Nella sua corsa alla conquista del pianeta, la bambola più famosa del mondo ha riscontrato una particolare resistenza nel Paese del Sol Levante, con il quale ha instaurato un rapporto di amore e odio che va avanti da oltre 60 anni. Infatti è proprio in Giappone, dove i suoi primi esemplari furono prodotti, che l’icona bionda non è mai riuscita davvero a sfondare.
Si tratta di una storia complessa, che merita di essere raccontata.
La storia di un’egemonia statunitense e di una resistenza nipponica.
La storia di due bambole: Barbie e Licca.
Il presente articolo ha potuto godere della consulenza e del prezioso contributo di:
Aurora Canepari, direttrice del Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone di Genova.
Anna Specchio, professoressa e ricercatrice di lingua, letteratura e cultura giapponese presso l’Università di Torino e di Bologna.
Come nasce una bambola, anzi due (1959-1967)
1959. Barbie nasce.
Dalla mente della sua creatrice Ruth Handler, certo, ma anche e soprattutto dall’industria giapponese: Barbie è made in Japan, e lo sarà fino al 1972. Come scrive Matteo Boscarol, le prime Barbie vennero prodotte in Giappone, con lavoratrici a domicilio che ne cucivano i vestiti, “donne che probabilmente avevano ancora davanti agli occhi gli incubi della devastazione e dei dolori della guerra”.
L’ingresso di Barbie sul mercato giapponese, qualche anno più tardi (1962-63), viene accolto tiepidamente.
Parliamo di un’epoca in cui lo straniero, soprattutto se americano, veniva visto con un misto di curiosità e diffidenza.
Sōichi Masubuchi, ex professore di Estatica all’Università femminile del Giappone, scrive che il giapponese medio non aveva spesso l’occasione di vedere persone straniere, e considerava “strani” i capelli biondi.
Subentrava anche un sentimento di inferiorità: “gli americani avevano grandi automobili e climatizzatori in un periodo in cui nelle case giapponesi non c’era nemmeno il frigo”, sostiene Masubuchi.
1967. La Takara Corp., all’epoca produttrice di vinili, decide di lanciarsi sul mercato del giocattolo: meditando di realizzare una casa per bambole in stile americano, si rende conto che sarebbe stata troppo grande per la maggior parte delle case giapponesi dell’epoca. Oltre a produrne una versione pieghevole, perfetta per giocare sul tatami, decide di realizzare una bambola che potesse entrarci: nasce così Licca-chan.
La lotta per il potere, le sfrenate passioni, gli intrighi, i tradimenti (1967-1991)
Da quando Licca-chan fa la sua comparsa sul mercato, non c’è gara.
La bambola giapponese stravince su quella americana.
Dopo qualche tentativo di emulazione, Mattel si arrende.
“Se non puoi sconfiggerli, unisciti a loro”, si dice.
E così, Mattel si allea con Takara.
La loro prima co-produzione risale al 1978 e costituisce un importante banco di prova: si tratta di Lady Maria, un personaggio che sembra uscito da uno shōjo manga dell’epoca, ma che condivide con Barbie il fatto di essere una teenage fashion model americana, con i capelli biondi.
Qualche anno più tardi, nel 1982, debutta finalmente la Takara Barbie, ufficializzando la collaborazione fra i due produttori di giocattoli.
Il corpo, come quello di Lady Maria, è più alto di quello di Licca (si tratta, dopotutto, di una teenager); il torso è quello della bambola Francie (la cugina mod di Barbie, l’unica ad aver avuto particolare successo fra i collezionisti giapponesi nel decennio precedente), mentre le braccia e le gambe sono quelle tipiche della Takara. Lo sculpt del viso la fa assomigliare maggiormente a Licca rispetto alla precedente Lady Maria.
I capelli sono biondi, ma gli occhi sono castani.
Fu un grande successo, che permise alla Takara Barbie di diventare la seconda bambola più venduta in Giappone dopo Licca-chan.
L’idillio, però, dura poco. Nel 1984, la collaborazione di Takara con Hasbro per le linee dei Transformers accende sospetti e malumori in Mattel.
In un primo momento, il produttore di Barbie teme che Takara riveli i suoi segreti aziendali al rivale americano; in seconda battuta, rinfaccia loro di non essersi “impegnati abbastanza” per lanciare i giocattoli della serie Masters of the Universe (He-Man) in Giappone.
Nel 1986, la loro collaborazione giunge al capolinea.
Così da un lato abbiamo la Takara che, conservando la licenza per la produzione della bambola in questione, la rimette in commercio cambiandole il nome in Jenny e mantenendo le sue origini americane (e il secondo posto come bambola più venduta del Paese).
Dall’altro abbiamo Mattel che si allea con Bandai, storico competitor di Takara, per lanciare una nuova Barbie in Giappone.
Quando Bandai Barbie viene lanciata, le somiglianze con Jenny si sprecano, al punto che la Takara denuncia Bandai e Mattel.
In risposta, Bandai cambia leggermente gli occhi della sua Barbie.
Continuerà a produrla fino al 1991, quando apre la filiale giapponese di Mattel.
Da quel momento in poi, Mattel porrà fine ai tentativi di produrre un corrispettivo giapponese di Barbie, proponendo la versione originale della bambola anche sul mercato nipponico, salvo occasionali variazioni ed esclusive edizioni.
Nel 1992, il Giappone accoglie di buon grado la Totally Hair Barbie, la più venduta di sempre, ma Licca e Jenny rimangono salde al primo e al secondo posto. Nonostante l’entusiasmo delle testate americane, che si aspettano un suo “boom” sia nel 1992 che nel 1996, Barbie non sbancherà mai nel mercato dei giocattoli giapponesi.
Perché lei no e Licca sì?
Proviamo a darci una risposta.
Barbie VS Licca: una battaglia persa in partenza
Nonostante i tentativi di Barbie di sbancare in Giappone, il secondo più grande mercato del giocattolo al mondo, al primo posto c’è sempre lei, Licca.
Per capire perché, conosciamo meglio questa bambola.
Le sue origini si legano strettamente all’estetica degli shōjo manga, i fumetti per ragazze che proprio negli anni ’60 stavano fiorendo in Giappone (come avevo spiegato qui), tanto che il prototipo della bambola viene realizzato ispirandosi alle illustrazioni della celebre Miyako Maki, presentata come supervisor del design.
Le sue illustrazioni adornavano le pubblicità del prodotto, la brochure in omaggio con i primi modelli, e varia oggettistica legata a Licca-chan.
Si tratta di una bambola “a misura di giapponese” sotto vari aspetti.
Come abbiamo detto, Licca-chan nasce per entrare in una casa delle bambole che, a sua volta, potesse entrare in una casa giapponese dell’epoca. La sua altezza, 21 cm, permetteva alla bambola di essere portata nel palmo della mano da una bambina, oltre a connotare fortemente la sua immagine.
La stessa Licca, infatti, è poco più di una bambina: lo notiamo dalla statura, ma anche dal corpo minuto e dal volto dolce e infantile.
Niente di più lontano da Barbie, che presenta un volto truccato e un corpo adulto, con seno e fianchi. Siamo abituati a percepire come irrealistiche le sue proporzioni, ma Sōichi Masubuchi ci offre un diverso punto di vista: “Le bambole americane rievocano i corpi umani in modo realistico”, scrive, mentre “i giapponesi rispettano un sentimento volto alla semplicità delle bambole”, che permette a queste di avere corpi astratti, che si collocano al di fuori dello spazio, del tempo e della realtà stessa.
“Nella tradizione giapponese, i corpi delle bambole (es. hina-ningyō, kokeshi) sono stilizzati, astratti, celati”, mi ha confermato Aurora Canepari: “oltre a garantire una più semplice realizzazione, questa scelta può derivare da un riserbo nella rappresentazione del corpo nudo femminile, in contrasto con la nostra tradizione, che – dalle statue delle divinità greche e latine ai crocifissi – ha sempre rappresentato la nudità nell’arte”. Questo si lega anche al desiderio di immaginare, più che vedere: “come nelle stampe Bijin-ga (美人画, lett. “immagini di belle donne”), in cui le donne mostravano solo piccole porzioni di pelle nuda (collo, spalla, mani), per stimolare l’immaginazione dello spettatore”.
“Quello di Licca-chan è forse il primo corpo di bambola giapponese che si può vedere e toccare”, conclude Aurora Canepari.
Alla luce di quanto detto, risulta evidente come il fisico di Barbie, formoso e realistico nella sua nudità, possa apparire inopportuno ad occhi giapponesi. Nel 1992, l’allora presidente della filiale giapponese di Tokyo affermava: “Alcune madri qui dicono ancora che i grossi seni di Barbie sono troppo sexy e provocanti per dei bambini”.
A risultare destabilizzante era anche il fatto che il volto della bambola americana presentasse una bocca aperta, con i denti bene in vista.
Parliamo di un Paese in cui, ancora oggi, molte donne sono solite coprirsi la bocca con la mano quando ridono.
Su questo fronte, Aurora Canepari cita una separazione, ben salda nella cultura giapponese, fra omote e ura (interno ed esterno): “aprendo la bocca, o facendo trasparire le mie emozioni, sto esponendo la persona che ho di fronte a qualcosa a cui, di norma, non sarebbe tenuta ad assistere; tale comportamento è considerato profondamente scortese”.
La risata, quindi, viene celata dietro una mano (o un ventaglio, in tempi più antichi) sia per evitare di mostrare l’interiorità del proprio corpo – in questo caso della bocca – sia per evitare di mostrare la propria interiorità emotiva.
Come suggerisce Canepari, anche l’o-haguro, la tradizionale pratica del tingersi i denti di nero (in voga fino ai primi del ‘900), potrebbe avere a che fare con questo concetto: l’interno della bocca quasi scompare alla vista, rendendo più ambigua l’espressione.
Alcune geisha che praticano l’o-haguro.
Un altro elemento destabilizzante si potrebbe celare negli occhi di Barbie.
A partire dal 1971, la bambola americana guarda dritto davanti a sé: il suo sguardo, ora diretto e non più sfuggente, diventa un simbolo retroattivo delle battaglie femministe degli anni ’60 e ’70.
Anche le ragazzine illustrate sulle riviste shōjo di quegli anni cominciano a guardare dritto davanti a loro, disfandosi di quell’aura di riservatezza e modestia femminile che veniva loro imposta (come scrivevo qui), ma questo non vale per Licca-chan, che ancora oggi guarda sempre a lato.
“Machi Nishiyama, di anni 6, era alla ricerca di bambole in un negozio di giocattoli di Ginza quando le sono stati mostrati due modelli. Una era una bambola glamour di nome Barbie, replica di un modello degli anni ’60, con una presenza incredibile, un pesante eyeliner, un vestito che lascia scoperte le spalle e un girocollo di perle. L’altra, di nome Licca, era una bambola più piccola con occhi grandi e un abito semplice, lungo fino al ginocchio.
‘Voglio Licca’, disse Machi senza esitazione. Quando le fu chiesto il perché, indicò Barbie e disse: ‘Perché i suoi occhi fanno paura’”.
Estratto da “Barbie’s Journey in Japan”, The New York Times, 22 dicembre 1996.
Traduzione mia.
“Se una bambola ti fissasse in volto, ti farebbe un po’ paura”, dichiara Ayumi Kinoshita, product development manager di Licca Group, che sostiene che il design del volto della bambola trasmetta un’ambiguità che la avvicina alle bambole tradizionali kokeshi.
A tal proposito, Aurora Canepari cita l’abitudine giapponese di non fissare mai negli occhi il proprio interlocutore per non risultare sgarbati (“se fissiamo negli occhi una persona, è come se richiedessimo una sua reazione, una sua risposta; si tratta di un pensiero che dovremmo risparmiargli”), ma evidenzia come esistano diverse tipologie di kokeshi (molte di queste hanno uno sguardo più diretto, come altre bambole tradizionali), premettendo che – a differenza di Licca – non si tratta di giocattoli, ma di prodotti d’artigianato locale, spesso venduti come souvenir di viaggio.
Il paragone che la direttrice del Chiossone si sente di proporre è quello con i kewpie, bambolotti americani che, giunti in Giappone, risultarono fondamentali per plasmare il concetto di kawaii nella sua attuale accezione (come avevo scritto qui), tanto che oggi vengono spesso erroneamente identificati come giapponesi.
L’espressione di Licca-chan può anche essere associata a Hello Kitty, come sostiene Kinoshita: in questo caso, l’ambiguità non è data dallo sguardo, ma dalla mancanza della bocca. A testimoniare nuovamente quanto una bocca aperta possa risultare inopportuna agli occhi dei giapponesi, citiamo lo sgomento a cui i telespettatori vanno incontro ogni volta che Hello Kitty compare in versione anime, come evidenziato nell’ottavo episodio della seconda stagione del documentario The Toys That Made Us di Brian Volk-Weiss. In questo caso, la gattina passa dal non avere una bocca… ad averne una (quasi) sempre spalancata!
Riferendosi a Licca, Kinoshima spiega: “Se ridesse, le persone penserebbero che si stia divertendo, ma lei non sta sorridendo e non sta mostrando i denti. Puoi interpretare la sua espressione in molti modi”.
Questa è esattamente la risposta che la Sanrio, casa produttrice di Hello Kitty, fornisce a chi si chiede come mai la gattina non abbia una bocca: l’ambiguità della sua espressione permette allo spettatore di proiettare sul personaggio qualunque sentimento voglia. In questo modo, Hello Kitty può riflettere lo stato d’animo di chi la guarda, che può immaginare di essere felice o triste insieme a lei.
Possiamo pensare che qualcosa di molto simile avvenga con Licca.
Licca prova empatia per la bambina e la bambina prova empatia per Licca. Il sentimento provato per la bambola può ricollegarsi alla concezione originale di kawaii, che si riferiva a qualcosa per cui provare tenerezza, quasi pena (anche di questo ne ho parlato qui).
Licca è kawaii perché appare fragile e indifesa, ispirando un senso di protezione. Non solo per il suo aspetto, ma anche per la sua backstory, come evidenzia la collezionista Kumi Ikeda: “Sua madre si dà da fare da sola, e Licca-chan chiede dove sia suo padre. Questo ha ispirato empatia nelle bambine, catturando i loro cuori. [Licca] non è solo carina e solare, ma presenta una leggera sfumatura di tristezza. Vuoi proteggerla, è come se lei dicesse: ‘Non lasciarmi da sola’”.
Questo concetto la allontana parecchio da Barbie, donna adulta, indipendente e realizzata: in quel caso, le bambine mirano a diventare come lei, non sentono di doverla proteggere.
“In questo senso, la funzione di Licca-chan potrebbe porsi a metà strada fra quella di una fashion doll in stile Barbie e quella di un bambolotto con cui le bambine giocano a fare la mamma”, sostiene Aurora Canepari.
Il contrasto prende vita anche da diversi valori culturali, come evidenza Masubuchi, che parla di un attrito (bunka masatsu) fra la cultura “adulta e sexy” promossa dagli americani, e quella “carina e infantile” apprezzata dei giapponesi.
“Agli americani piace il sexy e ai giapponesi piace il cute“, riassume Masubuchi: “nel mercato delle bambole, questi due valori entrano in collisione”.
Ribadiamo inoltre come Barbie rappresenti un modello di bellezza irraggiungibile, oltre che fortemente connotato come “occidentale” agli occhi dei giapponesi.
“Licca-chan ha come modello la realtà, mentre Barbie ha un ideale”, sostiene Anna Specchio. Alla luce di questo, “Licca incarna un canone estetico più facilmente raggiungibile”, spiega la professoressa.
Qui torna nuovamente in campo il corpo di Barbie, in particolare il suo fisico prorompente, che risulta alieno nella cultura giapponese, in cui le donne, come spiega Specchio, sono “abituate ai kimono ed altri abiti che tradizionalmente occultano seno e forme”. Infatti, “il seno prorompente in vista, o le scollature, non rientrano nei tradizionali canoni di abbigliamento del Giappone, dove è più usuale vedere gambe scoperte, ma non il seno”.
Insomma, Barbie si fa portatrice di un ideale di bellezza lontano non solo dalle bambine, ma anche dalle donne giapponesi. Al contrario, Licca-chan si avvicina maggiormente alla fisionomia, al gusto e ai canoni estetici giapponesi: ha gli occhi tondi e luminosi da eroina degli shōjo e una statura ridotta che la fa apparire kawaii, ispirando protezione, ma anche immedesimazione e aspirazione agli occhi delle bambine. Sebbene sia stata ritratta occasionalmente come una teenager (Lady Licca) o come un’adulta, Licca-chan è ufficialmente una bambina di 11 anni, ed è in questa versione che è entrata nell’immaginario collettivo.
Occorre ricordare, come spiega Eric Weber, ex presidente della filiale giapponese della Mattel, che nel mercato giapponese “i bambini non aspirano a diventare grandi” perché “quando sei un teenager devi studiare tutto il tempo”. Le bambine giapponesi sono quindi alla ricerca di modelli femminili più vicini a loro, anche come età.
Il corpo di Licca-chan permette di aggiungere un ulteriore “strato” di immedesimazione grazie agli abiti che indossa, che rispecchiano la vita quotidiana e i gusti delle bambine, più che la moda.
Come scrive Masubuchi, quest’aspetto era amplificato dal fatto che, talvolta, le madri giapponesi realizzassero gli abiti per la bambola con gli stessi materiali utilizzati per gli abiti delle figlie: quando questo succedeva, l’immedesimazione poteva dirsi completa.
Al contrario, l’abbigliamento di Barbie rispecchia uno stile di vita più adulto, smaccatamente americano. Negli Stati Uniti, come scrive Arisa Shibagaki citando Sōichi Masubuchi, non è inusuale che una famiglia della middle class americana possieda una piscina, quindi l’abbigliamento della prima Barbie, con l’iconico bikini a strisce bianche e nere, rispecchia l’american way of life.
Inoltre, Barbie indossa abiti e divise legati alle innumerevoli professioni da lei intraprese, assumendo i tratti di una donna adulta e indipendente.
Sotto quest’aspetto, “Barbie è troppo realistica per le bambine giapponesi”, scrive Shibagaki, e quindi “si allontana dai loro sogni”.
Nel 1996, il New York Times faceva notare come la Barbie con i rollerblade, che riscosse grande successo in quegli anni negli USA, non ebbe la stessa accoglienza fra le bambine giapponesi, che le avevano preferito la Barbie che trasportava la sorellina Kelly sul passeggino.
Insomma, Barbie continuerà a risultare “un po’ spaventosa” per madri e bambine giapponesi fino a che non diventerà più rassicurante, premurosa e orientata alla famiglia, come sosteneva Eric Weber, ex presidente della filiale giapponese di Mattel.
Al contrario, “Licca chan, più domestica e dolce, rappresenta un ideale nato in sintonia con quelli giapponesi, oltre ad essere un personaggio nel quale è obiettivamente più facile rispecchiarsi”, riassume Anna Specchio.
Non dimentichiamo, però, la componente aspirazionale: Licca-chan è vicina alle bambine che giocano con lei, ma per loro rappresenta comunque un modello a cui ispirarsi. In questo senso, Licca-chan potrebbe costituire una via di mezzo fra quello che le bambine sono e quello che vorrebbero essere o diventare.
Le rare volte in cui viene proposta in versione adulta, Licca rimanda talvolta a qualche professione, ma gli esemplari più celebri (e venduti) sono quelli che la vedono aderire all’immagine della donna come sposa, moglie, casalinga e madre. Possiamo citare l’esempio della Licca-chan incinta uscita nel 2001, in contemporanea con il parto e la nascita della figlia dell’attuale imperatrice Masako, moglie dell’imperatore Naruhito.
Miho Tsukamoto scrive che l’improvvisa gravidanza di Licca-chan sorprese i fan, ma la bambola riscosse un enorme successo. Al contrario, quando un anno più tardi uscì sul mercato statunitense una versione incinta di Midge, bambola-amica di Barbie, Mattel fu accusata di promuovere le gravidanze in età adolescenziale: venne alzato un polverone tale che la casa produttrice fu obbligata a ritirare il prodotto dal mercato.
La natura aspirazionale della bambola si ricollega infine ad un’altra componente del personaggio: Licca-chan è per metà giapponese (da parte di madre) e per metà francese (da parte di padre).
Il suo aspetto non risulta dunque alieno al pari di quello di Barbie, ma conserva un fascino esotico che rimanda all’immaginario europeo e quindi a quel concentrato di eleganza e romanticismo di cui – agli occhi delle ragazzine giapponesi – risultano pervase la moda, la musica, l’arte e la cultura occidentale, tutti elementi che avevano notevolmente influenzato l’estetica shōjo. Presentare una bambola che rimanda a quest’universo valoriale permette alle bambine giapponesi di giocare con un personaggio che da un lato risulta vicino a loro, dall’altro fa parte di un mondo lontano e affascinante.
Non a caso, nel Giappone della fine degli anni ’60 trovarono la fama molte celebrità biracial, fra cui Linda Yamamoto, Seri Ishikawa, Yoko Caroline e un’intera girl band dal nome Golden Half. E così, mentre Mattel si affannava a far uscire bambole con capelli scuri e kimono per attrarre (invano) l’attenzione delle bambine giapponesi, nel Paese del Sol Levante scoppiava la fascinazione per le idol di origini miste (hāfu).
In particolare, Nozomi Masuda sostiene che la modella Emily Takami, per metà australiana, abbia avuto un ruolo fondamentale nell’influenzare il background di Licca-chan, tanto che – come scrive Yasuhiro Kojima, ex capo della produzione di Takara Tomy – in origine la modella sarebbe dovuta apparire nella campagna pubblicitaria di Licca-chan e la stessa bambola si sarebbe dovuta chiamare Emily.
Emily Takami compariva spesso sulle copertine di Shōjo No Tomo sul finire degli anni ’60.
Il look che ancora oggi contraddistingue Licca, con la frangetta e gli abitini corti, deriva direttamente dall’epoca in questione.
Fonte prima immagine. / Fonte seconda immagine.
Fra gli anni ’70 e gli ’80, in linea con la storia e l’evoluzione dei manga per ragazze, anche l’aspetto di Licca raggiunge un punto di non ritorno in cui l’aspetto vagamente occidentale, rappresentato dai capelli castani o biondi, finisce per assumere un valore puramente estetico che esula da ogni riferimento etnico. Infatti, se nelle prime opere di Macoto Takahashi, padre fondatore dello shōjo manga, le ragazzine giapponesi avevano i capelli mediamente scuri, e i capelli biondi erano riservati solo alle straniere o alle hāfu, con il tempo l’estetica shōjo supera questa divisione, tanto che le capigliature delle eroine dei fumetti per ragazze finiscono per assumere i colori più svariati, senza più badare all’etnia e alla verosimiglianza. Il biondo non viene più utilizzato solo per i personaggi occidentali, e a questo si aggiungono molti altri colori di capelli, anche innaturali (rosa, blu, verde…), con lo scopo di attirare l’attenzione delle giovani lettrici sugli scaffali delle edicole.
Sulle copertine delle riviste shōjo, il colore di capelli diventa un concetto astratto: uno stesso personaggio può perfino avere i capelli di un colore diverso a seconda dell’illustrazione.
La stessa Licca-chan adotterà capelli di numerosi colori (biondi, ma anche rosa, lilla, turchesi…), che nei decenni si sovrapporranno al castano-rossiccio delle origini, anche se quest’ultimo resta forse il più iconico.
I capelli di Licca-chan sono castani nella sua prima apparizione in versione animata (negli OAV usciti fra il 1990 e il 1991), ma sono biondi nella serie animata SuperDoll Rika–chan, trasmessa fra il 1998 e il 1999.
Col tempo, l’aspetto di Licca si è dunque slegato dal concetto di hāfu, tanto che la maggior parte dei giapponesi non è a conoscenza dell’etnia mista del personaggio.
Il target giapponese di Barbie
Infine, ecco l’ultimo tassello dell’analisi, quello che rende la storia ancora più complessa e interessante. Ossia il fatto che Barbie abbia trovato successo in Giappone… fra il pubblico adulto.
E non sotto forma di bambola, ma di abiti, accessori e complementi d’arredo.
Non è un caso che la più grande collezionista di oggetti brandizzati “Barbie” sia la giapponese Azusa Barbie, che da anni riempe la sua casa con item a tema (ha cominciato a 15 anni con una lunch box).
Il fascino che Barbie esercita nei confronti degli adulti giapponesi, come spiega la stessa collezionista, risiede nella sua estetica profondamente “pop” e spiccatamente americana, meglio ancora se vintage.
Questo ci fa pensare a influencer come @pecotecooo e @ryuzi33world929 che sul vintage statunitense – soprattutto anni ’80 e ’90 – ci hanno costruito uno stile, una casa e una carriera.
Insomma, il merchandise di Barbie viene concepito come qualcosa di pervasivo, qualcosa di cui circondarsi per entrare appieno nel mood.
E così, Arisa Shibagaki suggerisce che, raggiunta l’adolescenza e l’età adulta, le giapponesi possano finalmente apprezzare lo stile americano, cool e adulto di Barbie e quindi immedesimarsi in lei, o se non altro desiderare di aderire al suo lifestyle californiano. Secondo Shibagaki, nel momento in cui le ragazze e le donne giapponesi vestono abiti di Barbie, utilizzano i suoi accessori e arredano le loro case a tema, è come se diventassero Barbie. Shibagaki sostiene che le vogliano assomigliare in virtù della fascinazione che provano per la bellezza e lo stile occidentale, ma tale interpretazione può risultare semplicistica, se non fallace. La stessa Azusa afferma di non voler essere Barbie (“I’m not trying to be like Barbie”), ma semplicemente di apprezzarne lo stile, l’atteggiamento, il mood e il design.
Risulta più verosimile, dunque, pensare che il gusto delle ragazze e delle donne giapponesi cambi nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza (o all’età adulta), avvicinandosi a un universo di valori estetici che coniuga il kawaii con il kakkoii.
Se il sentimento legato al kawaii è quello che si prova davanti a Licca-chan, vista come qualcosa di piccolo e carino da proteggere (e per cui provare pena), il significato di kakkoii è simile all’inglese cool, e quindi si riferisce all’aspetto e all’atteggiamento di una persona che appare forte, attraente, carismatica, indipendente – tutti tratti che, in un contesto basato su una rigida divisione dei ruoli di genere, vengono associati maggiormente alla dimensione maschile, come fa notare Shigabaki.
In definitiva, l’aggettivo kakkoii fa riferimento ad una persona che ammiri e che non ha bisogno della tua protezione, in contrasto con la figura femminile tradizionale, e con ciò che definiresti kawaii. Naturalmente, i concetti di kawaii e kakkoii sono riferibili a qualunque cosa, da persone realmente esistenti a personaggi di fantasia, fino ad accessori e indumenti. E così, scrive Shibagaki, al kawaii si associano capi e accessori infantili, graziosi e femminili (pizzi, fiocchi, merletti), mentre la moda kakkoii è maschile o neutra, sicuramente più sobria ed essenziale. Al rosa, al bianco e alle tonalità pastello del kawaii si contrappongono il nero, il blu e il khaki del kakkoii.
Secondo Shibagaki, lo stile di Barbie è kawaii in quanto iper-femminile a livello di colori, fantasie e materiali, ma è kakkoii nel suo essere spiccatamente occidentale, e quindi legato all’idea di una donna che lavora, forte e indipendente come gli uomini. Barbie può quindi coniugare il concetto tradizionale giapponese di kawaii con quello occidentale e progressista di cool/kakkoii, costruendo un ponte fra due diverse immagini femminili.
E forse solo un tale compromesso poteva essere la via per conquistare il mercato di un Paese, come quello del Sol Levante, che vive di contrasti e contraddizioni.
Per leggere la mia analisi su come Barbie ha rappresentato oltre 60 anni di storia americana, clicca qui.
Bibiliografia
Covito, Carmen. “Cose a forma d bambola” in Covito, Menegazzo, Sica (a cura di), Kokeshi. Il Tohoku fra tradizione e design, Scalpendi, 2020
Shibagaki, Arisa. The Barbie Phenomenon in Japan, 2007.
https://etd.ohiolink.edu/apexprod/rws_etd/send_file/send?accession=bgsu1182390653&disposition=attachment
Tsukamoto, Miho. Idealization of Licca-chan and Barbie: Comparison of Two Dolls across the Pacific.
International Journal of Humanities and Social Sciences Vol:8, No:9, 2014
https://zenodo.org/record/1100112/files/10000938.pdf
Sitografia
Boscarol, Matteo. “Licca-chan, l’anti Barbie in bella mostra”, Il Manifesto, 2017.
https://ilmanifesto.it/licca-chan-lanti-barbie-in-bella-mostra/
Jones, Terril. “Japanese Toymakers in Heated Dispute over Barbie Doll”, APNews, 1996.
https://apnews.com/article/b9956ef70805476eb4341924dc69ad49
Luttner Kathryn, “Brand Superfan of the Week: Barbie’s Azusa Sakamoto”, Campaign Live, 21 febbraio 2017.
https://www.campaignlive.com/article/brand-superfan-week-barbies-azusa-sakamoto/1424624
Okazaki, Manami. “Living doll: Licca-chan’s legacy lives on”, The Japan Times, 2017.
https://www.japantimes.co.jp/life/2017/07/08/lifestyle/living-doll-licca-chans-legacy-lives/
Pollack, Andrew, “Barbie’s Journey in Japan”, The New York Times, 1996.
https://www.nytimes.com/1996/12/22/weekinreview/barbie-s-journey-in-japan.html
Watanabe, Teresa. “Culture : ‘Doll Wars’ Challenge Female Ideal : Japan likes ‘cute.’ America likes ‘sexy.’ So, Barbie and Licca duke it out in toydom.”, Los Angeles Times, 1992.
https://www.latimes.com/archives/la-xpm-1992-10-27-wr-979-story.html
Videografia
I Live In A Barbie Dreamhouse, Refinery29, 2021.
https://www.youtube.com/watch?v=iH_UfUybUWk
The Evolution of Takara’s Licca-chan Dolls, Have You Heard, 2021
https://www.youtube.com/watch?v=p1i2B-LmH_U
The History Of Barbie in Japan, Have You Heard, 2020
https://www.youtube.com/watch?v=YfZ0OtArrYs
The Toys That Made Us (stagione 2, episodio 4), 2018.
Disponibile su Netflix.
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