La principessa e la povera, uscito nello stesso anno (ne ho parlato qui).

La deriva dei tardi anni ’00

Tale ambivalenza continuerà a pervadere i prodotti mediali, specie quelli rivolti a un pubblico femminile, nel corso del decennio e oltre.
Sebbene la principessa a cui fa riferimento Ice Princess (2005) sia solo metaforica, ecco che la locandina ripropone quel contrasto fra le due identità della protagonista – studentessa di chimica in procinto di entrare ad Harvard e promessa del pattinaggio – con dinamiche simili a quelle messe in atto dalla campagna promozionale di Pretty Princess.

La locandina di "Ice Princess - Un sogno sul ghiaccio" (2005) con Casey, interpretata da Michelle Trachtenberg.
Melanie Kennedy scrive che “la giustapposizione fra identità e valori” è comune nei prodotti mediali post-femministi rivolti alle donne, ma nel caso di quelli rivolti alle preadolescenti tale “scelta fra due percorsi viene ulteriormente accentuata, rappresentata in modo esplicito e inequivocabile”, prendendo ad esempio proprio la locandina di Ice Princess.

In Programma Protezione Principesse (2009), le due identità che nei precedenti film venivano incarnate dalla stessa teenager sembrano scindersi nelle figure della timida tomboy Carter e della principessa Rosalinda. Tuttavia, la seconda incita la prima a cercare la sua ‘principessa interiore’ nel momento in cui viene nominata fra le candidate al titolo di principessa del Ballo. Fino a quel momento, Rosalinda aveva dovuto ‘travestirsi’ da ragazza comune, ma adesso è Carter a doversi mettere nei panni di una principessa: le due ragazze imparano così qualcosa l’una dall’altra. Quando Carter dice “Fidati, io non sono una principessa”, Rosalinda risponde “Sì, che lo sei. Semplicemente non ti sei ancora sentita una principessa. Quando sono venuta qui mi hai insegnato a comportarmi come una persona normale, non una nobile. Ora tocca a me insegnare a te. Forza, Carter, andiamo a cercare la tua principessa interiore!”.
Come scrive Melanie Kennedy, il percorso verso la princesshood prevede una costruzione ‘egoista’ del proprio aspetto (e infatti c’è un makeover), ma anche un comportamento ‘altruista’ che si manifesta nel fare beneficienza e nell’aiutare altre ragazze timide e ordinarie a trovare la loro ‘principessa interiore’. Ecco che la principessa trova la ragazza comune dentro di sé (come in Vacanze romane) e la ragazza comune trova la principessa dentro di sé: torniamo, quindi, al concetto di identità ibrida.

Selena Gomez e Demi Lovato nel film di Disney Channel (Disney Channel Original Movie, DCOM) "Programma protezione principesse" (2009)

L’abito di Rosalinda ricorda quello di due illustri precorritrici: Belle de La Bella e la Bestia (1991) e, ancor prima, Anna di Vacanze romane. Ne ho parlato qui.

Carter e la principessa Rosalinda nel film di Disney Channel "Programma protezione principesse" (2009)

Saranno proprio Demi Lovato e Selena Gomez, interpreti di Carter e Rosalinda nel film appena citato, a fornire le ultime due iterazioni della combinazione ‘abito da ballo e scarpe da ginnastica’ che consideriamo in questa sede, fra i tardi anni ’00 e i primi anni ’10.

Appena prima di loro c’è stata Sydney White, interpretata da Amanda Bynes, che di nuovo indossa un abito con le Converse, anche se l’abito non è da ballo, e proprio questo contrasto la caratterizza come una ragazza diversa dalle altre, attirando l’interesse del suo ‘principe’, Tyler Prince.

Sydney White, interpretata da Amanda Bynes, insieme al principe in "Sydney White - Biancaneve al college" (2007)

Infatti, nella scena in cui si incontrano per la prima volta, a colpire Tyler è innanzitutto il lancio di Sydney, che dimostra una capacità sportiva che, proprio come nel precedente A Cinderella Story, si ricollega al fatto che la ragazza sia stata cresciuta dal padre. È dunque questo lato di sé, tradizionalmente connotato come maschile, ad attirare l’interesse del ‘principe’, che inizialmente si sorprende del fatto che lei faccia parte della confraternita Kappa Phi Ni, composta da ragazze iper-femminili e cattive.
Sydney pensa che Tyler sia giunto a questa conclusione dopo aver visto che indossa le Converse sotto all’abito: “Is it the shoes?”, gli chiede con lieve imbarazzo, al che lui ribatte “No, I love the shoes!”.
L’abbinamento fra abito e scarpe da ginnastica viene connotato fin da subito come un indicatore dell’unicità di Sydney, che può apparire come un elemento positivo (agli occhi del ragazzo) o negativo (all’interno della sorority, in cui l’individualità e la divergenza dalle norme sociali non è vista di buon’occhio).

Sydney White (Biancaneve al college) interpretata da Amanda Bynes con Rachel Witchburn, interpretata da Sara Paxton, la cattiva del teen movie.
Sydney White è praticamente l’unica ragazza con i capelli scuri all’interno della confraternita, e infatti è un pesce fuor d’acqua, un’intrusa che sarà presto fatta fuori dalla Regina Cattiva, Rachel Witchburn.

Appena Sydney arriva al campus, la sua compagna di stanza (Nana Hotchkiss) le presta un abito per andare a incontrare le ragazze della sorority, rammaricandosi del fatto di non poterle prestare anche le scarpe, visto che non ha il suo stesso numero di piede. Sydney ribatte: “Va bene, tanto il senso di far parte di una sorority non è proprio il fatto di essere apprezzata per come sei?”, e la nuova amica annuisce poco convinta.
Nana è infatti conscia del fatto che la sorority non funzioni affatto così, anzi: per farne parte bisogna continuamente dimostrare di aderire a precisi standard estetici e comportamentali.
È significativo il fatto che Tyler, poco prima, definisca le componenti della Kappa Phi Ni come illegally blondes, facendo ironicamente riferimento alla sorority di La rivincita delle bionde (Legally Blonde, 2001), ora connotata negativamente: a far parte della confraternita sono infatti bionde buone nel film del 2001 e bionde cattive in quello del 2007, mettendo in luce una graduale demonizzazione di un certo tipo di ragazza (bionda e iperfemminile) nei prodotti mediali rivolti alle adolescenti nel corso degli anni ’00 (ne ho parlato qui e qui).

Su questo punto è necessario un approfondimento.
Con il proseguire del decennio, la scelta di indossare scarpe da ginnastica sotto l’abito lungo diventa un cliché che si fonde spesso e volentieri col concetto di “I’m not like other girls”. Gli anni ’00 si erano aperti con un clima più che mai favorevole all’iperfemminilità, come testimonia appunto La rivincita delle bionde, ma di anno in anno sono sprofondati sempre più nella sua demonizzazione, esemplificata dalla rappresentazione della sorority che vediamo in Sydney White, che appare ben lontana dal mondo positivo-utopico di Elle Woods.
Sul finire degli anni ’00, immagini di ragazze che indossano le Converse sotto la gonna proliferano su MySpace, Netlog, Facebook e poi Tumblr.
Per molte ragazze è un modo per affermare giocosamente la propria individualità, mostrandosi anticonvenzionali ed eccentriche, ma la deriva è dietro l’angolo nel momento in cui il fatto di dichiararsi ‘diverse dalle altre ragazze’ presuppone una svalutazione di queste fantomatiche ‘altre ragazze’, la cui colpa spesso e volentieri si limita al fatto di aderire in modo più rigoroso ai codici della femminilità tradizionale.

Indossare le converse sotto il vestito, tumblr, justgirlythings.
Per molte, indossare scarpe da ginnastica sotto l’abito è un modo per attirare le attenzioni maschili (come infatti accade in Sydney White e in altri film di questo filone): è così che nasce il termine pick me girl, che indica quelle ragazze che si definiscono ‘diverse dalle altre’, adottando tratti convenzionalmente maschili e/o cercando di apparire quirky/edgy (stile manic pixie dream girl) per risultare più appetibili agli occhi dei ragazzi.

Ad aderire perfettamente a questa dinamica è Demi Lovato, che nel brano La La Land (2008) canta “Who said I can’t wear my Converse with my dress?” (“Chi ha detto che non posso indossare le mie Converse con il mio vestito?”) pochi secondi dopo aver lanciato un’occhiataccia a tre donne – un’anziana, una donna di mezz’età e una ragazzina, presumibilmente imparentate – che indossano le tute rosa Juicy Couture, simbolo di quell’iperfemminilità McBling demonizzata già quattro anni prima in Mean Girls (2004).

Selena Gomez invece indossa abito e stivali da cowboy in Monte Carlo (2011): è il modo attraverso cui il suo personaggio (Grace) non solo rivendica le sue origini texane, ma esprime insofferenza nei confronti delle norme sociali (e di genere) in fatto di abbigliamento. Occorre notare che le ‘principesse’ precedenti, come Sam di A Cinderella Story e Mia di Pretty Princess, indossavano scarpe ‘fuori posto’ solo nelle immagini promozionali, per cui la giustapposizione di elementi opposti agiva più che altro a livello metaforico, mentre qui Grace sceglie espressamente di indossare gli stivali sotto l’abito per sentirsi più a suo agio, rigettando scarpe più appropriate, ma anche più scomode.

I film delle principesse anni ’00

Dopo una necessaria introduzione sui paradossi che tratteggiano l’immagine della principessa teenager negli anni ’00, andiamo a vedere più nel dettaglio le principali caratteristiche che accomunano le opere che fanno parte di questo filone, attingendo agli studi di Melanie Kennedy.
In questi film si dà per scontato il fatto che la protagonista (così come la spettatrice) debba fare una scelta, in qualità di soggetto post-femminista, e si parla di “scelte” al plurale, ma solo una è quella autentica.
Attraverso queste storie di principesse moderne, le giovani spettatrici imparano quale identità femminile (e femminista) è più appropriata, abbracciando infine l’opzione post-femminista. Secondo Kennedy, “la magia e l’incanto fanno da ponte – anzi, da colla – fra i contraddittori elementi femministi e anti-femministi presenti nel post-femminismo”.

La costruzione dell’autenticità

Occorre ribadire che in questi film “la princesshood [l’essere principessa] non rappresenta la regalità in sé e per sé, ma l’ideale postfemminista” a cui la ragazza deve aspirare. Kennedy scrive che la principessa-protagonista deve fare i conti con altri soggetti femminili di diverse età che rappresentano diversi rapporti con il femminismo: le nonne (come Clarisse di Pretty Princess) rappresentano un approccio pre-femminista, non avendo potuto godere, quando erano giovani, dei progressi portati dal femminismo; le madri (come Joan di Ice Princess) rappresentano invece il femminismo degli anni ’60-’70, e quindi tendono a rigettare l’iperfemminilità, associandola a un’epoca in cui le donne non avevano diritti; le ‘matrigne’ (come Fiona di A Cinderella Story) rappresentano invece le conseguenze del femminismo portato all’estremo. Le cose sono leggermente diverse per Paige di Un principe tutto mio, anche in virtù della sua età (frequenta il college): qui sia la madre della protagonista che quella dell’amato sono pre-femministe.

La principessa Mia Thermopolis, interpretata da Anne Hathaway, insieme alla nonna Clarisse Renaldi, interpretata da Julie Andrews, nel teen movie prodotto da Disney "Pretty Princess" (2001)

Facendo i conti con questi diversi modelli di femminilità, e ricavando da ciascuno qualcosa di utile, le principesse dei teen movie costruiscono la propria identità post-femminista, in bilico fra elementi contrapposti. Kennedy scrive infatti che in questi film la principessa deve “egoisticamente lavorare su sé stessa, gestendo le proprie priorità e rifiutando precedenti forme di femminismo, e imparare altruisticamente i ruoli di cura [caregiver] e di asservita partner eterosessuale”.
Insomma, da un lato queste ragazze pensano a loro stesse, al loro futuro accademico e professionale, alimentando la loro indipendenza e lavorando sulla propria interiorità ed esteriorità; dall’altro sono chiamate a ricoprire ruoli e mansioni tipicamente femminili, sia per dovere che per piacere, aventi a che fare con il fatto di prendersi cura degli altri, intrattenere una relazione sentimentale, ma anche semplicemente vestire i panni della femminilità tradizionale.

Personaggi del teen movie Disney "Pretty Princess" (2001)
Melanie Kennedy scrive che la cultura tween richiede alla ragazza di imparare una femminilità appropriata che passa attraverso un amore eterosessuale, amicizie femminili, un’enfasi sulla sorellanza e un buon rapporto con madri e nonne, il tutto mantenendo un autentico senso di sé.

Nello specifico, i simboli della femminilità pre-femminista – abiti, gioielli, balli di gala – vengono presentati come fonte di un intenso piacere individuale che offre sicurezza, potere, visibilità, empowerment o semplice divertimento, come quando da piccole si gioca a travestirsi da signore. Questi momenti funzionano come siti chiave per la negoziazione e riconciliazione fra femminilità e femminismo. Quando Paige de Un principe tutto mio o Mia di Pretty Princess scelgono di indossare i gioielli reali, la tiara o la corona, stanno scegliendo “un’identità di genere appropriata che mixa l’esuberanza e l’ambizione del ventunesimo secolo con i segni distintivi del glamour femminile pre-Seconda Ondata”, scrive Kennedy.
Ecco dunque il doppio intreccio, il double entaglement di cui scrive Angela McRobbie, fra conservatorismo e progressismo. Tale tensione trasforma queste principesse nei soggetti post-femministi ideali.

Femminilità e femminismo possono riconciliarsi, dicono i princess movie, che sostengono che l’identità post-femminista sia l’unica scelta naturale per la teenager perché si tratta di una componente che già esiste all’interno della ragazza, che deve semplicemente trovare la propria ‘principessa interiore’ e portarla alla luce.

Julie Andrews e Anne Hathaway in "Pretty Princess" (2001)
“Ti aiuteremo a diventare la principessa che sei” dice la nonna alla nipote in Pretty Princess.
Per portare alla luce la propria principessa interiore c’è bisogno di self-work, di lavorare su sé stesse, ma si tratta comunque di una componente intrinseca e quindi costituisce una scelta autentica.

Quella del post-femminismo è presentata come l’unica, vera scelta possibile per la ragazza che intende rivelare e mantenere un’identità autentica.
Sempre in un’ottica contraddittoria, la logica dietro a questi film pretende che la ragazza sia autentica e al contempo aderisca ai rigidi schemi dell’identità post-femminista, che necessita di duro lavoro per essere rivelata e mantenuta. Più precisamente, si pretende di mettere in atto una negoziazione fra l’autenticità a cui la ragazza è spinta ad aspirare e il concetto stesso di “principessa”, che implica il contrario dell’autenticità.
“La figura della principessa viene messa in primo piano per esprimere la necessità di autenticità nel giovane sé femminile; tuttavia, la principessa è una figura altamente costruita e artificiale, il che complica le sue pretese di autenticità”, scrive Kennedy.

Il makeover di Mia in "Pretty princess" (2001)
La figura della principessa complica il rapporto della ragazza con l’autenticità del sé.
Quello della principessa è un costrutto culturale che si basa sull’artificio per affermare il suo significato e la sua riconoscibilità. Gli indicatori di princesshood (abito da ballo, gioielli, femminilità convenzionale e bellezza eccezionale) sono tutti altamente costruiti, attributi di superficie; non sono naturali, non si trovano all’interno del sé. Insomma, la figura della principessa è in contrasto con la nozione stessa di autenticità, eppure è attraverso la princesshood che, secondo questi film, la ragazza svela il proprio sé autentico. Questa contraddizione interna alla cultura pop può essere estesa alla femminilità più in generale, che è stata vista dalle femministe come costruita e dipendente dall’artificio, dunque diametralmente opposta al concetto di autenticità.

Questo dilemma non è trattato esplicitamente dai film in questione.
Ciò che è implicito, tuttavia, è che il soggetto post-femminista ideale sia in grado di gestire la tensione tra la valorizzazione del proprio vero sé e la necessità di conformarsi al copione della femminilità, trovando il modo di esprimersi a metà strada. Come Mia, che alla fine abbraccia l’identità di principessa di Genovia (Amelia Mignonette Thermopolis Renaldi) a modo suo, restando in fondo sempre la stessa ragazza (lo notiamo, ad esempio, dal modo in cui balla sul finale), solo più responsabile e sicura di sé.

Mia Thermopolis (Anne Hathaway), la principessa Disney moderna di "Pretty Princess" (2001)
“La ragazza può brillare adornandosi con l’abito da principessa e la tiara, finché il suo sé interiore è autentico”, scrive Kennedy.

Il makeover, ossia la proverbiale trasformazione da ‘brutto anatroccolo’ a ‘cigno’, è riservata a quelle ragazze che sono ‘diamanti allo stato grezzo’, proprio come Cenerentola, Vivian di Pretty Woman o Mia di Pretty Princess. Il cambio di look serve a mettere in luce il potenziale di ragazze che, esuberanza a parte, restano umili e gentili come la più classica delle principesse. In questo senso, tale trasformazione costituisce una manifestazione esterna della loro bellezza interiore.

La trasformazione di Mia in "Pretty Princess"

Dimmi quanto sei femminista e ti dirò…
che principessa sei!

Melanie Kennedy distingue fra tre tipologie di principesse presenti nei teen movie degli anni ’00.

La prima categoria è quella delle ragazze che all’inizio della storia appaiono “femministe” nel senso più stereotipato del termine: “sono toste, esplicitamente disinteressate all’amore romantico […], (esclusivamente) focalizzate sulle loro ambizioni e i loro obiettivi [professionali], e prendono consapevolmente distanza dalle convenzionali trappole della femminilità”, scrive Kennedy.
Un esempio: Paige di Un principe tutto mio (2004).

Sebbene il film sia calato in un contesto realistico, la campagna promozionale di Un principe tutto mio gioca molto con le figure del principe e della principessa delle fiabe.
In alto a sinistra, “Tutte le ragazze sognano il principe azzurro”, e a destra si parla di una storia “da favola” (sic), con lo sfondo che addirittura rievoca vagamente un castello da fiaba.
In basso a sinistra, “Finding your inner princess can be such a royal pain”, e a destra “This fairy tale is about to get real”, un claim molto simile a quello di Come d’incanto (2007).

La seconda categoria è composta da ragazze che “beneficiano dei progressi compiuti dal femminismo di Seconda Ondata, ma non si allineano esplicitamente con un’ideologia femminista (e quindi forse si potrebbero etichettare come ‘post-femministe’); anelano all’amore romantico […], ma sono ‘carenti’ in femminilità e quindi visibilità e sicurezza in sé, il che le rende socialmente invisibili; hanno obiettivi e ambizioni (solitamente eccellere a scuola e costruire una solida carriera), ma queste ambizioni non costituiscono la loro massima [o unica] priorità”.
Questa seconda tipologia è la più comune.
Un esempio: Sam di A Cinderella Story (2004), ma anche Mia di Pretty Princess (2001; 2004), Casey di Ice Princess (2005), Sydney di Sydney White (2007), Carter di Programma protezione principesse (2009), Grace di Monte Carlo (2011).

La terza categoria è la più rara in questo tipo di film: si tratta delle principesse pre-femministe (o anti-femministe), ossia ragazze “ingenue per quanto riguarda sessualità, potere e politiche di genere; […] iperfemminili, e focalizzate sull’ottenere l’amore romantico […], senza nessun’altro tipo di obiettivi o ambizioni”.
Kennedy fa rientrare le prime tre principesse Disney in questa categoria, ma i film degli anni ’00 hanno introdotto principesse più moderne, ecco perché si tratta di una tipologia difficile da trovare. Nei teen movie di quel decennio, il personaggio che più si avvicina a quest’archetipo è Rosalinda di Programma Protezione Principesse, una principessa di un regno lontano e quasi fiabesco, che non a caso appare come un ‘pesce fuor d’acqua’ sul suolo statunitense, in contrasto con Carter: come Giselle di Come d’incanto (che ho analizzato qui), questa figura di principessa idealizzata e ‘fuori dal mondo’ si confronta con il mondo reale-ordinario, dimostrando di poter imparare molto, ma anche di poter insegnare molto.

Nell’ultima sezione dell’articolo ci focalizziamo sulla seconda tipologia, la più frequente, prendendo in analisi A Cinderella Story.

A Cinderella Story (2004)

Once upon a time… can happen any time!”

Hilary Duff nel ruolo di Sam Montgomery in "Cinderella Story" (2004)

A Cinderella Story offre una rilettura della fiaba di Cenerentola per l’inizio del Nuovo Millennio. Proprio come nel Classico Disney Cenerentola (1950), il padre della protagonista muore, lasciando la sua casa (e il suo ristorante) nelle grinfie della nuova moglie, la matrigna di Sam (Fiona), che ha già due figlie (le sorellastre). Sam è costretta a lavorare come sguattera a casa (e al ristorante), e in relazione a questo ci viene offerta un’ulteriore componente che possa giustificare e rendere più credibile – agli occhi del pubblico degli anni ’00 – il fatto che la ragazza accetti i soprusi della matrigna: Sam ha bisogno dei soldi di Fiona per poter andare all’università, e spera di guadagnarli lavorando al ristorante.

Sam incontra il ‘principe’ Austin in una chat, con tutte le implicazioni che questo porta con sé in merito all’identità (nascosta) di entrambi. All’apparenza, lei è una sfigata e lui è il ragazzo più popolare della scuola.
La realtà virtuale svela le re(g)ali identità dei due: lei, con il nickname PrincetonGirl818, è una brillante ‘principessa’ che aspira a un college di prestigio, mentre lui, con il nickname Nomad, è un romantico principe-poeta che ha il desiderio di entrare nella stessa università, contro il volere del padre. I due hanno modo di incontrarsi al Ballo in costume che la loro scuola ha organizzato per Halloween: lei indossa un abito che le ha fornito la Fata Madrina (Rhonda, sua collega al ristorante), nascondendo la propria identità sotto una maschera, ed è costretta a fuggire via a mezzanotte, perdendo il cellulare al posto della scarpetta.

Gli eventi che seguono differiscono chiaramente sia dalla fiaba, sia dal Classico Disney, in virtù dell’ambientazione moderna che non giustificherebbe un matrimonio in così giovane età. Non dimentichiamo, inoltre, che Sam privilegia la sua istruzione rispetto a qualunque altra cosa (“True love is going to wait”), quindi la storia termina sì con un lieto fine romantico, ma anche con un lieto fine accademico garantito dal fatto che l’eredità del padre, la sua casa e il ristorante tornano a essere proprietà della figlia, com’era previsto dal testamento.

Hilary Duff in "A Cinderella Story" (2004)

A Cinderella Story esce nel 2004, lo stesso anno di Shrek 2.
Il primo film di Shrek era già ben impresso nell’immaginario collettivo: possibile che il nome della matrigna di Sam, ossia Fiona, celi un riferimento all’orchessa?
Anche se Fiona di Shrek è un personaggio positivo, il franchise di cui fa parte è noto per aver ‘distrutto’ l’immaginario fiabesco della Disney, e quindi anche la stessa Fiona potrebbe essere vista come complice di questo, giocando qui un ruolo antagonistico nei confronti di una ‘principessa’ moderna che, sebbene sia prodotta dalla Warner Bros., pesca molto dalla Cenerentola disneyana. Anche l’aspetto minaccioso e il fisico robusto della matrigna di Sam potrebbero rimandare all’immagine di un’orchessa, quindi a Fiona di Shrek

La principessa moderna Sam (Hilary Duff) e la matrigna cattiva Fiona (Jennifer Coolidge) in "Cinderella Story" (2004)

L’ex fidanzata di Austin, Shelby, appare ironicamente vestita da angelo, insieme alle sue due amiche: un abbigliamento che rimanda allo stile McBling, così come le tute monocromatiche delle sorellastre di Sam (che rimandano ai capi Juicy Couture), e il look della Matrigna in generale. Questa scelta aderisce al processo di demonizzazione dell’iperfemminilità in corso negli anni ’00, già evidente nel 2004 (basti vedere Mean Girls).

Dissonanze in equilibrio

Hilary Duff indossa la tiara in un'immagine promozionale di "A Cinderella Story" (2004)

Per illustrare le dinamiche contraddittorie tipiche della fiaba post-femminista, esaminiamo A Cinderella Story, mettendo in luce una sinfonia di dissonanze in perfetto equilibrio.

Dissonanza fiaba-realtà

A Cinderella Story dimostra di aver imparato la lezione di Pretty Woman (1990): la narrazione utilizza l’ironia come strumento per mettere in luce la distanza fra fantasia e realtà, ma allo stesso tempo riafferma la necessità di cercare la fiaba nella vita reale. I confini sono ancora ben saldi, però: siamo lontani da quella confusione che caratterizzerà i Classici Disney dei primi anni ’10. Siamo in un mondo in cui Shrek è ancora una parodia, e non un nuovo modello narrativo-produttivo.

Samantha Colling scrive che la magia, nei teen movie a tema principesse dei primi anni ’00, si manifesta attraverso il consumismo, e non per mezzo di elementi soprannaturali: l’incanto si lega sempre a un abito da principessa, ma a farlo comparire non ci pensa la Fata Madrina, ma la carta di credito. Questa dinamica era già presente in Pretty Woman, e ritorna in tutti i suoi discendenti.
Si tratta di un “realismo da fiaba che evoca i piaceri della magia in un contesto contemporaneo”, scrive Colling.
La studiosa aggiunge che questo tipo di film non possono veicolare la magia della fiaba prendendosi troppo sul serio, perché non sarebbero credibili agli occhi del pubblico del Nuovo Millennio. Ecco, quindi, che entra in scena il meccanismo del double coding: questi film ironizzano sulla distanza fra realtà e fiaba, mettendo alla berlina gli eccessi di quest’ultima, ma preservando il carico affettivo di cui è investita.

Titoli di testa di "A Cinderella Story" (2004) con Hilary Duff, la storia di una Cenerentola moderna
I titoli di testa del film sono scritti con un carattere che, in quello stesso anno, va molto di moda fra le teenager: lo ritroviamo su capi d’abbigliamento (come le t-shirt indossate da Gretchen di Mean Girls), e copertine di album musicali (Love. Angel. Music. Baby. di Gwen Stefani).
"A Cinderella Story" (2004) è la storia di una Cenerentola moderna, ambientata ai giorni nostri, interpretata da Hilary Duff

L’incipit di A Cinderella Story mette in atto questa strategia.
La voce narrante introduce la storia attraverso le convenzioni tipiche della fiaba, mentre sullo schermo vediamo un’ambientazione fantastica, con tanto di castello e musica orchestrale in sottofondo (“C’era una volta, in un regno molto lontano, una bellissima bambina e il suo padre vedovo…”), salvo poi fare retromarcia, con il rumore del traffico e dei clacson che ci distoglie dalla fantasia (“Ok, non era così tanto tempo fa e non era proprio un regno molto lontano. Era la San Fernando Valley e sembrava molto lontana perché riuscivi a malapena a vederla per via dello smog”). Vediamo dunque la bambina e il padre nella vera ambientazione del film, la San Fernando Valley degli anni ’90. L’incantevole castello che avevamo ammirato si trova, in realtà, all’interno di una palla di vetro con la neve.

La fiaba si configura come un ulteriore strato narrativo all’interno della storia del film.

La giustapposizione fra la fantasia del regno incantato e l’ambientazione urbana del film evidenzia l’impossibilità di chiedere al pubblico dei primi anni ’00 di accettare la magia della fiaba in un contesto contemporaneo senza filtrarla attraverso un velo di scetticismo e di ironia. Grazie al meccanismo del double coding, questi teen movie prendono le distanze dagli elementi estetico-narrativi delle fiabe tradizionali, ma allo stesso tempo se ne appropriano, preservandone l’incanto.

Assistiamo a un bilanciamento di questo tipo, una negoziazione fra realtà e fantasia, anche nell’ultimo dialogo fra padre e figlia prima del terremoto che causerà la morte del genitore. Lui legge la fiaba, che ovviamente termina con “e vissero per sempre felici e contenti”; lei chiede se le fiabe si avverano e lui dice “no, ma i sogni si avverano”. Allora la bambina chiede al padre se ha un sogno e lui risponde che il suo sogno è che lei cresca, vada al college e “poi forse un giorno costruirai il tuo castello”. Si tratta di una prospettiva che diverge dalla tipica traiettoria della principessa rinchiusa in un castello che si sposa con un principe e va a vivere in un altro castello.
Forse l’intento del padre è quello di invitare la figlia a costruire il proprio futuro, e quindi la propria fiaba e il proprio sogno, con le sue mani, e lo fa utilizzando una metafora che appare più fisica e maschile, quella del ‘costruire’, come se parlasse a una futura muratrice, o forse a un’architetta.

La domanda della bambina riporta l’attenzione sulla possibilità di coniugare fiaba e vita reale, e il padre sta al gioco:
“E dove vanno al college le principesse?”
“Vanno nello stesso posto in cui vanno i principi. Vanno a Princeton!”

Subito dopo, il padre mette in luce un altro aspetto fondamentale:

“Ma sai, Sam, le fiabe non hanno solo a che fare col trovare bellissimi principi, ma col realizzare i propri sogni e far valere ciò in cui si crede”.

“But Sam, you know, fairy tales aren’t just about finding handsome princes.
They’re about fulfilling your dreams and about standing up for what you believe in”.

Il padre spiega alla figlia che nella vita di una principessa, come di una ragazza, non c’è solo l’amore romantico.

Inoltre:

“E ricorda: se guardi con attenzione, questo libro contiene cose importanti che potrai aver bisogno di sapere quando sarai più grande”.

“And just remember: if you look carefully, this book contains important things you may need to know later in life”.

Si tratta, insomma, di un bilanciamento che, pur evidenziando il necessario distacco fra realtà e fantasia (‘le fiabe non si avverano’), non solo cerca di infondere un po’ di fiaba nella vita reale (giocando sul nome “Princeton”), ma mette in luce il fatto che le fiabe trasmettono insegnamenti che possono essere utili nella vita reale. In poche parole: la fantasia viene presentata come uno strumento per affrontare la realtà.

Sam e il padre in "A Cinderella Story"

Una breve digressione sulla figura paterna in relazione alla principessa.
Già nei Classici del Rinascimento Disney (1989-1999), i padri ricoprivano un ruolo fondamentale nel percorso delle principesse, perlopiù contrapponendosi alle figlie e limitandone la libertà, per poi imparare qualcosa da loro: ne ho parlato qui.
Il padre di Sam, invece, acquisisce il ruolo di mentore, riallacciandosi innanzitutto alla caratterizzazione del padre di Mia in Pretty Princess, tanto che i discorsi che intavolano risultano molto simili: da un lato abbiamo “il coraggio non è l’assenza di paura, ma piuttosto la consapevolezza che c’è una cosa più importante della paura. I coraggiosi possono non vivere per sempre, ma i cauti non vivono affatto” (2001), dall’altro “Non lasciare che la paura di perdere ti impedisca di giocare” (2004). In inglese, la seconda citazione – inclusa, appunto, in A Cinderella Story – presenta una metafora sportiva: striking out, ossia ‘essere eliminati dopo tre strike’ nel baseball, che infatti è lo sport di cui il padre è appassionato al punto da trasmetterne la passione anche alla figlia.
I due padri ispirano le rispettive figlie anche ‘a distanza’, quando sono già morti e loro sono adulte. Bisogna però evidenziare che il padre di Pretty Princess muore poco prima che la storia abbia inizio, e non ha mai avuto un rapporto stretto con la figlia, mentre il padre di A Cinderella Story muore quando Sam ha 8 anni, dopo aver giocato un ruolo fondamentale per gran parte della sua infanzia. Un caso simile a questo, curiosamente, lo troviamo nella prima principessa Disney a uscire dopo A Cinderella Story, ossia Tiana de La principessa e il ranocchio (2009): anche qui, il padre insegna alla figlia a bilanciare fiaba, sogno e realtà, incitandola a credere con tutta sé stessa alla stella dei desideri, ma anche a impegnarsi con tutta sé stessa nel mondo reale. Anche qui, come in A Cinderella Story, il dialogo avviene sul letto, nel luogo e nel momento in cui si raccontano fiabe e si esprimono desideri alle stelle. Importante anche il fatto che le due bambine si pongano come obiettivo la realizzazione del sogno espresso dai rispettivi padri, in seguito alle loro morti: andare al college in A Cinderella Story e aprire il proprio ristorante ne La principessa e il ranocchio.

Tiana e il padre nel Classico Disney "La principessa e il ranocchio" (2009)

Tutto si distrugge, fisicamente e metaforicamente, nella scena del terremoto che causerà la morte del padre di Sam: la boccia di vetro con il castello cade a terra e si rompe in mille pezzi, rimandando simbolicamente alla distruzione della fiaba, del sogno, dell’illusione infantile.

Da quel momento in poi, “le uniche fiabe nella mia vita erano quelle che leggevo nei libri”. Ci viene poi fatto intendere che Sam, crescendo, abbandoni del tutto le fiabe, tanto che non si accorge che il testamento del padre è proprio all’interno del libro che le stava leggendo prima di morire. Ecco, dunque, che il discorso sulle “cose importanti” contenute nel libro acquisisce una doppia valenza: non si tratta solo degli insegnamenti trasmessi dalle fiabe, ma anche – in senso letterale – della presenza di un documento in grado di cambiare il futuro di Sam, liberandola dalla tirannia della matrigna. Considerato che Fiona era a conoscenza del testamento del marito – come testimonia la sua firma – possiamo pensare che sia stata proprio lei a nasconderlo all’interno del libro, forse perché immaginava che Sam, dopo la morte del padre, avrebbe smesso di ‘credere’ alle fiabe, e quindi avrebbe smesso anche di leggerle. Alla fine Sam lo scopre solo perché, in un momento di rabbia e sconforto, getta a terra il libro e più tardi, nel raccoglierlo, trova il documento. In ogni caso, un libro di fiabe le ha salvato la vita: la storia sembra volerci dire che è importante crederci, sempre.

Quello che nell’economia della storia viene definito un libro di fiabe reca sulla copertina il titolo She stoops to conquer (Ella si umilia per vincere), che rimanda alla commedia di Oliver Goldsmith rappresentata per la prima volta a Londra nel 1773, una sorta di “Cinderella Story” a generi invertiti (qui è l’uomo a essere povero).

Il contrasto fra fantasia e realtà viene messo in scena anche nel resto del film, che in più punti suggerisce che siano due dimensioni incompatibili.
La comparsa in scena del nerd Terry, che capiamo vivere in un mondo tutto suo, porta Sam ad affermare che “almeno è felice”, ammettendo che “a volte la fantasia è meglio della realtà”.

Sam e l'amico Carter in "Cinderella Story"

Su questa scia, Sam rifiuta inizialmente la prospettiva di rivelare la propria identità ad Austin perché non vuole “rovinare tutto con la realtà”.

Sam (Hilary Duff) e Austin (Chad Michael Murray) durante il Ballo in "A Cinderella Story" (2004)
Quando deve fuggire dal Ballo, Sam dice di essere in ritardo.
Austin le chiede per cosa, e lei risponde: “La realtà”.

Il lieto fine, con Austin che dimostra di amarla anche nella vita reale, suggerisce infine che sia possibile conciliare fiaba e realtà.
Il film si chiude con un accenno di quella stessa strategia che l’aveva aperto: il meccanismo del double coding, che all’inizio aveva ripreso l’archetipico “C’era una volta…”, sul finale riprende ovviamente la formula “E vissero per sempre felici e contenti”, adattandola alla quotidianità dei teenager del Nuovo Millennio, che si amano ma senza vedere nessun matrimonio all’orizzonte:

E viviamo felici e contenti, almeno per adesso.
Ehi, sono solo una matricola!

And lived happily ever after. At least for now. Hey, I’m only a freshman!

Dissonanza maschile-femminile, sport-glamour

Abbiamo detto che la protagonista di A Cinderella Story appartiene alla seconda categoria di principesse individuata da Melanie Kennedy, le cui esponenti presentano nomi gender neutral: Sam (diminutivo di Samantha) è uno dei più eclatanti, ma possiamo citare anche Carter (molto più diffuso al maschile) di Programma Protezione Principesse, Casey di Ice Princess (la versione maschile suona allo stesso modo, ma si scrive Kasey), Page di The Prince & Me (idem, ma si scrive Page), Sydney di Sydney White.

Melanie Kennedy fa notare che questa tendenza si estende in altri prodotti tween che non appartengono al filone delle principesse, citando Alex de I maghi di Waverly (2007), Payton di Cambio di gioco (2007). Mitchie di Camp Rock (2008), Sonny di Sonny fra le stelle (2009), Jo di Mean Girls 2 (2011).

Questi nomi ambigui in termini di genere sembrano evidenziare le lacune di queste ragazze sul fronte della femminilità tradizionale.
Nel caso di Sam, questo aspetto ci viene esplicitato dalla stessa protagonista, nel flashback iniziale: “Il fatto di essere cresciuta da un uomo mi ha lasciato indietro in fatto di trucco e moda, ma non avevo mai la sensazione di perdermi qualcosa”.

Insomma, ci viene fatto intendere che a Sam manchi l’allenamento necessario a performare la femminilità convenzionale perché le è mancata una figura materna che potesse guidarla nel processo in modo naturale.
In verità, Sam non è propriamente un ‘maschiaccio’: fin da piccola gioca a baseball (passione ereditata dal padre), ma anela anche a essere una principessa delle fiabe.
E dunque, eccoci di nuovo lì: diademi e scarpe da ginnastica.

Sam da bambina in "Cinderella Story" (2004)
“Esprimi un desiderio, principessa!”
Notiamo che le candeline sulla torta dell’ottavo compleanno di Sam sono di colori diversi: c’è il rosa (simbolo di femminilità), l’azzurro (simbolo di mascolinità) e due colori più neutri sul lato del genere, ossia giallo e bianco (che potrebbe comunque rimandare alla purezza femminile, ricollegandosi all’abito da sposa che indosserà al Ballo).

Alcune immagini promozionali di A Cinderella Story che mostrano altri contrasti: nelle due sopra abbiamo una tiara indossata su abiti casual, mentre in quella sotto abbiamo la tiara e l’abito da principessa in contrasto non solo con la scarpa da ginnastica (che in questo caso è Nike), ma anche con il cellulare e la gomma da masticare, nonché con la posa e l’atteggiamento.

Hilary Duff è una principessa moderna in "A Cinderella Story" (2004)

Sam si ricollega alla dimensione maschile anche nel fatto che il suo unico amico è un ragazzo, Carter, che è ‘sfigato’ come lei.
Melanie Kennedy scrive che il ‘rischio’ di un’androginia che il pubblico conservatore vedrebbe come ‘eccessiva’ viene scongiurato dal fatto che la ragazza abbia un interesse romantico eterosessuale.

Sam e Carter in "Cinderella Story" (2004)

In ultimo, è curioso evidenziare come la prima cosa che Austin nota di Sam, a distanza e sul campo da baseball, sia la bravura nello sport: vede il tiro e si sorprende del fatto che sia stata una ragazza a lanciarlo: “Damn, a girl hit that, See, now that’s impressive”.

Sam (Hilary Duff) e Austin (Chad Michael Murray) in "A Cinderella Story" (2004)
In questa immagine promozionale del film, Sam è vestita da principessa e Austin da quarterback.
Nei teen movie statunitensi, il ruolo del quarterback è solitamente attribuito al ragazzo più popolare della scuola, che spesso e volentieri vince anche il titolo di Re del ballo studentesco: ecco perché l’accoppiata fra quarterback e principessa funziona, a livello simbolico.

Dissonanza fra diner girl e princess

Infine, proprio come nella fiaba di Cenerentola, c’è il contrasto fra la ‘sguattera’ e la ‘principessa’, due facce della stessa protagonista.

Sebbene non abbia un aspetto estetico ‘divergente’ al pari di quello di Mia all’inizio di Pretty Princess, Sam presenta un abbigliamento anonimo e poco curato, e quindi non spicca nella folla. Come Mia, Sam ambisce a essere invisibile, considerato che l’alternativa è quella di essere presa in giro (come infatti accade a entrambe). Insomma, Sam appare insicura e quindi non viene notata dai ragazzi popolari, o viene direttamente presa di mira in quanto ‘sfigata’.

Inizialmente, Sam indossa vestiti informi e un cappello da baseball che le copre il viso. Fra i colori che sceglie, nel corso del film, c’è soprattutto il blu in diverse sfumature, fra cui l’azzurro – lo stesso colore che caratterizza Cenerentola nei prodotti del franchise Disney Princess –, poi il grigio, il verde militare… colori poco appariscenti, con cui esprime la volontà di apparire invisibile o mimetizzarsi con lo sfondo.

Sam e Carter in "Cinderella Story" (2004)
Anche l’automobile di Sam è azzurra, ed è la stessa che guida il padre all’inizio del film.
Nell’elencare le ragioni per cui ritiene che Austin non possa vederla come un serio interesse amoroso, Sam cita anche la propria auto: “Vivo in una soffitta, ok? Guido una vecchia automobile. Lui si aspetta Malibu Barbie!”.
Vedere la propria automobile come un simbolo di status sociale è una considerazione tipicamente maschile, anche se già negli anni ’00 i confini di genere cominciavano a essere più nebulosi su questo fronte.
Dopotutto, l’azzurro già di per sé sembra rimandare alla mascolinità – è il colore che viene attribuito ai bambini maschi, così come il rosa viene attribuito alle femmine –, in linea con quanto scritto nel precedente paragrafo, ma potrebbe anche celare un riferimento alla Cenerentola disneyana, che nell’immaginario collettivo si lega proprio a questo colore.
In ogni caso, l’azzurro si contrappone al rosa che qui caratterizza la matrigna, Fiona.

La maglietta a righe potrebbe essere un riferimento all’abbigliamento ‘da bambino’ (maschio) tipico della gamine, anche se le righe erano di moda a prescindere, nel 2004…

Dopo la recita in cui viene ‘smascherata’ e umiliata pubblicamente, Sam indossa nuovamente il cappello (per nascondersi il viso) e una giacca verde militare (forse un tentativo di ‘mimetizzarsi’ e nascondersi nella folla in un momento in cui è al centro dell’attenzione).

Sam non è particolarmente imbranata o goffa, ma gli altri personaggi le sbattono contro, facendola spesso inciampare, perché è come se non la vedessero – questo accade anche in Pretty Princess, con Mia che addirittura fa notare che “qualcuno si è seduto di nuovo su di me”.

Austin non solo non vede Sam come potenziale interesse amoroso, ma a momenti non la vede proprio (in senso letterale), anche se, come dicevamo, apprezza il suo lancio (la scorge da lontano, sul campo da baseball), e ride della battuta che rivolge a Shelby quando sono al ristorante di Fiona nella prima parte del film. Si accorge davvero di lei solo quando indossa l’abito del Ballo, ma in realtà l’aveva già conosciuta nella sua interiorità, mentre chattavano. Anche dopo il Ballo continua quasi a non vederla, fino al momento in cui finalmente hanno modo di parlarsi con calma al ristorante.

Come ricorda l’annunciatrice della scuola, il Ballo in maschera offre la possibilità di essere, per una sera, qualunque cosa si voglia essere, soprattutto ciò che non si è.
Ecco dunque che il makeover, in questo film, sfocia nella dimensione del travestimento, più che in altri teen movie. Assistiamo a un montaggio in cui vengono presentati diversi possibili costumi che, come scrive Kendra Marston, tracciano i limiti di cosa è accettabile sul fronte della femminilità: la torera, la strega, il maialino dei Looney Tunes, l’hawaiiana, la suora e la cavaliera con armatura completa…
Ognuno di questi costumi viene scartato.

Kendra Marston scrive che il modo in cui questi look sono mostrati è disordinato e non spettacolare. Il taglio dei costumi è coprente, con linee dritte e ingombranti. Presentano materiali pesanti, spessi, scuri o ingombranti. Il rapporto tra il corpo di Sam e questi indumenti è presentato in modo sgradevole: la ragazza prova i costumi con le spalle incurvate e una mancanza di grazia che accentua la loro scomoda vestibilità e il disagio che prova nell’indossarli. La situazione è leggermente diversa per l’outfit da hawaiiana, che però, oltre a costituire uno stereotipo etnico, risulta sessualizzato e dunque inaccettabile per la ‘principessa’.

Kendra Marston scrive che, mettendo in luce una serie di scelte fallimentari, il film traccia i limiti della femminilità appropriata, di ciò che è accettabile e ciò che non lo è: è a confronto con questi tentativi falliti che la scelta giusta risplende.

La ‘trasformazione’ di Sam è diversa da quella di Pretty Princess o di altri teen movie perché in questo caso si tratta, a tutti gli effetti, di un travestimento, anche se mette in luce un lato autentico della protagonista.
Si tratta, peraltro, di un travestimento che dura il tempo di una serata, e anche su questo fronte la situazione è ben diversa da quella di Mia, che invece adotta il cambio di look per tutto il resto della vicenda.

Travestendosi da principessa, Sam mette in pratica i codici che regolano la manifestazione della femminilità, o di quella che Joan Riviere e Mary Ann Doane definiscono ‘mascherata della femminilità’, gli stessi che fino a quel momento aveva ammesso di aver trascurato, essendo cresciuta con un padre single.

“Non si tratta di ciò che sei, ma di ciò che indossi”, proclama la DJ della scuola.
Qui però, trattandosi di un Ballo in costume, notiamo come i travestimenti possano svelare l’interiorità dei personaggi, e infatti è nei panni di una ‘principessa’ che Sam manifesta la sua identità di PrincetonGirl.
È interessante notare come Austin – con la scusa di aver perso il costume – si sia vestito da principe, contravvenendo al travestimento concordato con gli amici, che si ritrovano a essere i due moschettieri. Possiamo ipotizzare che questa scelta intenda mettere in luce non solo il ruolo di ‘principe’ che Austin ricopre nei confronti di Sam, ma anche il fatto che si stia gradualmente allontanando dalla cricca dei suoi amici popolari, anzi, forse non ne ha mai fatto davvero parte.

Sam (Hilary Duff) e Austin (Chad Michael Murray) al Ballo in "Cinderella Story" (2004)
L’empowerment, per Sam e per le altre protagoniste dei film di questo filone, deriva dalla scelta di abbracciare le convenzioni della femminilità, anche se solo per una sera.

Questa ‘mascherata’ prevede, non a caso, che Sam indossi un abito da sposa (espressione massima della femminilità tradizionale), abbinato a una maschera che mette ancora in luce come si tratti di un travestimento atto a celare la sua identità di diner girl.

Riprendendo in mano gli studi di Kennedy, ribadiamo come i teen movie di questo filone suggeriscano al pubblico di ragazze (pre)adolescenti che è lecito indugiare nei piaceri del glamour a patto di conservare la propria autenticità. La performance di una femminilità idealizzata, ben diversa da quella che caratterizza Sam nella vita di tutti i giorni, è la chiave che permette alla ragazza di cambiare il proprio destino.

Marston scrive che l’abito di Sam-Cenerentola presenta diversi ‘strati’ semantici: principessa, debuttante, vera donna, sposa. Si tratta effettivamente di un abito da sposa, preso in prestito da Rhonda (che qui gioca il ruolo della fata madrina), che premette che l’abito, con cui lei stessa sarebbe dovuta convolare a nozze, “è stato nella sua scatola per così tanto tempo che merita di passare una serata fuori”, una sapiente metafora applicabile alla stessa Sam-Cenerentola, che passa la sua vita fra casa, scuola e ristorante, e che finalmente si concede una serata di svago al Ballo. L’abito ci viene presentato con un’inquadratura dal basso: Sam appare aggraziata, ma anche esitante. Vediamo che si tocca la collana: un gesto che rivela quanto sia nervosa e imbarazzata, nel momento in cui l’occhio di bue si posa su di lei.

Sam (Hilary Duff) travestita da principessa al Ballo in "Cinderella Story" (2004)
Marston scrive che l’abito di Sam-Cenerentola lavora sia d’espansione che di confinamento. In poche parole, dà alla ragazza l’abilità e la sicurezza di uscire nel mondo, espandendosi oltre i parametri che la restringevano, ma allo stesso tempo la limita fisicamente nei movimenti.

Eppure, sebbene Sam nella vita di tutti i giorni sia ben diversa – come abbigliamento e modo di fare – dalla versione idealizzata di sé che proietta al Ballo, il film – e poi anche lei stessa – ribadisce più volte come in realtà sia sempre la stessa persona, in ogni iterazione.

Sam e Austin in "A Cinderella Story" (2004), interpretati da Hilary Duff e Chad Michael Murray.

Anzi, possiamo dire che, sotto il nickname PrincetonGirl818, l’alias che utilizza per chattare con Austin, Sam esprima la parte più intima di sé, che poi cerca di portare alla luce al Ballo.
Sam viene poi pubblicamente smascherata quando la perfida Shelby rivela che PrincetonGirl è in realtà diner girl (“cameriera”, nell’edizione italiana), ma a quel punto è ormai evidente, per chi guarda il film, che non è PrincetonGirl a essere in realtà diner girl, ma è diner girl a essere in realtà PrincetonGirl. Mi spiego: PrincetonGirl esprime l’interiorità di Sam molto meglio dell’appellativo diner girl, mettendo in luce proprio il sogno di andare a Princeton, che costituisce infatti l’unica ragione per cui si impegna a sottostare agli ordini di Fiona, e a lavorare nel suo diner.

Rhonda, la Fata Madrina di Sam in "Cinderella Story" (2004)

Questo pubblico smascheramento porta Sam non solo a rivendicare la propria identità di diner girl, trovando finalmente il coraggio di parlare apertamente ad Austin nella scena dello spogliatoio, ma anche e soprattutto la sua identità di PrincetonGirl e di ‘principessa’ al Ballo, ribadendo che “Non ho mai finto di essere qualcun altro. Sono sempre stata io!”.

Il discorso di Sam/Hilary Duff in "A Cinderella Story" (2004)

Il tema del fingere di essere qualcun altro o, al contrario, avere un’identità diversa rispetto a ciò che gli altri vedono, è molto presente nel film.
A differenza di tutte le ragazze che fingono di essere Cenerentola per attirare l’attenzione di Austin, Sam è la vera Cenerentola, anche se all’apparenza non sembrerebbe.
E anche se lei stessa, inizialmente, non vorrebbe che la cosa si scoprisse, alla fine la protagonista fa pace anche con questa parte di sé: “Sono venuta a dirti che so come ci si sente ad avere paura di mostrare chi sei. Io avevo paura, ma adesso non più!”.

Quando viene ‘smascherata’, Sam viene definita pretend princess, principessa-per-finta, quando in realtà sappiamo che lei è sempre stata l’unica, vera Cenerentola (PrincetonGirl818).
Sam (Hilary Duff) e Austin (Chad Michael Murray) in "A Cinderella Story" (2004)
Quando lui, al Ballo, le chiede come ha fatto a non averla notata nel mondo reale, lei risponde “You were looking but not really seeing” ossia
“Stavi vedendo ma non stavi davvero guardando”.
A_Cinderella_Story_2004_BluRay_720p_KISSTHEMGOODBYE_3786.jpg

Sul finale trova una risoluzione anche la sottotrama che riguarda Carter, l’unico amico di Sam, un aspirante attore che nel corso del film indossa i panni di diversi personaggi, fra cui un cowboy e un artista hip hop. In una delle ultime scene, poco prima della partita, Sam gli chiede da chi è vestito oggi, lui risponde “da me stesso” e lei conclude “penso che sia il tuo look migliore”. Alla fine della storia scopriamo che “Anything is possible if you just believe”, ossia la prima battuta che gli sentiamo ripetere a inizio film, è la battuta dello spot che registra alla fine del film, realizzando dunque il suo sogno e dimostrando che, proprio come sostiene la frase, “Qualunque cosa è possibile se ci credi veramente”, il mantra della storia di Cenerentola e dell’American Dream in generale.

Nella scena in cui Sam e Carter si recano alla partita di football è interessante notare come gli stereotipi di genere si ribaltino all’interno di questa coppia di amici: è Sam che è appassionata ed esperta di sport e quindi accetta l’invito di Carter anche perché “altrimenti chi ti spiegherà il gioco?”. Bisogna però specificare che Carter aderisce allo stereotipo del nerd/geek che, a differenza dei maschi popolari, non conosce né pratica sport.

Sam (Hilary Duff) e Austin (Chad Michael Murray) in "Cinderella Story" (2004)
Sam irrompe in un ambiente tipicamente maschile e lo fa con un abbigliamento più femminile rispetto a quanto aveva indossato fino a quel momento (se si esclude la sera del Ballo). Possiamo evidenziare l’audacia di questa ragazza che desiderava essere trasparente e che invece qui, per farsi valere nel rapporto con Austin, entra in un luogo in cui sarà, per forze di cose, notata più di quanto mai lo fosse stata fino a quel momento.
Si tratta di una scena interessante anche in virtù della dissonanza maschile-femminile che abbiamo già messo in luce.

Quando affronta Austin nello spogliatoio maschile, Sam indossa abiti che, per quanto siano sempre casual e sportivi, appaiono più aderenti, donandole un aspetto più femminile.
A livello cromatico non abbiamo più solo l’azzurro e il blu, ma anche un ardito rosso scuro. Sembra essere un tentativo di mostrare una Sam più sicura di sé, più in pace con sé stessa e anche con il proprio corpo, che infatti qui non cerca di nascondere – è più scoperta del solito.

Il bacio sotto la pioggia fra Sam (Hilary Duff) e Austin (Chad Michael Murray) in "A Cinderella Story" (2004)
Il finale di A Cinderella Story ricorda quello di Pretty Princess: in entrambi i casi le principesse trovano la spinta per agire ispirate dalle parole dei loro padri defunti (parole che somigliano ad aforismi), e in entrambi i casi il loro trionfo ha luogo in una giornata di pioggia.

Melanie Kennedy scrive che film come A Cinderella Story e Pretty Princess ci rassicurano sul fatto che, nonostante i tentativi di trasformazione a cui le protagoniste vanno incontro, Sam e Mia sono sempre le stesse, e sempre loro stesse. “La nuova bellezza esteriore non ha alterato la vera essenza della persona. Al contrario, il makeover ha semplicemente portato l’amore nelle vite delle protagoniste e, nel caso di Mia e Sam, ha aggiunto sicurezza”.

Il rosa le dona un aspetto più femminile, ma l’abbigliamento è sempre sportivo: Sam è sempre la stessa, ma ora è più sicura di sé.
E, ora che parte per Princeton, sappiamo che è diventata finalmente una principessa, proprio come aveva detto suo papà.
Una principessa che indossa un paio di scarpe da ginnastica.

Sebbene le Converse All Star facciano bella mostra di sé nella locandina del film, non vediamo mai Sam indossarle nel film. In compenso, sul finale la vediamo indossare un paio di scarpe da ginnastica rosa della Nike, che abbiamo visto in altre immagini promozionali.

 Sam (Hilary Duff) e Austin (Chad Michael Murray) in "A Cinderella Story" (2004)
Nell’ultima scena, Austin finge che il cellulare perso da Sam sia effettivamente una scarpetta, come nella storia di Cenerentola e, inchinandosi, finge di fargliela calzare (o più probabilmente di attaccare il telefono alla scarpa, com’era al Ballo), rimandando al finale della fiaba.

We wound up going to Princeton together, and lived happily ever after.
At least for now. Hey, i’m only a freshman!

Bibliografia

Kendra Marston, Representations of Female Adolescence in the Teen Makeover Film, 2010.

Samantha Colling, The Aesthetic Pleasures of Girl Teen Film, 2014.

Claudia Mitchell, Jacqueline Reid-Walsh, Girl Culture. An Encyclopedia, 2007.

Valerie Renegar, Stacey Sowards, Contradiction as Agency: Self-Determination, Transcendence, and Counter-Imagination in Third Wave Feminism, 2009.

Melanie Kennedy, “Come on, […] let’s go find your inner princess”: (post-)feminist generationalism in tween fairy tales, 2017.

Melanie Kennedy, Bratz, BFFs, princesses and popstars: femininity and celebrity in tween popular culture, 2012.

Melanie Kennedy, Tweenhood: femininity and celebrity in tween popular culture, 2018.

Sarah Rothschild, Modeling the Feminine: The Princess Story in Twentieth-century American Fiction and Film, 2009.

Carole Dole, The return of pink: Legally Blonde, third-wave feminism, and having it all in Suzanne FerrissMallory Young (a cura di), Chick Flicks. Contemporary Women at the Movies, 2007.

Bridget Whelan, Third Wave Princess: Reconstructing and Redefining the Traditional Princess Narrative, 2012.

James Poniewozik, The Princess Paradox, 2004.

Peggy Oreinstein, What’s Wrong With Cinderella?, 2006.

Amanda Lotz, Postfeminist Television Criticism: Rehabilitating Critical Terms and Identifying Postfeminist Attributes, 2001.