Benvenuti nell’era dell’anti-innocenza!
Nessuno fa colazione da Tiffany e nessuno ha storie da ricordare.
Con questa battuta di Carrie Bradshaw iniziava Sex And The City (1998-2004), la serie televisiva che ha ridefinito l’immagine della donna poco più che trentenne, single e sessualmente libera, nella New York a cavallo fra vecchio e nuovo millennio.
Oltre 30 anni prima, nella stessa città, un’altra donna single e sessualmente libera, interpretata da un’attrice poco più che trentenne, aveva incantato il mondo intero: parliamo di Holly Golightly di Colazione da Tiffany (Breakfast At Tiffany’s, 1961), liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Truman Capote del 1958.
Nonostante Sex And The City voglia porsi, fin dal primo istante, in contrapposizione con Colazione da Tiffany, i punti di contatto sono diversi.
Entrambe le opere si configurano come fiabe moderne in cui aspettative progressiste vengono apparentemente “tradite” da un finale romantico che si fa testimone della complessità insita nel concetto di post-femminismo.
Ma com’è possibile, vi chiederete, se Colazione da Tiffany di fatto precede la Seconda Ondata, ossia i movimenti degli anni ’60 e ’70 a cui il post-femminismo si contrappone?
A onor del vero, dinamiche di questo tipo erano presenti a livello mediale da ben prima degli anni ’80 e ’90 (pensiamo a La bisbetica domata di Shakespeare, ad esempio), ma la correlazione con Sex And The City è talmente forte da spingerci a parlare di “fiaba post-femminista” anche in relazione alla storia di Holly Golightly.
Ed è da qui che si è sviluppata l’intera l’analisi, che calerà Colazione da Tiffany non solo nel contesto post-femminista, ma anche in quello della Prima e della Seconda Ondata, senza dimenticare il periodo in cui il film è uscito…
Alle porte della Seconda Ondata
L’inizio della Seconda Ondata femminista coincide convenzionalmente con l’uscita de La mistica della femminilità (1963) di Betty Friedan, ma i primissimi anni ’60 registravano già un certo fermento.
Nel 1961, anno in cui uscì il film di Colazione da Tiffany, l’allora presidente John Kennedy aveva istituito una commissione sulla condizione femminile allo scopo di indagare sui pregiudizi contro le donne e garantire il riconoscimento dei loro diritti fondamentali. La sua costituzione rifletteva l’intensificarsi di una tensione sociale in merito all’inadeguatezza dei ruoli femminili tradizionali, accompagnandosi a un desiderio di maggiore uguaglianza nella sfera pubblica.
Insomma, nella società americana qualcosa si stava già muovendo, ma i media americani l’avevano ignorato fino a quel momento: secondo Susan Douglas, le immagini di sexy pin-up da un lato, e di zelanti casalinghe dall’altro oscuravano “l’esplosivo numero di donne che entravano sul mondo del lavoro, entravano a far parte dei Peace Corps e venivano coinvolte in politica”.
Poi arrivò Holly…
Holly Golightly e la dicotomia Madonna-Whore
I prodotti mediali degli anni ’50 promuovevano due immagini femminili contrapposte, a richiamare la storica dicotomia Madonna-Whore (santa-peccatrice): da un lato donne sensuali e spesso poco sveglie, come quelle interpretate da Jayne Mansfield o Marilyn Monroe, dall’altro ragazze pudiche e verginali in stile Doris Day, o casalinghe come quella interpretata da Barbara Billingsley in Leave it To Beaver (Il carissimo Billy, 1957-1963).
Il sesso ha sempre fatto parte dell’immaginario hollywoodiano, ma le brave ragazze lo facevano solo dopo il matrimonio, e solo per accontentare i loro mariti.
Al contrario le ragazze cattive, le femme fatales, abbracciavano il sesso e la sensualità e per questo venivano “punite” alla fine dei loro film (spesso con la morte), oppure venivano “domate” attraverso il matrimonio, ponendo particolare enfasi sul loro pentimento.
Poi, nel 1961, arriva Holly Golightly a farsi testimone di una nuova etica sessuale femminile. Dal momento in cui fa la sua prima apparizione sullo schermo, Holly è apertamente civettuola, indifferente alla modestia.
Il suo atteggiamento – come il fatto di introdursi nella camera da letto di Paul indossando solo un accappatoio – suggerisce che abbia intrattenuto rapporti non-platonici con diversi uomini.
Come commentò il regista Blake Edwards in un articolo del New York Times del 1961: “Se sei adulto e disposto ad accettare i fatti della vita, capirai sicuramente che [Holly] è tutt’altro che verginale, anche se questo non viene mai affermato o mostrato”.
In un’intervista per Playboy nel 1968, Truman Capote era stato più preciso:
«Holly Golightly non era esattamente una squillo. Non aveva un lavoro, ma accompagnava uomini in conto spese nei migliori ristoranti e locali notturni, con l’accordo che la sua scorta era obbligata a farle una specie di regalo, magari gioielli o un assegno… se ne aveva voglia, lei poteva portare la sua scorta a casa per la notte».
Insomma, il sex appeal sembra essere l’arma che questa giovane donna utilizza per farsi strada nel mondo, ma Holly non incarna il trope della minacciosa femme fatale, apparendo piuttosto come una ragazzina vivace, sognatrice e un po’ infantile, senza peli sulla lingua. Un’immagine ben diversa da quella dell’algida seduttrice che, con la propria sensualità, conduceva gli uomini (e sé stessa) alla rovina.
Holly non è un’ingénue, ma non serba alcun vero rancore verso gli uomini, se non verso quelli che l’hanno già delusa. Vuole semplicemente una parte del loro denaro e fa di tutto per ottenerla nel modo migliore che conosce. Possiamo sostenere dunque che Holly trascenda la dicotomia “santa-peccatrice”, diventando la protagonista di quella che Sam Wasson definisce “una commedia romantica contemporanea per la generazione moderna”. Alla luce di questo, Holly Golightly ha “cambiato per sempre il modo in cui le donne potevano e sarebbero state rappresentate nei media”, scrive Wasson. In che modo è potuta avvenire questa rivoluzione in un’industria ancora profondamente influenzata dal codice Hays, quella serie di linee guida che regolamentavano la produzione dei film di Hollywood, prevenendo ogni possibile riferimento a una condotta immorale?
Gran parte del merito si deve a una scelta di casting, quella che ha portato una brava ragazza come Audrey Hepburn a interpretare una “geisha americana”, come la definì Truman Capote.
Audrey o Marilyn?
Quando cominciò a concretizzarsi la possibilità di una trasposizione cinematografica di Colazione da Tiffany, Truman Capote suggerì che il ruolo dovesse essere di Marilyn Monroe, che conosceva personalmente da oltre dieci anni. “Non ho mai avuto una casa – non una vera con tutti i miei mobili”, aveva confessato una volta a Capote: sotto quella patina di glamour e sex appeal, sosteneva lo scrittore, Marilyn celava qualcosa di semplice, autentico e vulnerabile, una fragilità infantile che ai suoi occhi la rendeva perfetta per interpretare Holly. Il produttore del film, Martin Jurow, non ne era convinto: era difficile immaginare che una personalità fragile come quella incarnata da Marilyn potesse vivere tutta sola nella Grande Mela. Inoltre, l’attrice aveva acquisito ormai una pessima fama a causa dei ritardi sul set e delle difficoltà nell’imparare a memoria le battute: Billy Wilder, regista di A qualcuno piace caldo (film uscito appena due anni prima), aveva dichiarato che lavorare con lei era stato un incubo. Alla fine, un tentativo di contattarla era stato comunque fatto, ma fu il suo team – guidato da Paula Strasberg – a declinare l’offerta: “Marilyn Monroe non interpreterà una signora della notte”.
Ora, se un ruolo del genere viene rifiutato da un’attrice che non si era fatta problemi a incarnare il trope della blonde bombshell, chi mai avrebbe potuto pensare che ad accettare sarebbe stata quella brava ragazza che ad oggi viene considerata essere il suo opposto, ovvero la bruna Audrey Hepburn? E invece andò proprio così.
Al suo debutto, nei primi anni ’50, Audrey aveva interpretato prevalentemente ruoli da ingénue, posizionandosi idealmente nella categoria della “sante”, anche se la sua immagine – tratti androgini, alta statura, fisico gracile e poco formoso – risultava comunque divergente rispetto ai canoni estetici del tempo.
Colazione da Tiffany sembra voler giocare metaforicamente con il contrasto fra il fisico gracile di Audrey e le generose forme delle attrici a lei contemporanee nella scena, ambientata in uno strip club, in cui Holly fissa sbigottita una spogliarellista che si toglie il reggiseno.
Inoltre, nella scena della festa a casa di Holly, vediamo l’agente cinematografico O.J. Bergman che si intrattiene con una giovane donna dalle fattezze simili a quelle di Marilyn Monroe.
Come recitava un comunicato emesso dalla Paramount ai tempi dell’uscita di Colazione da Tiffany, “La signorina Audrey Hepburn non ha mai recitato in alcun ruolo che suggerisse che fosse tutt’altro che pura, educata e possibilmente una principessa”.
Quindi com’è che i produttori hanno pensato a lei?
In qualità di “accompagnatrice” connotata in positivo – a differenza di quella interpretata da Elizabeth Taylor, che viene uccisa alla fine di Venere in visone (1960) – Holly non poteva essere troppo sexy. Già lo sceneggiatore, George Axelrod, stava avendo il suo bel daffare nello smorzare gli elementi più torridi della narrazione: un ammiccamento di troppo e la censura avrebbe potuto bloccare tutto.
Scartata l’opzione Marilyn, le attrici che andavano più forte in quel periodo erano Doris Day, Elizabeth Taylor, Debbie Reynolds, Sandra Dee. Poi c’erano due emergenti: Shirley MacLaine (già occupata con la MGM) e Jane Fonda (troppo giovane). Nessuna sembrava tagliata per quel ruolo impossibile: ci voleva classe per portare sullo schermo un personaggio così moralmente ambiguo. Bisognava trovare un’attrice dal fascino sensuale (ma non troppo) e innocente (ma non troppo), in modo da scongiurare sia il pericolo “bomba sexy“, sia l’effetto lolita.
La soluzione, come suggerisce Wasson, è stata quella di trovare un’attrice che risultasse leggermente fuori ruolo per Holly.
Il casting mirava a scegliere una star che non fosse automaticamente associata con il sesso, per poi renderla sexy.
Ecco come e perché la scelta ricadde su Audrey Hepburn.
A 30 anni, Hepburn possedeva un’allure infantile e giocosa, ma anche la sicurezza e solidità di una donna adulta.
Appariva giovane, femminile e sensuale, ma anche colta, elegante e di gran classe, come la first lady Jackie Kennedy.
Come scrive Wasson, il casting della “brava ragazza” Audrey nel ruolo della “non-così-tanto-brava” Holly ha virato il corso della rappresentazione femminile nel cinema. Inizialmente, tuttavia, la stessa Audrey nutrì qualche dubbio in merito al ruolo, temendo che potesse sporcare la sua immagine.
Il produttore Martin Jurow e lo sceneggiatore George Axelrod ricevettero un due di picche dal suo agente, ma riuscirono comunque a proporre il ruolo direttamente all’attrice.
“Avete un bellissimo copione”, disse Audrey, “ma non posso interpretare una prostituta”. Oltre a suggerire la possibilità di ammorbidire determinati tratti del personaggio, Jurow evidenziò subito una questione fondamentale:
“Non vogliamo fare un film su una prostituta.
“We don’t want to make a movie about a hooker. We want to make a movie about a dreamer of dreams” – (la citazione ‘romanzata’, come le altre presenti in questo articolo, deriva dal saggio di Saw Wasson, 2010)
Vogliamo fare un film su una sognatrice”.
Dopo aver suggerito alcuni cambiamenti volti a smussare le sfumature più libertine del personaggio, Audrey concluse dicendo che ci avrebbe pensato su, e congedò Jurow e Axelrod.
Riparlandone con il proprio agente, l’attrice fu più diretta. La parte la spaventava: non solo per la dubbia moralità del personaggio, ma anche per ciò che tale ruolo avrebbe richiesto, a livello interpretativo, a lei che in quel momento avrebbe voluto dedicarsi esclusivamente al figlio appena nato. Nel film avrebbe dovuto fingere di essere ubriaca, perdere il controllo e fare riferimento a depressione o attacchi di panico (“the mean reads”, adattato in italiano con “le paturnie”).
Quando Audrey finì di esporre le sue ragioni, il suo agente la folgorò con un concetto semplice e profetico: Holly non è anti-Audrey, spiegò, ma è il primo passo verso la nuova Audrey.
E così, il personaggio di Holly divenne, come scrive Paul Monaco, “un precursore dell’immagine controculturale di giovani donne dalla mentalità più indipendente durante la fine degli anni Sessanta”.
Come scrive Jonathan Keilholz, l’interpretazione di Hepburn “ha portato furtivamente e forse inconsapevolmente il sesso nei film prima che la rivoluzione sessuale lo considerasse accettabile”.
Naturalmente, qualche accorgimento era necessario per preservare la sua reputazione in un contesto ancora iper-conservatore: la Paramount emanò diversi comunicati dichiarando che l’attrice (e la persona) Audrey Hepburn era ben lontana dal personaggio intepretato in Colazione da Tiffany, e la stessa Hepburn lo ribadì numerose volte – una situazione simile a quella che coinvolgerà le attrici di Sex And The City oltre trent’anni più tardi, ansiose di ribadire come la loro vita privata fosse ben diversa da quella dei personaggi della serie.
Inoltre, la condotta immorale di Holly viene giustificata dalla sua giovane età e da quei tratti eccentrici e un po’ naïf che la rendono una “pazza autentica”, per utilizzare le parole dell’agente O.J. Bergman.
L’alba della New Woman
Come dicevamo, Colazione da Tiffany accompagna un punto di svolta nella storia delle donne, quando il conformismo degli anni ’50 stava lasciando spazio alla Seconda Ondata femminista. In questo senso, la protagonista del film può essere studiata come una rappresentazione del femminile in un’epoca in cui le concezioni della femminilità venivano messe in discussione, dibattute e rimodellate. Possiamo dunque considerare Holly Golightly come una delle figure femminili che, all’inizio del decennio, hanno riflesso questi cambiamenti, segnando un punto di raccordo fra il conservatorismo degli anni ’50 e la controcultura dei ’60.
Molti critici sostengono che Holly Golightly abbia introdotto un tipo completamente nuovo di eroina, presentando una figura femminile che all’epoca era piuttosto insolita in un film di Hollywood.
Holly rappresenta una sorpresa “all’interno della scatola cinematografica di Cracker Jack”, come suggerisce Zachary B. Wunrow facendo diretto riferimento a quelli che nell’adattamento italiano vengono definiti “pacchetti di noccioline”. Judith Crist sostiene che quello di Colazione da Tiffany sia stato un “passo progressivo nella rappresentazione delle donne nei film, forse non espressamente intenzionale da parte dello [sceneggiatore] Axelrod e del [regista] Edwards”, mentre Sam Wasson identifica in Holly l’alba della New Woman degli anni ’60.
Pur con leggerezza, il film ha sollevato una serie di domande controverse sui ruoli di genere. All’inizio degli anni ’60, un numero significativo di telespettatori avrebbe potuto pensare che la destabilizzazione da parte di Holly del concetto di “uomini come capifamiglia” e “donne come madri” avesse il potenziale di “causare caos sessuale e famigliare e indebolire la fibra morale del paese” se preso sul serio, come scrive Elaine Tyler May (cit. in Wunrow, 2014).
Holly Golightly era una ragazza single e autosufficiente che viveva una vita che in gran parte non rifletteva la realtà delle donne dei primi anni ’60.
Se a questo aggiungiamo l’interesse extra-coniugale per Paul e i rapporti non-platonici da lei intrattenuti con diversi uomini, possiamo affermare senza dubbio che lo stile di vita di Holly divergesse nettamente dalle norme di genere in vigore all’epoca. Il personaggio rifiuta gli ideali convenzionali del suo tempo e li scambia con valori non-tradizionali che fino a quel momento non erano mai stati rappresentati in modo così accattivante e non erano ancora stati ampiamente abbracciati dal pubblico americano.
Se consideriamo che l’ideale dell’epoca era un’utopia suburbana – una vita in periferia con cucine super-accessoriate per la gioia della donna-casalinga, possiamo notare come Holly viva da sola in un appartamento di Manhattan, privo anche degli arredi più elementari. Come scrive Kendall Varin, “gli oggetti non convenzionali che [Holly] usa come mobili emulano lo spazio non-tradizionale di una donna single che vive in un appartamento da sola. La vasca da bagno è stata modificata per adattarsi a un nuovo scopo in soggiorno: tagliata a metà e imbottita con cuscini, funge da divano”.
Alla luce di quanto detto, il personaggio assume caratteristiche tradizionalmente attribuite alla mascolinità. Holly prende immediatamente il controllo dello spazio in cui si trova: entra nell’appartamento di Paul mentre quest’ultimo giace nel proprio letto, gli gira attorno e lo fissa dall’alto – lei si trova in una posizione dominante, lui in una posizione vulnerabile (ed è nudo sotto le coperte).
Come scrive Varin, “Holly domina la camera da letto, uno spazio solitamente dominato dagli uomini, attraverso la sua sicurezza e curiosità. Holly si versa un bicchiere di liquore e si accende una sigaretta. Assume caratteristiche maschili come bere alcolici, fumare e chiedere se può stare nel letto con lui”.
Susan Douglas la descrive come il primo personaggio femminile “irresistibile, androgino e anticonformista” che la sua generazione ricordi. “Faceva festa tutta la notte e dormiva tutto il giorno, solitamente nuda, annaffiava le piante con lo scotch, teneva le sue scarpe nel frigo (costantemente semivuoto, ndr) e il suo telefono in una valigia, si rifiutava di arredare il suo appartamento”. In generale, “viveva una vita glamour a New York City, organizzando selvaggi cocktail party, cenando al 21 Club, e ubriacandosi ogni volta che ne aveva voglia”. Douglas aggiunge che Holly “riusciva a chiamare un taxi con un fischio in modo forte ed efficace come fosse un corpulento buttafuori […], rubava dai negozi per divertimento, suonava la chitarra sulla scala antincendio, e chiamava tutti tesoro“. Riguardo alla sfera sentimental-sessuale, “Non era decisamente vergine, ed era completamente affascinante. Era totalmente cinica nei confronti del matrimonio, metteva i suoi occhi solo sui milionari”. L’aspetto più rivoluzionario del film è che Holly non viene mai punita per il suo comportamento. “Qui c’era una giovane donna che viveva per conto suo, ignorando ogni sorta di convenzioni da vecchia signora su come dovrebbero comportarsi le donne single, divertendosi un sacco”, conclude Susan Douglas.
In contrasto con la rappresentazione moralistica della donna nei film hollywoodiani degli anni ’50, il personaggio di Holly ha sicuramente rotto gli schemi. Gli spettatori contemporanei erano turbati o elettrizzati dal fatto che avesse “abbandonato la sua famiglia, lasciato suo marito, che fosse uscita con molti uomini ricchi stranieri e, cosa peggiore, si fosse divertita molto in tutto questo”, come scrive Sam Wasson.
Lo stile di vita di Holly si configura come una scelta cosciente nel momento in cui apprendiamo che ha abbandonato una vita rurale e domestica insieme all’ex marito Doc Barnes – la sceneggiatura sostiene che il matrimonio sia stato “annullato”, dato che il divorzio era un argomento tabù – per partire alla scoperta prima di Hollywood e poi della Grande Mela.
Grazie all’entrata in scena di Doc, capiamo che Holly un tempo era Lula Mae, una ragazzina texana di campagna. Questo fattore è tutt’altro che trascurabile: il personaggio dimostra alle giovani spettatrici che non importa chi sei e da dove vieni, puoi sempre reinventare la tua immagine e la tua stessa identità, riscrivendo la tua vita. Holly rifiuta l’idea conformista del nucleo famigliare tradizionale per un’avventura vissuta giorno per giorno come una giovane donna libera, indipendente e di successo. L’idea che una donna potesse rinunciare alla sicurezza (finanziaria e non) garantita dal matrimonio non era una scelta rappresentata spesso nei prodotti mediali di quel periodo.
Come scrive Susan Douglas, Holly ha sfidato i codici del proprio tempo, rendendo glamour l’eccentricità femminile e il fatto di non omologarsi alla massa, legittimando “l’emergente antagonismo delle giovani donne nei confronti dell’istituzione del matrimonio”.
Holly ha abbandonato l’identità di Lula Mae, sposata a Tulip, in Texas, all’età di 13 anni, per perseguire la propria autorealizzazione come donna. La sua precedente esperienza riflette il trend del matrimonio precoce per le donne nel decennio appena trascorso: “Prima della fine degli anni ’50, l’età media per le donne sposate in America era scesa a 20 anni, e continuava a scendere negli anni dell’adolescenza. Quattordici milioni di ragazze erano fidanzate prima di raggiungere i 17 anni”, riportava Betty Friedan nello storico saggio La mistica della femminilità (1963), che avrebbe dato inizio alla Seconda Ondata femminista. Partendo per New York e guadagnandosi da vivere da sola, Holly risponde in anticipo all’appello di Friedan, smettendo di “ignorare quella voce dentro alle donne che dice: ‘Voglio qualcosa in più di mio marito, dei miei figli e della mia casa’”.
Secondo Pamela Robertson Wojcik, la caratteristica più rilevante del personaggio è proprio il successo con cui riesce a rimodellare continuamente la propria identità. Holly, come scrive Zachary B. Wunrow, dà corpo a una fantasia che permette alle giovani donne del 1961 di trascendere i codici e gli strati sociali adottando un nuovo stile di vita attraverso un’indipendenza che lo studioso definisce “bizzarra, ma accattivante”.
Holly non solo ha rifiutato la prospettiva domestica offertale da Doc, ma anche la possibilità di diventare una star del cinema grazie all’agente O.J. Bergman, che abbandona di punto in bianco per recarsi a New York solo perché non ci era mai stata prima. Lo congeda con la frase: “Quando saprò quello che voglio, sarai il primo a saperlo”. Da sola, nella Grande Mela, Holly continua a scrivere (e riscrivere) la sua storia.
La nuova Audrey
Come abbiamo già accennato, se questa dirompente rappresentazione della donna moderna è potuta passare indenne, agli occhi della censura e del pubblico più conservatore, è soprattutto grazie alla scelta dell’attrice protagonista, che aveva saputo smussare i lati più trasgressivi del personaggio. In contrasto con la straripante sensualità di Marilyn Monroe, la giocosa allure di Audrey aveva dipinto un modello socialmente accettabile, quello della brava ragazza, innocente e civettuola, ma anche elegante e intelligente, come nei suoi precedenti successi cinematografici – Vacanze romane (1953), Sabrina (1954), Cenerentola a Parigi (1957).
La buona reputazione dell’attrice giovò a Holly Golightly e all’immagine della ragazza single americana: “All’improvviso, perché era Audrey a farlo, vivere da sola, uscire, apparire favolosa e ubriacarsi un po’ non sembrava più così male. Essere single non sembrava più una cosa di cui vergognarsi. Sembrava divertente”, scrive Sam Wasson. Attraverso il suo personaggio, Audrey ha dimostrato che il glamour, così come la vita da single, era disponibile per qualunque donna, a prescindere dall’età, dalla vita sessuale e dalla classe sociale.
“Era il fatto che fosse Audrey Hepburn a interpretare questo personaggio che ha permesso a molte di noi di fantasticare di diventare noi stesse Holly quando saremmo cresciute”, sostiene Susan Douglas. Sebbene fosse chiaro il fatto che Holly fosse sessualmente attiva, l’interpretazione di Hepburn la dipingeva come un’entità “non proprio pre-sessuale o asessuale, ma come una fatina o la principessa di un libro di fiabe”, rendendo meno spaventosa la maturità sessuale femminile.
“Alla donna in me piace molto Audrey Hepburn [in questo ruolo, ndr] perché ha successo in quello che fa, è in qualche modo responsabile di se stessa ed è una realista oltre a essere così carina e attraente. […]
Quindi è una squillo, ma le permettiamo di esserlo. […] Non lo ammetteremo, ma non la ammiriamo davvero tutti segretamente per questo? Perché riesce a farla franca? Perché è così imperiosa e allo stesso tempo leggermente, diciamo, immorale?”, sostiene Judith Crist.
A riscrivere la propria immagine, dunque, non è solo Holly, ma anche la stessa Audrey. “Le sue precedenti interpretazioni sono meravigliosamente incarnate, ma caratterizzate da intelligenza, educazione e grazia borghese, tutte qualità a noi già familiari in relazione ad Audrey. Ma Holly Holightly è diversa. Lei era un’impostora. Ecco perché è un personaggio sfaccettato, il primo per Audrey. Non solo questo, ma […] è una donna sfaccettata che non viene punita per le sue trasgressioni. Quando Bette Davis interpretava la cattiva ragazza, il suo personaggio ne pagava le conseguenze. Quella era la morale degli anni ’30 e ’40. […] Colazione da Tiffany era una cosa diversa. È stato uno dei primi film a chiederci di essere comprensivi nei confronti di una giovane donna leggermente immorale. I film cominciavano a dire che se eri imperfetta non dovevi essere punita”.
Seconda Ondata: l’impatto su Gloria Steinem e Letty Cotty Pogrebin
Alla luce di quanto detto, possiamo notare come il personaggio di Holly Golightly abbia direttamente ispirato due delle figure più importanti del femminismo di Seconda Ondata.
Partiamo da Gloria Steinem.
Giornalista, attivista e co-fondatrice di Ms., storica rivista femminista, Steinem è una delle personalità che hanno ottenuto più copertura mediatica ai tempi della Second Wave del movimento, soprattutto nella prima metà degli anni ’70.
Nel 1961, Gloria Steinem aveva 27 anni, era single e viveva e lavorava a New York, sperimentando tutte le restrizioni imposte al proprio genere.
Colazione da Tiffany ha avuto un grande impatto su di lei:
[Holly Golightly] fa ciò che non dovrebbe fare in qualità di essere umano di genere femminile e si avventura nel mondo. Penso che questo abbia un enorme fascino per chiunque di noi si trovi […] a dover fare i conti con delle restrizioni, in quanto donne. Lei osa vivere una vita libera.
“[Holly Golightly] does what she is not supposed to as a female human being and voyages out into the world, and I think that has huge appeal to any of us who are in some part of restriction, as females. She dares to live a free life”.
“Non me ne ero resa conto quando lo vidi al tempo, ma è stato uno dei primi film in cui una donna era sessualmente libera e non veniva punita per questo… e questa era un’epoca in cui le riviste femminili avevano una formula: non potevi fare sesso al di fuori del matrimonio senza fare una brutta fine, nemmeno nelle opere di finzione”, ricorda Steinem.
“In un certo senso, i media in generale, e i film in particolare, ci dicono cosa è normale anche se non lo è. Normalizzano le idee, il modo in cui appari e il tipo di vita che conduci”, spiega Steinem, “e ciò che veniva normalizzato [prima di Colazione da Tiffany], anche se non sempre veniva vissuto, era molto, molto lontano da qualsiasi tipo di libertà. Holly in qualche modo si schiera dalla parte della libertà”, conclude la giornalista.
Ecco perché la rappresentazione fornita in Colazione da Tiffany ha avuto un grande impatto su di lei, arrivando a ispirare anche parte del suo look.
Le sue iconiche mèches bionde sui capelli castani, infatti, sono un dichiarato omaggio a Holly.
“Mi identificavo molto in lei, provenendo dalla campagna, da un contesto povero e fuori dal mondo”, spiega l’attivista.
Gloria Steinem è originaria di Toledo, Ohio, e da lì è partita alla volta della Grande Mela: “Come si dice nel film e nel libro: ‘camminare lungo una strada di campagna ogni giorno e un giorno semplicemente non tornare’. Mi sono identificata in lei come persona, quindi penso che la ribellione delle sue mèches mi abbia attratta sia per il contenuto che per l’estetica”.
Citiamo poi un’altra storica giornalista e attivista della Seconda Ondata, una delle principali editor di Ms., ossia Letty Cottin Pogrebin.
“Colazione da Tiffany mi ha folgorata. In quegli anni mi consideravo davvero un alter ego di Holly Golightly. Prima di tutto perché era così diversa dalla solita caricatura hollywoodiana di una donna. Era una donna che volevi essere. Certo, non aveva un lavoro e io ero orientata alla carriera […], ma il fatto che vivesse da sola in un’epoca in cui le donne semplicemente non lo facevano ha avuto un effetto molto validante per me. Era molto assertivo. Ecco questa donna incredibilmente glamour, eccentrica e leggermente bizzarra che non era convinta di dover vivere con un uomo. Era una ragazza single che viveva una vita propria e poteva avere una vita sessuale attiva che non era moralmente discutibile. Non avevo mai visto niente del genere fino a quel momento”.
“Nel 1961, tutto ciò che avevamo per rappresentare il cambiamento era un giovane presidente maschio”, dichiara ancora Pogrebin, “ma moralmente nulla era cambiato. Eravamo esattamente allo stesso punto. Poi è arrivata Audrey Hepburn, questa brava ragazza – quindi non ci poteva essere niente di male, no? – nei panni di Holly Golightly, e indossava questi splendidi abiti di Givenchy. Ed erano neri! È in quel momento che ho iniziato a pensare seriamente al nero. Non erano rosa o verde lime come avrebbero dovuto essere. Non avevano pizzi intorno al colletto o piccoli motivi a centrino”.
Sigarette e tubini neri: uno sguardo alla Prima Ondata
Prima di fare un salto avanti nel tempo, abbracciando l’eredità di questo personaggio, apriamo una piccola parentesi sul suo aspetto estetico, e dunque su abiti e accessori, analizzando l’indumento più presente all’interno del film, il little black dress o tubino nero.
Partiamo dal colore, il nero.
Nell’epoca vittoriana era indossato esclusivamente per esprimere il proprio lutto. Sam Wasson scrive che tradizionalmente, nel corteggiamento, il colore dei propri abiti giocava un ruolo non da poco: ci si aspettava che le donne si vestissero con abiti colorati per farsi notare. Il nero, al contrario, le avrebbe fatte passare inosservate ed era per questo motivo che veniva indossato dalle vedove e dalle suore. L’abito scuro, secondo Wasson, “agisce come una sorta di camouflage, maschile per contrasto, che permette loro di guardare senza essere guardate. È la scelta di qualcuno che non ha bisogno di attrarre. Qualcuno autosufficiente. Qualcuno più distante, meno conoscibile e, in definitiva, misterioso. Potente. È un look da uomo”.
Wasson aggiunge che “Per gli uomini che passavano, simboleggiava la conoscenza del sesso da parte di chi lo indossava. Simboleggiava l’esperienza” e forse è proprio per questo che il nero dall’essere associato alla vedova (che non doveva essere “toccata”) è finito per diventare il colore della femme fatale o comunque della donna sessualmente libera.
Forse anche la celebre e sensuale opera Portrait of Madame X (1884) di John Singer Sargent – ritratto di una socialite in nero, come Holly – può aver giocato un ruolo importante in questo senso, scandalizzando le platee del suo tempo.
Fatto sta che il nero diventa il colore più adorato dalle scatenate flapper degli anni ’20.
Ed è proprio in quel decennio, fra il 1925 e il 1926, che Coco Chanel inventa il Little Black Dress (petite robe noire): un semplice abitino nero, relativamente corto (per gli standard dell’epoca), adatto per tutte le occasioni. Le forme tubulari dei primi design ispireranno il suo nome italiano, tubino.
Questo nuovo indumento strizzava l’occhio allo stile garçonne (‘alla maschietta’), fornendo alle giovani donne maggiore libertà di movimento, in linea con l’emancipazione promossa dalle suffragette.
Grazie a Chanel, il nero non rappresenta solo il simbolo di una nuova libertà, ma anche una delle massime rappresentazioni del concetto di classe, eleganza e, come suggerisce David Roberts, anche potere economico.
Nei decenni successivi, questo colore ha assunto connotazioni molto diverse fra loro: simbolo di modestia durante la Grande Depressione e di lavoro durante la Seconda Guerra Mondiale, per poi tornare al centro della moda europea con il ritorno del little black dress promosso da Dior.
Secondo Sam Wasson, il conservatorismo degli anni ’50 ha riconnotato l’abito nero, soprattutto sul Grande Schermo, come la veste delle donne fatali (non solo in senso sessuale), in diretto contrasto con le tonalità pastello e i colori vividi e brillanti degli abiti delle mogli-casalinghe o di altre tipologie di personaggio.
Wasson scrive che nel cinema degli anni ’50 “solo le stronze vestono di nero”, citando Bette Davis in Eva contro Eva (1950) e Gloria Swanson in Viale del tramonto (1950). Il nero ispira potere, conoscenza sessuale e capovolgimento della tradizionale passività del sesso femminile e questi fattori “lo rendono il colore preferito da tutte quelle donne di cui i film pensano che dovremmo preoccuparci, e nella maggior parte dei casi hanno ragione”, ribadisce Wasson, contrapponendole ai personaggi intepretati da Jane Wyman e Doris Day, per i quali erano previsti abiti rosa e azzurri, decorazioni floreali e quant’altro.
Tuttavia, non possiamo certo parlare di regola assoluta, tanto che Doris Day ha indossato abiti neri in Amami o lasciami (1955) e Il visone sulla pelle (1962), ad esempio, e la stessa Audrey Hepburn è diventata un’icona di stile negli anni ’50 grazie a diversi outfit total black, fra cui il celebre abito con lo scollo a barca indossato in Sabrina (1954).
Possiamo dire, piuttosto, che negli anni ’50 il nero continua a essere associato con l’eleganza e quindi con la moda europea (francese, nello specifico): Chanel, Dior e poi Givenchy… è proprio a quest’ultimo che Audrey si affida a partire da Sabrina: in questo film, e nel successivo Cenerentola a Parigi (1957), lo stile del couturier evidenzia la trasformazione del personaggio di Audrey da modesta figlia d’autista a sofisticatissima madame nel primo, da libraia dimessa a modella d’alta moda nel secondo – il comune denominatore è l’ambientazione che fa da sfondo alla metamorfosi, ossia Parigi.
In questo senso, l’abito nero di Givenchy indossato da Audrey in Colazione da Tiffany poteva spiccare agli occhi della donna americana media (e la reazione di Pogrebrin, in questo senso, va sicuramente presa in considerazione), ma non sembra essere connotato come un simbolo di estrema sensualità o di dirompente rottura con la tradizione nel contesto del 1961, anche se la sua silhouette, con tanto di spacco, è certamente più sensuale rispetto ai precedenti little black dress indossati dall’attrice.
Più sensato, forse, un discorso che potrebbe ricollegare Colazione da Tiffany a Sex And The City in relazione a quanto certi capi di alta moda potessero apparire improbabili addosso alle due protagoniste: ancora oggi possiamo leggere articoli in cui vengono fatti i “conti in tasca” a Carrie, chiedendosi come riuscisse a permettersi certe spese (dalle scarpe Manolo Blahnick in su) e questo è ancor più vero per Holly.
“Ricordate,” dice la costumista Rita Riggs, “era naturale per Sabrina fare acquisti in una casa di moda francese in Sabrina, e Cenerentola a Parigi era ambientato nel mondo della moda di Parigi, ma Tiffany’s era incentrato su New York, su una ragazza che non sapeva nulla di mode europee. Ed era solo una povera ragazza del Texas […]! Non esiste un vero modo per spiegare come Holly abbia ottenuto quel vestito. A quel tempo, solo le donne americane più ricche avrebbero potuto avere corredi europei. Una ragazza normale non poteva permetterselo. Quindi Colazione da Tiffany è stata una svolta in questo senso. Una cosa del genere non l’avevamo mai vista prima”.
Come nel caso di Sex And The City, comunque, l’abbigliamento di Holly si poneva come qualcosa di simultaneamente prossimo e distante rispetto alla realtà delle telespettatrici: “Fino a Colazione da Tiffany, le donne glamour dei film occupavano strati sociali disponibili solo per le signore straordinariamente chic, avvolte in raso e foderate di ermellino […], a cui solo una vera star del cinema poteva mai aspirare. Ma Holly era diversa. Indossava cose semplici. Non erano così costose. E avevano un aspetto mozzafiato. In qualche modo, nonostante la sua mancanza di fondi e il suo background arretrato, Holly Golightly è riuscita comunque ad apparire glamorous. Se fosse una donna dell’alta società o una modella, potremmo essere meno colpiti dalla sua scelta di abbigliamento, ma poiché si è fatta da sola uscendo dalla povertà – ed è una ragazza, oltretutto – perché ha usato lo stile per superare le restrizioni della classe in cui è nata, la Holly di Audrey ha mostrato che il glamour era alla portata di chiunque, indipendentemente dall’età, dalla vita sessuale o dalla posizione sociale. Il look di Grace Kelly era safe, quello di Doris Day indesiderabile e quello di Elizabeth Taylor, a meno che tu non avessi quel corpo, irraggiungibile, ma in Colazione da Tiffany, quello di Audrey era democratico”, scrive Sam Wasson.
“Givenchy e Audrey ci hanno offerto un tipo di classe molto realistico e molto accessibile”, afferma il designer Jeffrey Banks. “All’improvviso, in Colazione da Tiffany, lo chic non era più una cosa irraggiungibile, solo per ricchi. Naturalmente, parte di ciò aveva a che fare con chi era Audrey e il tipo di persona che rappresentava per le persone, ma aveva anche a che fare con Givenchy. Lui, a differenza di Balenciaga, era un naturalista che aveva l’intento di mostrare il corpo così com’era, non di rimodellarlo o idealizzarlo. Sentiva che non dovevi usare molti accessori o abbellimenti e ha basato i vestiti sulla forma delle donne così com’erano, non come lui o la cultura voleva che fossero”.
“Dopo Tiffany, chiunque, indipendentemente dalla propria situazione finanziaria, poteva essere chic ogni giorno e ovunque”, conclude Banks.
Il tubino nero era qualcosa di facile da emulare: qualsiasi giovane donna nel 1961 poteva realizzarne uno o permettersi di acquistarne uno. Naturalmente, non si trattava sempre di pezzi d’alta moda, ma non importava: qualsiasi vestitino nero avrebbe funzionato. Era questo il bello.
In secondo luogo, c’è un altro elemento da prendere in considerazione: il lunghissimo bocchino, o portasigarette, che compare in Colazione da Tiffany e in alcune delle più celebri immagini promozionali del film.
Anche in questo caso dobbiamo ripartire dall’epoca delle suffragette, quindi dalla Prima Ondata femminista.
Nei primi decenni del XX secolo, l’atto di fumare era considerato inappropriato e immorale se compiuto da donne. Alcuni stati fecero addirittura ricorso alla legislazione: nel 1908, il Consiglio di Assessori di New York approvò con voto unanime un’ordinanza che proibiva alla donne di fumare in luoghi pubblici. Al contempo, l’International Tobacco League esercitò il proprio potere per impedire che potessero comparire donne che fumavano in pubblicità o film, a meno che non interpretassero il ruolo di prostitute e “poco di buono”.
Durante la Prima Guerra Mondiale, le donne iniziarono a svolgere le stesse mansioni degli uomini, sostituendo coloro che erano in guerra e, nonostante fosse ancora un tabù, iniziarono anche a fumare.
Poi arrivò il marketing: nel 1928, George Washington Hill, Presidente dell’American Tobacco Company, intuì il potenziale che avrebbe potuto ricavare espandendo il mercato della sigarette alle donne («è come trovare una miniera d’oro proprio nel nostro cortile») e decise di assumere Edward Bernays, oggi considerato il padre delle Pubbliche Relazioni. Bernays, a sua volta, si fece consigliare dallo psicanalista Abraham Brill, il quale dichiarò che l’istinto di fumare fosse giustificato per le donne, sempre più investite di incarichi fino ad allora tipicamente maschili.
Bernays scelse quindi di connotare le sigarette come un simbolo dell’uguaglianza fra uomini e donne:
«Oggi l’emancipazione delle donne ha soppresso molti dei loro desideri femminili. Più donne ora fanno lo stesso lavoro degli uomini. Molte donne non hanno figli; quelle che ne fanno ne hanno di meno [rispetto a prima, ndr). […] Le sigarette, che sono equiparate agli uomini, diventano fiaccole di libertà».
A scopo promozionale, Bernays assunse un gruppo di donne che potessero marciare durante la Easter Holiday Parade in New York del 1929, sfoggiando le loro “fiaccole di libertà”.
La femminista Ruth Hale appoggiò il progetto di Bernays, invitando tutte le donne a unirsi alla marcia al grido di: “Women! Light another torch of freedom! Fight another sex taboo!”.
Le foto e il filmato di quella manifestazione destarono scandalo, facendo il giro del mondo: la marcia fu vista come una protesta per l’uguaglianza dei diritti, animando il dibattito socio-culturale in tutti gli Stati Uniti.
Bernays riuscì con il tempo a sfatare il tabù del fumo femminile: la sua strategia permise di registrare un incremento delle vendite di sigarette tra le donne, che raddoppiarono tre il 1923 e il 1929.
Per le donne di quell’epoca, fumare diventò un modo per sfidare le norme sociali e lottare per la parità di diritti. La sigaretta diventò un simbolo di “indipendenza ribelle, glamour, seduzione e fascino sessuale sia per le femministe che per le flapper”, come scrive Allen M. Brandt.
Considerato che l’attuale sigaretta con il filtro era stata inventata solo nel 1925, gran parte del fascino insito nel fumare derivava dall’involucro, il portasigaretta, che conservò una certa popolarità fino agli anni ’70. La sua lunghezza consentiva un doppio vantaggio, che ben si confaceva a una socialite come Holly Golightly: tenere lontano il fumo dal volto ed evitare di sporcare le mani con la nicotina.
Furono soprattutto le donne a rendere glamour il portasigarette grazie alla sua introduzione nel mondo del cinema (e della moda): Marlène Dietrich, Rita Hayworth, Louise Brooks… e naturalmente Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany.
Sul grande schermo, il fumo non è più solo simbolo di sensualità e di emancipazione, ma anche di eleganza: il portasigarette diventa un tocco di classe.
All’inizio degli anni ’60, il fumo non era più strettamente associato ai moti femministi, ma poteva ancora rappresentare un simbolo di libertà: pensiamo a quando la principessa Anna, interpretata dalla stessa Hepburn in Vacanze Romane, si concede una sigaretta prima di avventurarsi per la città insieme al suo co-protagonista, sfuggendo al rigido protocollo reale.
In chiusura, possiamo notare come il fumo sia una parte preponderante della caratterizzazione di Carrie Bradshaw di Sex And The City, ma con una valenza tendenzialmente negativa. Proprio nel 1998, anno di debutto della serie in questione, il Master Settlement Agreement vietò l’inserimento di tabacco a scopo commerciale in film, serie tv e videogiochi negli Stati Uniti.
Si tratta di un provvedimento derivato da una crescente consapevolezza in merito ai danni del fumo da parte della società americana.
E così, per Carrie, il fumo è connotato come un vizio, una dipendenza per lei deleteria al pari del rapporto tira-e-molla con Mr. Big.
Notiamo infatti come Carrie sia spinta a smettere di fumare nel contesto della relazione con Aidan, ben più “sana” e stabile, salvo poi ricadere nel suo vizio proprio quando si ritrova a tradire il suo nuovo fidanzato con Big.
Tuttavia, la metafora è più complessa di quanto sembri, così come il rapporto di Carrie con il fumo nel corso della serie.
Sebbene Carrie accetti di smettere di fumare (o almeno di provare a farlo), sappiamo che in quel momento il fumo costituisce una grande componente del suo modo di essere, perciò il fatto di doverci rinunciare non è per forza connotato in modo positivo. Smettere di fumare fa bene alla sua salute, ma la porta a reprimere una parte di sé che, per quanto deleteria, fa parte della sua identità, accompagnandosi all’attrazione fatale per Mr. Big. Nonostante l’effetto dannoso che hanno su di lei, le sigarette (e la relazione con Big) sono ciò che permette a Carrie di sentirsi Carrie.
O almeno è così in quel punto della terza stagione, dato che in seguito la situazione si ripresenterà in modo diverso. Nel finale della serie, Carrie si trova a Parigi, una città in cui – a differenza di New York – le è permesso di fumare dappertutto.
Il suo nuovo fidanzato, Aleksandr Petrovsky, la incoraggia a farlo, dicendo che è “sexy”. Gene Borio scrive che l’attività del fumare è “glorificata” in questo finale*, ma il cambiamento d’umore di Carrie suggerisce diversamente.
* “Il finale di stagione di Sex and the City, in cui il personaggio principale Carrie Bradshaw riprende a fumare, sembrava glorificare l’attività. […] Non solo il suo pacchetto di Marlboro Lights è ben visibile per lunghi periodi di tempo, ma il godimento provato da Carrie nel ricominciare a fumare può essere descritto solo come ‘radioso’. C’è una sequenza […] in cui il suo ragazzo, interpretato da Mikhail Barishnikov, dice a Carrie cosa pensa di lei la sua ex moglie. Carrie ha appena preso una sigaretta dalla sua borsa quando Barishnikov dice: “Ti ha trovato…” ed è qui che il tempismo è fondamentale: proprio mentre la fiamma accende la sigaretta di Carrie e lei inizia a fumare, sentiamo le battute “bella, intelligente e chic” . Barishnikov in seguito tira una boccata da quella sigaretta e […] mentre sta salendo su un taxi, le dice: ‘Mi piace che fumi. È molto sexy'”.
Nonostante la sognante ambientazione parigina, Carrie si sente sola e insoddisfatta. Sente di aver perso sé stessa.
La risoluzione finale partirà dal ritrovamento del ciondolo con il suo nome, seguito dal ricongiungimento con Mr. Big, venuto a Parigi apposta per lei.
Il ritorno di Carrie a New York, come vedremo, è connotato come il ritrovamento della sua identità, ma da quel momento in poi non la vedremo più fumare: nei due film non accende neanche una sigaretta. Ricomincerà nel quarto episodio di And Just Like That (2021), il ‘nuovo capitolo’ di Sex And The City, per lo sgomento di molti: oggi è più raro vedere personaggi fumare sigarette in film e serie tv. Matthew Yglesias, riferendosi alla serie originale, aveva definito Carrie come “forse l’ultimo personaggio non-cattivo a fumare in tv”, evidenziando come casi più recenti fossero riconducibili ad alcolisti o spacciatori.
Curiosamente, verso la fine degli anni ’90, il concetto delle sigarette come “torce di libertà” si stava diffondendo, con quasi un secolo di ritardo, in Paesi dove le donne stavano reclamando una maggiore libertà, uguaglianza, equità nel mondo del lavoro – ad esempio nell’Europa dell’Est, nella Germania post-caduta del Muro, in Giappone e in altre nazioni dell’Asia e dell’Africa. Qui le sigarette diventano un simbolo del concetto di emancipazione femminile, fino a quel momento strettamente legato all’Occidente, in particolare agli Stati Uniti. Carrie Bradshaw incarna appieno quest’ideale, ma paradossalmente, a differenza delle donne non-americane, non è libera di fumare come e quanto vorrebbe, diventando il vessillo di un cambiamento nella concezione del fumo che ha portato alla definitiva rottura del binomio fra sigaretta ed empowerment femminile negli Stati Uniti.
Sex And The Single Girl
Riprendiamo le fila del discorso per citare un punto fondamentale dell’eredità di Colazione da Tiffany.
Alla luce di quanto abbiamo detto, forse non è un caso che solo un anno più tardi esca un libro che cambierà per sempre la condizione delle ragazze single, ossia Sex And The Single Girl (1962) di Helen Gurley Brown, un advice book che incoraggiava le donne a diventare finanziariamente indipendenti e a sperimentare relazioni sessuali prima del matrimonio, o senza sposarsi affatto.
Forse Colazione da Tiffany ha semplicemente intercettato lo spirito dei tempi, o forse Sex And The Single Girl non sarebbe potuto uscire se prima Holly Golightly non avesse incantato le platee americane. Non possiamo dirlo con certezza, ma Holly è comunque arrivata prima.
Da qui è un attimo ricollegarsi nuovamente a Sex And The City, a partire dalla somiglianza fra i titoli delle due opere in questione. Jennifer Scanlon suggerisce che Sex And The City sia “il discendente più diretto delle politiche sessuali introdotte da Helen Gurley Brown in Sex And The Single Girl“, mentre Jane Gerhard sostiene che Sex And The City renda direttamente omaggio a Sex And The Single Girl, notando come entrambi presentino un “collegamento tra l’indipendenza finanziaria delle donne e la loro liberazione sessuale”.
Alla luce di questo, alcune edizioni del libro lo presentano, a partire dalla copertina, come il diretto precursore di Sex And The City.
L’edizione del 2003 presenta, sul retro, un commento di Kim Cattrall, che nella serie interpreta Samantha Jones, la più dedita al sesso fra le quattro protagoniste della serie.
Helen Gurley Brown diventerà in seguito la direttrice di Cosmopolitan, la Bibbia delle donne single e in carriera, che non c’entra nulla con il drink reso celebre da Sex And The City, ma che ha molto a che fare con la vita di queste quattro amiche nella Grande Mela. L’intento di Brown era quello di cancellare lo stigma sulle donne non-sposate che fanno sesso, invitandole a divertirsi senza vergogna e sensi di colpa, e parlando di sessualità e sentimento dal loro punto di vista.
Donne single, amore e indipendenza, New York… ed ecco che torniamo a Colazione da Tiffany, ricollegandoci saldamente a Sex And The City.
L’outfit e l’acconciatura di Sarah Jessica Parker durante la presentazione del DVD del film di Sex And The City (2008) a NYC rendevano omaggio a Colazione da Tiffany. Inoltre, in occasione dell’uscita del DVD nel Regno Unito, la catena di videonoleggio LoveFilm organizzò un sondaggio per decretare quale fosse il miglior outfit mai indossato da una donna sul grande schermo e a vincere fu il tubino nero di Holly Golightly.
Finale post-femminista
La condizione di Holly, straordinariamente emancipata rispetto allo standard della propria epoca, ricorda curiosamente quella delle donne degli anni ’80 e ’90 che, grazie ai successi della Seconda Ondata, avevano potuto ottenere maggiori libertà rispetto alle proprie madri e alle proprie nonne, ma risultavano comunque insoddisfatte. Avevano ottenuto l’indipendenza economica, la libertà sessuale… ma sembrava che il più grande obiettivo della loro vita, quello che dava senso a tutto, fosse ancora l’amore di un uomo. È possibile ottenerlo senza rinunciare al resto?
Tale quesito è al centro del concetto di post-femminismo.
Con due anni di anticipo rispetto alla teorizzazione di Betty Friedan, Holly ha individuato e sconfitto la mistica della femminilità abbandonando la vita rurale impostale dall’ex marito Doc. Come scrive Zachary B. Wunrow, Holly “ha la libertà di districarsi in una miriade di situazioni sociali – da Sing Sing alla toeletta – ed è in grado di disabitare e invertire attivamente la sfera domestica a cui un tempo apparteneva. Non soffre più di quella che Friedan descrive come una ‘strana agitazione, un senso di insoddisfazione, un desiderio’ diffuso tra le donne sposate a metà del XX secolo”.
Tuttavia, Margaret Fox scrive che in Colazione da Tiffany “la fuga dai ruoli convenzionali, la liberazione sessuale e la ricerca dell’indipendenza potranno anche essere temi importanti, ma il film non li afferma. Al contrario, li spoglia del loro fascino; Holly, la paladina di questi ideali progressisti, alla fine li trova insoddisfacenti. L’infelicità e la paura motivano le sue azioni nel corso della storia”.
Questa lettura appare in contrasto con quanto sostenuto nei paragrafi precedenti, ma possiamo pensare che la caratterizzazione del personaggio si ponga a metà: Holly si è divertita, ma si è anche spesso sentita sola, depressa, spaurita.
“In effetti”, scrive Codie Thompson, “Holly possiede un senso di falsa libertà. È libera dal marito, quindi libera dall’essere moglie e avere responsabilità materne. È anche in grado di mantenersi finanziariamente senza marito e questo la rende indipendente… Ma non proprio”.
Infatti da un lato, come suggerisce Livi Player, si può pensare che la mansione di Holly sia un atto volto a “manipolare il patriarcato attorno a sé”, dall’altro è giusto evidenziare che in fondo sono gli uomini con cui esce ad avere il controllo: “Non importa come tenti di manipolarli, Rusty Trawler e Josè da Silva Pereira sono ugualmente capaci di abbandonarla quando non è più desiderabile. Alla fine è stata sempre dipendente da loro”, scrive Margaret Fox. Senza parlare di Sally Tomato, che sfrutta segretamente Holly per comunicare con la mafia finché le autorità non si rendono conto di cosa sta succedendo.
In questo senso, notiamo come il personaggio di Paul Varjak ci venga presentato in una condizione simile: è un mantenuto che riceve soldi da una donna più matura, la sua “arredatrice”. In due modi diversi, Holly e Paul sono in grado di liberarsi dal rapporto di dipendenza che caratterizzava le loro vite: “Due persone con vite disfunzionali e insoddisfacenti trovano la felicità l’una nell’altra”, scrive Margaret Fox.
Tuttavia, buona parte della critica femminista non ha apprezzato il finale romantico, sostenendo che vada a contraddire tutto ciò che si era visto fino a quel momento. Holly è descritta come uno spirito libero, selvaggio, ma alla fine del film incontra comunque il suo amato. In questo senso, c’è chi sostiene che Holly venga “salvata” da un uomo, ma in verità è stata lei a dare il via alla liberazione di lui, regalandogli un nastro per la macchina da scrivere. C’è chi dice che l’identità di Holly venga riscritta da Paul, che infatti scrive letteralmente di lei, ma è anche vero che è lei la prima a imporre a Paul una nuova identità, rinominandolo “Fred” come suo fratello, allo stesso modo in cui rinomina sé stessa e gli altri uomini attorno a sé in base alla loro ricchezza e alla considerazione che mostrano nei suoi confronti (verme, superverme, etc). C’è chi sostiene che Holly venga sempre definita attraverso il suo rapporto con un uomo: da ex moglie di Doc a pupilla dell’agente di Hollywood, fino a nuova compagna di Paul.
In questo senso, Zachary B. Wunrow individua una brillante analogia con l’omaggio racchiuso nella scatola di Cracker Jack (“noccioline”, nell’adattamento italiano): la “sorpresa” potrebbe essere inizialmente identificata con lo stile di vita di Holly, ma alla fine il contenuto risulta essere più conservatore di quanto l’involucro avesse lasciato intendere. “L’anello è stato nella scatola di Cracker Jack per tutto il tempo, per essere passato dal suo ex marito Doc Golightly a un secondo protettore patriarcale Paul Varjak”.
Tuttavia, tale risoluzione sembra coincidere alla perfezione con il discorso sulle principesse Disney post-femministe le cui storie, secondo Cassandra Stover, evidenziano il passaggio da “un principe qualunque” a “il giusto principe”, con l’enfasi sulla scelta sentimentale dell’eroina che diventa parte integrante della sua autodeterminazione.
Ed è proprio in questo senso che il discorso finale fra Holly e Paul acquisisce particolare valore: l’amore con la persona giusta non ti mette in gabbia, ma ti libera. Quello che si delinea nel corso del film è un rapporto alla pari: Holly non ha bisogno di Paul per soldi o per altro, quindi può essere semplicemente sé stessa. E lui la ama per quello che è.
È l’unico a capirla anche nei momenti di debolezza e sconforto, mentre Josè si sente confuso e imbarazzato di fronte alla crisi che la coglie dopo aver appreso della morte del fratello.
Sempre riguardo a Josè, nell’ultima parte del film notiamo come Holly cerchi di fare “bella figura” ai suoi occhi assumendo comportamenti tradizionalmente associati alla femminilità in ambito domestico: la vediamo che fa l’uncinetto e che cerca di imparare a cucinare, ma davanti a Paul la maschera cede (e la pentola scoppia), mostrando quanto sia artefatto e fallace il suo tentativo di incarnare un ideale che non le appartiene.
Holly ha davanti a sé un uomo (Paul) che l’ama per quella che è, ma cerca di cambiare per un altro uomo (Josè) che non l’ama veramente, e da cui mira a essere dipendente a livello economico. In questo senso, la scelta finale di Holly si lega strettamente alla preservazione della sua identità e (ipotizziamo) della sua indipendenza: Paul ha cominciato a guadagnare qualcosa dai suoi racconti, è vero, ma non è certo benestante, quindi potrà essere necessario che si metta a lavorare anche lei – magari nel campo delle Pubbliche Relazioni, mettendo a frutto le sue doti persuasive.
Colazione da Tiffany mette dunque in scena una questione spiccatamente post-femminista, quella che vede al centro la possibilità di coniugare la propria individualità con una storia d’amore, e lo fa con due o tre decenni d’anticipo rispetto agli anni ’80 e ’90, quando la suddetta tensione si rifletterà in modo più evidente sui prodotti mediali. Risulta dunque centrale anche il concetto alla base del mantra “Women can have it all”: Susan Douglas scrive che il suo desiderio, da spettatrice, era che Holly riuscisse a conservare la propria identità e al contempo “tenersi [George] Peppard”, ossia l’attore che interpreta Paul, evidenziando tuttavia come “quello che rendeva il personaggio significativo all’epoca non era il fatto che ottenesse Paul, ma il fatto che riuscisse a farla franca con ogni sorta di anticonformità senza mai pagarne il prezzo”.
Sempre tracciando un parallelismo con le principesse del Rinascimento Disney, notiamo come per la protagonista l’incontro con il “principe” sia accidentale: “Holly va alla ricerca della versione selvaggia e indipendente di se stessa e lungo la strada trova Paul”, come scrive Kendall Varin.
Secondo Tatjana Mastilo, che cita Patricia Mellencamp, in film come Colazione da Tiffany “la grande avventura delle donne è la storia d’amore, quella che sono socialmente autorizzate a ricercare”, ma è importante aggiungere che all’amore non si accompagna per forza la fine del viaggio, anzi. Se la scena finale de La Sirenetta (1989) vedeva Ariel ed Eric salpare con la nave nuziale mentre si sentiva il coro intonare “Now we can walk, now we can run, now we can stay all day in the sun” (“Ora possiamo camminare, ora possiamo correre, ora possiamo stare tutto il giorno sotto il sole”), suggerendo come il sogno d’esplorazione della protagonista fosse appena iniziato, allo stesso modo anche il bacio finale di Colazione da Tiffany è accompagnato dal leitmotiv del film, ossia Moon River: anche qui c’è un coro, che intona “Two drifters off to see the world, there’s just a lot of world to see” (“Due vagabondi in giro a vedere il mondo, c’è così tanto mondo da vedere”). Holly cantava rivolta a un immaginario Moon River, ma nel finale appare evidente che è di Paul che si sta parlando: da quel momento in poi, i due potranno ‘viaggiare’ insieme.
Insomma: si può essere indipendenti e comunque sentirsi legate a qualcuno; si può essere libere di girare il mondo e avere comunque un porto sicuro. Per Holly si tratta di New York City, e questo ci riporta nuovamente a Carrie Bradshaw.
La fine della Storia
Secondo Darren Star, l’ideatore di Sex And The City, la serie si basava sul fatto che le donne non avessero “bisogno di essere definite dalla presenza di un uomo, o dal matrimonio”. Tuttavia, sebbene alcune delle rotture più celebri nel rapporto fra Carrie e Mr. Big puntino proprio sull’indipendenza di Carrie come forma di empowerment femminile, il messaggio che la serie veicola è più complesso: da un lato sembra voler legittimare lo stile di vita delle quattro protagoniste, dall’altro mostra come lo spettro della condizione di ‘zitella’, con stigma annesso, continui ad aleggiare nell’esistenza di queste donne – e dell’intero genere femminile – alle porte del Nuovo Millennio.
E così, nonostante Carrie, Samantha, Charlotte e Miranda siano economicamente indipendenti, realizzate professionalmente e libere sessualmente, la presenza o la mancanza dell’uomo giusto ricopre un certo peso nella loro vita. È come se fosse il pezzo mancante del puzzle, quello che dà senso a tutto, completando il loro viaggio nel mondo.
E così, da un lato la serie si prende gioco dei cliché delle commedie romantiche e dall’altro ci gioca in prima persona. Da un lato strizza l’occhio alla libertà del sesso occasionale e dall’altro all’importanza di trovare un fidanzato con cui sistemarsi.
Già nel primo episodio della prima stagione, in cui si afferma che le donne possano fare sesso “come gli uomini” – ossia “senza provare sentimenti” –, notiamo come l’incontro con Mr. Big riporti il percorso di Carrie su binari più vicini a una tipica commedia romantica, rispetto a quanto la prima parte dell’episodio sembrasse suggerire.
E quindi, sebbene Darren Star dichiari che il finale dell’ultima stagione abbia “tradito” le aspettative della serie (che nel frattempo era passata in mano a Michael Patrick King), in verità possiamo dire che si tratti della manifestazione più estrema di un equilibrio di contraddizioni che aveva caratterizzato l’opera fin dal principio, configurandola come un prodotto post-femminista.
E così, nell’ultima scena dell’ultimo episodio di Sex And The City, Carrie (in voice over) chiarisce che “la relazione più importante, difficile ed emozionante è quella che si ha con se stessi”, ma nel frattempo riceve una chiamata che riporta l’attenzione di chi guarda sulla relazione sentimentale con Big, anche se questa viene presentata come un plus: “E se trovi qualcuno che ti ama e che ami… beh, allora è davvero fantastico!”.
La storia suggerisce infatti che Carrie abbia prima ritrovato sé stessa – la sua identità è rappresentata metaforicamente dalla collanina che porta il suo nome – e poi sia stata “trovata” da Big.
In questo senso, il percorso di Carrie va a sovrapporsi con quello di Holly Golightly: entrambe rifiutano il pretendente ‘sbagliato’ per quello ‘giusto’, quello che le conosce bene, le capisce e le apprezza per quello che sono. In verità sappiamo che fra Big e Carrie non è sempre stato così – tanto che quest’ultima, nelle stagioni precedenti, aveva più volte affermato di non sentirsi sé stessa con lui –, ma il lieto fine sta proprio nel fatto che Big riesca finalmente a vederla per quello che è, ossia “the one”, ‘quella giusta’. E questo avviene solo dopo che Carrie ritrova la sua collanina, capendo che per stare con Petrovsky stava rinunciando a sé stessa. Trasferendosi a Parigi, aveva accantonato il suo lavoro, le sue amiche… tutta la sua vita.
E poi compare Mr. Big, che The Take identifica come una metafora di New York: “Riportami a casa”, chiede Carrie.
Sembra quindi che l’identità di Carrie e di Holly possa sentirsi “a casa” solo nella Grande Mela, e nella relazione con Big e Paul.
Una relazione che appare come un salto nel vuoto e allo stesso tempo come qualcosa di naturale, una zona di comfort in cui sentirsi completamente sé stesse, come a New York. In fondo, entrambe le storie giocano con gli opposti, coniugando tradizionalismo e progressismo.
Quando Holly e Paul porgono al commesso di Tiffany un anello trovato all’interno di una scatola di Cracker Jack, quest’ultimo reagisce meravigliato: “Mettono ancora le sorprese nei pacchetti di noccioline? È una cosa che dà un senso di fiducia, direi di continuità fra il passato e il presente”, ed è proprio in quest’ottica che va considerata la risoluzione romantica in entrambe le opere.
Sex And The City cita Colazione da Tiffany anche nella storyline incentrata su Miranda e Steve nell’episodio 8 della seconda stagione.
In questo senso, risulta particolarmente emblematica una scena dell’ultimo episodio della quarta stagione di Sex And The City, quando Carrie va a trovare Big in un appartamento semivuoto, con lui che annuncia che sta per abbandonare la Grande Mela per trasferirsi a Napa, in California.
“Non puoi lasciare New York, sei il grattacielo Chrysler!”, ribatte Carrie, ma lui non vuole sentire ragioni. Per siglare il loro (temporaneo) addio, i due ballano sulle note di Moon River di Henry Mancini, il leitmotiv di Colazione da Tiffany. È Big a sceglierlo come sottofondo musicale: non appena Carrie riconosce le prime note del brano, lo guarda e con tono beffardo sussurra: “Non farai sul serio…”. Poi, nella versione originale, aggiunge: “So corny…”, che si può tradurre con “È così sdolcinato” o “È così trito e ritrito”, mentre nell’adattamento italiano dice “È datato”, al che Big risponde: “No, è un classico”.
Si tratta forse del dialogo più rappresentativo di uno dei temi centrali dell’opera: il romanticismo non è morto, come proclamava Carrie all’inizio della serie, ma per sopravvivere deve adattarsi alla contemporaneità, riempendosi di nuovi significati. Così anche la concezione del matrimonio come gabbia dell’individualità femminile e tomba dell’amore può essere superata. E si torna a New York con occhi diversi.
Si ringrazia Nicola Carollo per il reperimento di buona parte
degli screenshot di Sex And The City, e Silvio Di Gregorio per la sua zelante inadempienza.
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Wunrow, Zachary B. Holly Golightly and the Endless Pursuit of Self-Actualization in “Breakfast at Tiffany’s”, 2014
http://www.inquiriesjournal.com/articles/915/holly-golightly-and-the-endless-pursuit-of-self-actualization-in-breakfast-at-tiffanys
Ygleasias, Matthew. Carrie Bradshaw and the decline of the non-deviant smoker, 2014.
https://www.vox.com/2014/7/21/5923747/carrie-bradshaw-and-the-decline-of-the-non-deviant-smoker
Videografia
https://www.youtube.com/watch?v=tvpd5PyJ6f8
https://www.youtube.com/watch?v=0Gs-l6yHKHY&t=1959s
https://www.youtube.com/watch?v=mIbIcJHKnXM&t=1688s
https://www.youtube.com/watch?v=nrHo3UCMDPY
https://www.youtube.com/watch?v=EFI6xJGx8-A&t=118s
https://www.youtube.com/watch?v=iF5u7y6Qd48&feature=emb_title
Gloria: In Her Own Words, 2011.
«Maybe mistakes are what make our fate… without them what would shape our lives? Maybe if we had never veered off course we wouldn’t fall in love, have babies, or be who we are. After all, things change, so do cities, people come into your life and they go. But it’s comforting to know that the ones you love are always in your heart… and if you’re very lucky, a plane ride away».
Carrie Bradshaw in Sex And The City (episodio 18×04)
All’uscita dalla sala dove era stata proiettata la prima di Colazione da Tiffany, Audrey disse al suo agente Kurt Fring che quell’interpretazione era stata la più difficile, e la migliore della sua vita.